Piccoli adulti – racconto di Sofia Rigoli
Redazione2024-11-04T09:58:35+01:00Il Bambino aveva appena otto anni quando decise di arrampicarsi, con l’aiuto di una scala, fino al punto più alto dell’armadio dei suoi genitori. Con difficoltà riuscì a portare giù la valigia, la poggiò sul letto e rimase a guardarla. Sapeva di voler partire, ma solo in quel momento si accorse che non sapeva cosa portarsi dietro. Infine, la riempì di tutte le cose che pensava gli sarebbero servite: il quaderno, una matita e una sciarpa – sua mamma gli ripeteva di non dimenticare mai la sciarpa, nel caso in cui la temperatura si fosse abbassata.
Era iniziato tutto il pomeriggio in cui, mentre disegnava, si era reso conto che i colori a matita ricevuti in regalo il giorno del suo terzo compleanno si erano ridotti in mozzi. Erano diventati inutilizzabili e si erano polverizzati tra le sue mani. Aveva pregato i genitori di comprargli delle nuove matite colorate, ma loro avevano ribattuto che ormai era troppo grande per disegnare, che sarebbe presto giunto il momento per lui di crescere e cominciare a pensare al lavoro. Il Bambino aveva deciso che se non le avessero acquistate loro lo avrebbe fatto lui stesso, e quindi aveva deciso di partire. Avrebbe trovato da solo il modo per poter tornare ai suoi fogli bianchi. A sua madre e suo padre questo però non lo aveva detto. Invece, aveva risposto che non voleva crescere, che voleva disegnare e basta. Ma era solo un bambino, e non ne sapeva niente della vita.
Quando immaginava di superare i confini della sua città, si prefigurava una scarica di adrenalina attraversargli il corpo mentre un nuovo mondo lo accoglieva con tutta la sua energia e tutti i suoi colori. Non appena il momento arrivò, non sentì nessuna di quelle cose. Il mondo non era cambiato, niente dentro di lui si era rivoltato, niente aveva rivoluzionato la sua vita. Tutto era uguale a prima. Il Bambino era deluso, ma non demoralizzato. Andò avanti. Camminò per ore, camminò finché non gli facevano male i piedi. Quando finalmente decise di fermarsi, stretto nella sua sciarpa, ebbe la fortuna di trovare una casa che affacciava proprio sulla strada. Si fece coraggio prima di bussare, quasi avesse difficoltà a muovere la mano a causa delle dita congelate.
La porta fu aperta da una vecchia signora vestita di nero, un grembiule sporco alla vita. Guardinga scrutò il Bambino, si assicurò che fosse solo.
“Cosa vuoi?” chiese a quel punto.
“Buonasera, signora. Vengo da un paese lontano, sono in viaggio. È tardi, e ho freddo, e non ho niente da mangiare. Le chiedo rifugio solo per questa notte.”
“Devo chiedere al Padrone. Aspetta qui.”
Quando la donna tornò per avvisare il Bambino che il Padrone aveva acconsentito a ospitarlo per una notte, lo ammonì, facendogli promettere che non avrebbe disturbato né fatto rumore. Lui promise. La casa era spaziosa ma spoglia. Il Bambino si ritrovò in una stanza così grande che ogni suo passo echeggiava. Immaginò come sarebbe potuto diventare un salone come quello se avesse avuto un luccicante lampadario al tetto, un lussuoso tappeto ai suoi piedi e dei grossi quadri dalle cornici d’oro appesi a quei muri. Smise presto di fantasticare quando la signora, tirandolo per una manica, lo condusse alla camera degli ospiti.
“Il Padrone è stato così gentile da invitarla a cena tra mezz’ora” gli disse, prima di chiudere la porta senza attendere risposta.
Il Padrone era un uomo basso e tozzo, dalla faccia costantemente compiaciuta come se avesse appena concluso un buon affare. Erano seduti a una tavola lunga e vuota, occupando i due posti a un capo e all’altro. Il Bambino lo ringraziò per la generosità.
“Non sono solito fare queste cose, ammetto.”
“Come mai?” si informò il Bambino, più per curiosità che per necessità di fare conversazione.
“Si lavora meglio in silenzio.”
