Il melograno – racconto di Gian Marco Ferone

Il melograno – racconto di Gian Marco Ferone

A Giorgia.

Le aveva portato qualcosa di rotondo, avvolto in una carta non sbiancata, ed era rimasto fermo sulla porta a guardarsi diventare ombra nel bagliore del legno, a farsi le ali col riflesso nei due vasi di ceramica ai lati: nel cielo nuvoleorche a ventre di carcinoscorpio facevano un idrolivido sul mare. Cadevano le prime gocce: tac-ta-tac-ta-tac-ta-tac-tac ta-ta tac-ta-ta-ta-tac. C’era l’afa.
«A forza di stare sulla barca hai imparato ‘sta pazienza? ah?», gli aveva domandato mentre apriva.
Era alta, così magra nella veste sanguesughero macchiata sotto le braccia; le si vedevano il petto e le caviglie tutte lazzariate dalle punture dei pappataci; i capelli gonfi erano tenuti da un fermaglio e lucidi, tagliati sulla fronte in una frangia a nascondere le orbite che oltrepassavano qualunque misura naturale, ma le lenti, due sassi trasparenti cerchiati di metallo studiati per fare normali quegli occhimannari, se le era levate, e se le era levate appena, perché c’erano i segni sul naso. Senza lenti, gli occhi – ma niente, neanche per questo se ne andava, eppure glieli aveva spalancati in faccia.
«Entra. È meglio se te ne vai».
Aveva letto la carta in cui era stato avvolto il frutto e l’aveva gettata.
«Mangia la melagrana».
«Il melograno».
«Questo è maschio?»
«È sempre maschio».
«Che ne sai?»
Lui aveva raccolto la carta, l’aveva stesa e poggiata sul pianoforte.
«Suoni quella?», le aveva chiesto.
«Vuoi impararla?»
«–»
«Perché non vuoi impararla se ti piace?»
«Non so farla».
Lei aveva lasciato cadere a terra la melagrana, «Sta bene là», e aveva cominciato a premere i tasti.
Sedeva all’organo, affianco a una colonna scavata di buchi e motivata a clavaria, e lo fissava con gli occhi tutti aperti. Avevano continuato a guardarsi quando la gente se ne andava, ed erano rimasti soli vicino al pulpito scolpito col mostro marino; il vento soffiava a spirale dal nartece e le sollevava la frangia scoprendo gli archi delle sopracciglia, a lui scomodava il bavero sulla guancia, dove sotto lo zigomo si tiravano tre righe bluastre.
«Lo sai che il mostro si è arrampicato sul pulpito quando è apparsa la Vergine ma poi il Signore l’ha pietrificato?»
«Se la voleva mangiare».
«Tu sei la figlia di ******?»
«E quindi che vuoi fare? Vuoi mangiarmi tu a me, che tieni la faccia?»
Aveva iniziato ad andare da lei quando era troppo brutto per uscire per mare. Sulla porta gli faceva giurare che capiva che non lo voleva, che non dovevano farlo.
«Ma io voglio sentire il pianoforte, che ci sta di male?»
«Giura lo devi giurare».
Se giurava, gli apriva, ma a volte diceva solo: «No, è venuto mio padre», e per qualche giorno non rispondeva più quando andava a bussarle.
Provava a insegnargli qualcosa ma si rifiutava di fare le scale, gli esercizi, solo stava a sentire lei che, passate le due ore della «lezione», smetteva di premere i tasti e restava ferma a fissarlo, non rispondendo se le parlava, non muovendosi se cercava di prenderle la mano.
Le aveva detto una cosa, una volta. Lei aveva preso una melagrana secca e aveva detto: «Questo posso darti», e gliel’aveva messa nel palmo.
Il pendolo nella sala non dava il tempo dei Lari, no, ma usciva da quello del metronomo e diceva lon-ta-ta-no-ta-ta-tan-to-lon-ta-ta-no.
«Perché continui ad aprirmi la porta?»
«Perché ti insegno il pianoforte».
«Non mi insegni – che dici mi insegni? Io vengo a sentirti suonare e spero che quel giorno –»
«Anche io spero che ascoltandomi prima o poi impari».
«Questo è il motivo».
«Sì».
«Non è perché mi vuoi bene».
Aveva preso lo spartito di quello che le chiedeva sempre.
«Non la vuoi imparare?»
«Non mi vuoi bene?»