Il Bambino avrebbe voluto rispondere che non stavano lavorando, stavano mangiando. Ma non disse niente.
Il Padrone spiegò che raramente era a casa per cena, e che spesso rimaneva a lavorare. Gestiva un’azienda che produceva stoffe, a quanto aveva capito.
“È un peccato, questa casa è bellissima!” si complimentò il Bambino, guardandosi in giro.
“Come pensi che sia stato capace di permettermela e mantenerla, eh?”
“Deve essere molto difficile il suo lavoro, allora. Non riesco nemmeno a immaginare cosa significhi gestire un’intera azienda.”
“Nessun lavoro è difficile. È solo lavoro.”
Il Bambino annuì, spingendosi un pezzo di pane in gola. “Mi piacerebbe saperne di più” disse con la bocca ancora piena.
“Cosa vuoi sapere?”
“Non saprei… Quali sono le cose importanti da conoscere su come fare il suo lavoro?”
Il Padrone si illuminò, raddrizzandosi sulla sedia, come se avesse improvvisamente capito quale perla di saggezza offrire al Bambino.
“Per prima cosa, bisogna essere disposti a lavorare duro, tutto il giorno, tutti i giorni. Non ci si può riposare se si vuole diventare ricchi come me. Ma il vero segreto del mestiere è quello che viene dopo. Bisogna infatti essere parsimoniosi con i propri soldi, non condividerli con nessuno. Altrimenti, se avessi cominciato a comprare altre cose, non sarei più ricco.”
“Ma, signor Padrone, non sarebbe meglio avere una casa colorata e piena di cose belle e non essere ricchi? Nel suo giardino sarebbe bellissimo avere un’altalena…”
“Certo che no, Bambino! Stai ascoltando quello che dico?”
Il Bambino annuì di nuovo.
“Inoltre,” aggiunse il Padrone, “tutti i soldi che guadagno li devo spartire con i miei lavoratori. Per essere un amministratore ricco, bisogna tenere la maggior parte dei soldi e dare lo stretto necessario agli altri.”
“Ma non è giusto” ribatté il Bambino, con la forchetta ferma a mezz’aria.
“Non ho mai detto che lo fosse. Se vuoi posso insegnarti a essere come me, così che un giorno potrai essere ricco.”
“Non saprei, diventare ricco mi renderebbe una persona cattiva?”
“Che importa? Cattivo o no, puoi fare quello che vuoi se guadagni.” Il Padrone scrollò le spalle, come a volersi liberare del silenzioso giudizio del Bambino. A quelle parole, il viso di quest’ultimo si illuminò: “Potrei anche comprare delle matite colorate nuove?”
“Certo, potresti comprare tutte le matite colorate che vuoi, se fossi ricco e cattivo.”
“Ma io voglio essere buono.”
“Non importa, Bambino. Non riuscirai mai a essere buono dalla testa ai piedi” rispose il Padrone, allacciando le dita delle mani tra di loro.
“Ma lei non è cattivo, mi ha invitato qui, mi ha offerto un pasto e un riparo.”
“Siamo tutti i cattivi nella storia di qualcun altro. Non sarai mai l’uomo che c’è nel tuo cuore” concluse il Padrone appoggiando le posate al centro del piatto vuoto davanti a lui, “ma puoi sempre essere un uomo di successo.”
Il Bambino ringraziò per la cena e per l’ospitalità, e ripartì il giorno dopo alle prime luci dell’alba.
Il tragitto fu noioso e privo di accadimenti. Avvolto dal grigio, il Bambino camminò accompagnato dal ricordo del fischio degli uccelli e dal colore degli alberi. Si fermò a riposare sotto un ponte, seduto sui sassi del letto del fiume che una volta doveva aver ospitato dell’acqua. Tirò fuori il suo quaderno, ma appoggiando la matita povera di colore sul foglio non venne fuori niente. Si guardò attorno, ma niente sembrava voler fuoriuscire dalla punta affilata che teneva tra le dita. Realizzò che non aveva di che disegnare. Tornò a pensare a quello che aveva immaginato camminando, e sfogliando i ricordi ne scelse uno tanto lontano nel tempo quanto colorato. Una volta finito si alzò in silenzio come era arrivato, e si rimise in cammino.
Il Bambino fu molto contento di scorgere del fumo all’orizzonte, e sperò che continuando a camminare in quella direzione avrebbe incontrato una casa, magari qualcuno che potesse aiutarlo a capire dove si trovasse. Man mano che si avvicinava, gli sembrava però che quella non fosse affatto una casa. No, era una grossa struttura tutta grigia che quasi si confondeva con le nuvole, raggruppata su sé stessa come se sentisse freddo. Entrare lo spaventava, ma erano ormai giorni che vagava senza meta. Si fece coraggio e varcò i grossi cancelli, lasciati spalancati. Un odore forte lo accolse, inglobandolo come se l’edificio lo stesse chiamando a sé. Il Bambino si guardò attorno: decine di persone camminavano frettolose a destra e a sinistra, chi spingeva un telaio su ruote e chi portava grossi pacchi. Avevano gli occhi bassi e non si curarono del Bambino, al punto che lui si domandò se lo avessero anche solo visto. Gli toccò addentrarsi ancora di più nello stabilimento dove altrettanti uomini stavano armeggiando con grossi macchinari. Erano tutti vestiti uguali, con delle uniformi blu che li coprivano dalla testa ai piedi e dei grossi guanti neri alle mani. Il Bambino fece un tentativo e approcciò uno di loro, picchiettandogli la spalla con un dito. L’uomo sobbalzò.
“Mi dispiace averla spaventata, volevo solo farle una domanda” si scusò il Bambino.
L’uomo si girò a destra e a sinistra, per poi tornare sul Bambino.
“Parli con me?”
“Sì, con lei! Posso farle una domanda?” ripeté il Bambino, offrendo un sorriso speranzoso.
L’Operaio sembrò compiaciuto.
“Certo, nessuno mi fa mai domande. Però vieni, devo finire di lavorare questa ghisa prima che si raffreddi.”
L’Operaio tornò a concentrarsi su quello che stava facendo, armeggiando con il grosso macchinario che li sovrastava entrambi. Non appena lo azionò, quello strano aggeggio produsse un boato e il Bambino fece istintivamente un passo indietro. L’Operaio ghignò, e gli fece cenno di avvicinarsi. Il rumore era forte e molto fastidioso, così il Bambino dovette andarsi a mettere accanto a lui per sentire cosa stava dicendo.
“Cosa volevi chiedermi?” ripeté l’uomo una volta che furono spalla a spalla.
“Volevo sapere dove siamo” gli urlò il Bambino.
“Siamo in un’industria siderurgica” replicò l’altro, indicando con il capo il macchinario davanti a lui, come se chiarisse tutto.
“Una cosa?”
“Un’industria siderurgica. La siderurgia riguarda tutte le tecniche utilizzate per estrarre, produrre e lavorare il ferro. Quando si trova in forma pura è duttile e malleabile, per questo si può trattare facilmente a caldo. Così come la ghisa, che è fusibile al pari del ferro ma non è corrodibile. Qui, per esempio, costruiamo dei pezzi molto complicati, cioè i motori.”
Il Bambino non aveva capito bene cosa l’Operaio gli avesse appena spiegato, ma sapeva per certo che il suo lavoro gli sembrava molto più utile di quello del Padrone: consisteva in qualcosa di pratico, di tangibile.
L’Operaio si voltò di nuovo verso il Bambino, lo squadrò per intero prima di tornare al suo lavoro.
“Sai, mi ricordi mio figlio,” disse riazionando la macchina. “Certo, ormai non sarà più così, mi immagino che sia un uomo cresciuto.”
“Dove è andato?” chiese il Bambino, dispiaciuto per l’Operaio che aveva perso il figlio.
“Sono io che sono andato via. Quando mi hanno assunto in questa fabbrica quindici anni fa ho dovuto salutare la mia famiglia, mia moglie e mio figlio.”
Il Bambino si sentì improvvisamente molto triste, e pensò a sua mamma e suo papà, ormai lontanissimi da lui.
“Non li ha rivisti mai più?”
L’Operaio scosse la testa. Il suo sguardo sembrava perso nel vuoto, e nonostante questo le mani non si erano fermate, anzi, si muovevano meccanicamente come per memoria muscolare.
“Però provvedo per loro. Divido il mio salario in quattro parti: tre quarti glieli spedisco e uno mi serve per vivere.”
“Non vorrebbe andare a trovarli?” domandò il Bambino, che non riusciva a immaginare di non vedere i suoi genitori per quindici anni.
“Perché dovrei? Qui posso lavorare, e se io lavoro loro possono permettersi di vivere.”
L’Operaio finalmente spense quello strano marchingegno rumoroso.
“Non le mancano?” insistette il Bambino.
“Che senso avrebbe? La nostalgia è inutile, non li aiuta in nessun modo. Lavorare aiuta me e loro, quindi è quello che faccio.”
Il Bambino non sapeva cosa rispondere, non ne sapeva molto di cosa significasse lavorare, ma sapeva che la sua famiglia gli mancava ogni giorno di più.
“Posso farle un’ultima domanda?”
L’Operaio acconsentì, ricaricando il suo macchinario di nuovo materiale.
“Saprebbe dirmi dove posso trovare delle matite colorate?”
L’Operaio lo guardò confuso, poi sollevò le spalle come se avesse rinunciato a cercare un senso nelle domande del Bambino.
“Non vedo a cosa ti possano servire, ma ci sarà sicuramente una fabbrica che le produce. Questa è una zona industriale, se segui il fumo prima o poi ne troverai una.”
Il Bambino lasciò quella fabbrica molto dispiaciuto per l’Operaio, ma riconoscente per avere ravvivato in lui la fiducia che avrebbe trovato le sue matite colorate.
Non troppe ore dopo, il Bambino si ritrovò nei pressi di un complesso bianco e squadrato. Questa volta non esitò a varcarne i cancelli, e corse dentro con entusiasmo.
Una figura minuta stava armeggiando con una macchina, che il Bambino scoprì, avvicinandosi, essere una grossa stampante. Accanto a lui erano attentamente posizionati e correttamente etichettati diversi tipi di lastre e inchiostri.
Si avvicinò con curiosità, intenzionato a chiedere indicazioni.
Salutò, poi si fece coraggio e domandò: “Non voglio disturbarla, ma mi servirebbe una mano. Può aiutarmi?”
La figura gli fece cenno di raggiungerlo, e quando entrambi vicini il Bambino riuscì finalmente a vederlo in faccia. Aveva i lineamenti soffici come i suoi, le mani piccole e le dita grassocce, il naso all’insù e le guance rosse. Gli somigliava. Il Bambino guardò la scena timidamente, aspettando che fosse l’altro a fare un passo avanti. Quello però non si presentò, come se non fosse necessario. Così il Bambino decise di battezzarlo Piccolo Adulto. Faceva ridere, in tutto il suo metro e trenta, vestito di bianco e nero, la camicia ben stirata e la cravatta perfettamente allineata con la riga dei capelli altrettanto ordinati. Non aveva un bottone fuori posto, e con la sua espressione professionale e la postura composta invitò il Bambino ad avvicinarsi ancora.
“Non mordo, ma ho poco tempo. Cosa ti serve?”
“Volevo solo delle informazioni.”
Il Bambino venne presto distratto dalle mani di Piccolo Adulto, che abilmente si districavano tra le banconote separandole a una a una e riponendole tutte insieme, una volta finito di contarle, in tanti piccoli blocchi.
“Chiedi pure.”
“Che sta facendo?”
“Stampo banconote,” spiegò Piccolo Adulto indicando attorno a loro tante altre stampanti come la sua, attrezzate come la sua, controllate da altri piccoli adulti come lui. Il Bambino avrebbe voluto poter disegnare quella scena. Si guardò bene in giro, cercando di imprimersi in mente quell’immagine in modo da poterla trasformare in uno dei suoi disegni.
“Perché?”
“Perché è il mio lavoro.”
“Oh, il lavoro sembra interessante. A me piace disegnare, spero che un giorno potrò fare l’artista.” Il Bambino gli trotterellò attorno. “Che ve ne fate poi delle banconote che producete?” chiese dopo, sfiorando uno dei mazzetti accanto a lui.
“Le contiamo.”
“E dopo che le contate?”
“Le inscatoliamo e le mettiamo da parte.”
“E dopo che le mettete da parte?”
“Niente, stanno al loro posto.”
“Ma non ha senso!”
“Non deve avere senso, Bambino. Questo è il nostro lavoro. Dobbiamo limitarci a farlo.” Piccolo Adulto si fermò per la prima volta a guardarlo. “Io servo il mio paese. L’arte a che serve?”
Il Bambino non era sicuro della risposta. Non sapeva a cosa servisse l’arte.
“Mia mamma dice che l’arte non serve nessuno e quindi non serve a niente. È vero?”
“Non saprei, Bambino. Come ti ho detto, io faccio solo il mio lavoro.”
“Oh” rispose lui, quasi dispiaciuto per Piccolo Adulto. “Quindi non è mai uscito da questo posto? Ha fatto questo per tutta la vita?”
“No, non ho sempre fatto questo. Ma non sono mai uscito da questa fabbrica. Ci sono troppe cose da fare, e troppo poco tempo.”
“Mi dispiace. Là fuori non è molto diverso da qui, eppure non è così male” rifletté il Bambino. “Vuole che le racconti il mio viaggio?”
Piccolo Adulto assentì titubante.
Il Bambino cercò di trovare un modo per descrivere a Piccolo Adulto quello che aveva visto, ma non sapeva da dove iniziare. Non sapeva come.
“Ora che ci penso,” disse quindi, “forse è meglio se glielo mostro. Vuole vedere il mio quaderno?”
“Non c’è tempo” rispose l’altro con naturalezza, come se fosse una risposta così ovvia da non poter essere presa per disinteresse o maleducazione.
“Lavora da sempre! Può fermarsi per qualche minuto.”
“Non importa, più si produce più si guadagna.”
“È per questo che stampa banconote?”
“Sì, per guadagnarne altre in cambio.”
“Perché non tiene quelle che stampa, allora?” domandò il Bambino, più confuso di prima.
“Non funziona così. Bisogna mantenere un ordine, altrimenti ognuno farebbe ciò che vuole.”
“E perché le servono? Sono solo carta, alla fine.”
“No, servono per guadagnarsi da vivere. Per comprare da mangiare, per pagare l’affitto e le bollette.”
Il Bambino cominciava ad avere la sensazione che Piccolo Adulto spendesse molto più tempo a guadagnarsi da vivere che a fare qualsiasi altra cosa. Ma a essere onesti, nemmeno lui aveva molta esperienza nella vita. Così non disse niente a riguardo.
“Posso chiederle una cosa?”
“È quello che stai facendo da circa dieci minuti.”
Il Bambino lo ignorò.
“Se non ha sempre fatto questo, che lavoro faceva prima?”
“Il bambino!” rispose Piccolo Adulto, continuando a sfogliare i mazzetti di banconote.
“Era difficile?”
“No, ma era anche quello un lavoro a tempo pieno.”
“Le piaceva?”
“Non saprei.”
“Come fa a non saperlo? Non ha senso.”
“Quando sei un bambino non ti fermi molto a riflettere sul senso delle cose. Le fai e basta.”
Il Bambino guardò a lungo Piccolo Adulto, cercando di immaginarsi nei suoi panni, cercando di immaginarsi cresciuto anche lui.
“Quando sarò grande e ricco come voi, comprerò tutti i colori che voglio.”
“Quando sarai grande non ti interesserà più dei colori. I colori sono interessanti solo nell’infanzia, ma l’infanzia non serve a niente, ti conviene liberartene il prima possibile.”
“Non vorrebbe poter vivere la sua infanzia anche lei?” chiese il Bambino, interessato.
“No, perché dovrei volere una cosa del genere? Qua sono utile, ho il mio lavoro, servo a qualcosa. I bambini sono utili solo a sé stessi.”
“Anche lei è un bambino.”
“No,” lo corresse Piccolo Adulto, “sono un piccolo adulto.”
Il Bambino non seppe cosa rispondere. Non poteva dargli torto.
Si rese conto di essersi dimenticato dove era diretto, o come era arrivato lì. Così si sedette accanto a Piccolo Adulto, incrociò le gambe, e rimase a guardarlo lavorare in silenzio. Si chiese se un giorno anche lui, una volta cresciuto, avrebbe contato le banconote come Piccolo Adulto.
Sofia Rigoli