«Il mio cuore lo tieni tu in mano».
Il frutto della morte che lega per sempre all’amore stava fra le sue dita sottili, con poca carne e sporche della polpa di qualcosa; il frutto dalla pelle di santoreliquia, col sapore di terra su cui si fa l’ultimo saluto, color di passaggio.
«Fai la parte triste dell’inizio».
Aveva messo due pagine una accanto all’altra, «Il Notturno come inizia finisce, vedi», e aveva cominciato a premere i tasti.
Alla fine dei giorni sotterranei, doveva pulirlo dalla polvere; per levarsela dai muchi tossiva e sputava ma a volte si era trovata a leccarsela dalle labbra; gli rovesciava addosso catini d’acqua, ma i pezzi più grossi serviva staccarglieli a uno a uno dai capelli e dalla barba. Una volta ne era caduto uno con un tac secco, ed era grande e si era mosso un poco come la falenaglia intorno alla lampada: lei aveva stretto gli occhi e aperto la bocca, silenziosa per un momento, poi aveva gettato fuori la lingua, aveva piegato il collo in avanti e aveva inarcato la schiena.
«Ti faccio schifo», aveva detto il padre.
Il sudore le scendeva sulle costole, usciva dal pomodadamo – il diaframma riscendeva, risaliva, e veniva fuori altro liquorsalelettrico. Quell’acqua era sulle creste iliache che tiravano la pelle, sull’estremità sternale a forma di mano focomelica, di furto mancato, sul processo xifoideo, sull’osso pubico, sull’acromiale lucidissimo: la calotta di qualcuno che da dentro le rivoltava le corde e la faceva indurire e le tirava gambe e braccia. La ghiandola aveva allagato di saliva sotto la lingua.
Il padre le aveva alitato vicino, e mandibola e mascella le si erano serrate con un clack.
Si era messo in cucina, oscillava davanti la finestra dei pini.
«Sembri una capadimorto, mettiti i capelli davanti alla faccia», e oscillava.
«E voi che – siete?»
«Tutti quelli che hanno lavorato sembrano morti», urlava, «mica come chi dindindindindin», e si era mosso nell’aria, «ma io non sono morto non sono morto non sono morto hai capito io non sono morto!»
La maniglia si era girata e la finestra si era aperta. Aveva di nuovo alitato vicino la sua faccia.
Si era morsa dentro le labbra, era corsa in camera, si era tolta la veste, aveva passato le falangi nel sudore sulla nuca e si era toccata l’occipitale; si era messa sui gomiti e le ginocchia, aveva gettato in alto il coccige e gli ischi, tenendo gli alluci l’uno contro l’altro, coi talloni che tremavano, si era spinta indentro il diaframma. Era caduto qualcosa di rotondo e coronato, attaccato a una corda, avvolto in una mucosfera rossastra.
Un piede aveva schiacciato la testa a un gambero. Avevano ributtato la rete dentro la mermercuriale ed era scomparsa nei riflessi, e ora sussultava o si muoveva a S, a barbacentenaria. Il corondoso aveva velocissimi movimenti sottopalpebrali, misto fra faro e bocca, l’infinito nerocetaceo riceveva una pupilla da ogni ombra. Erano tre strisce verderana, pietrabianca, spiaggia, il promontorio del paese contro le nuvole che sfumagrigiavano sotto l’occhiodicapra. La prua faceva dessinistra, sottessopra, dessinistra, non si fermava; i pescatori si scambiavano di posto, si passavano la mano sulla spalla, per un attimo si tenevano così e si mettevano a riannodare la lenza, a guardare una pietra che sembrava qualcos’altro.
La melagrana secca la portava nella calza, sempre la sua, intorno al torace vicino la bisaccia di pelle di spada.
«Che è una cipolla quella?»
«No, è il cuore dell’amanza».
«Ma tu lo sai il padre di quella che è? Perché ci vai a casa?»
Non rispondeva, si girava, spostava il pescato nella barca, si metteva quanto più poteva lontano.
«Oh lo sai che è?», gli aveva chiesto mettendogli la mano sulla spalla e un dito sotto il gilet.
Si era girato.
«Non c’è il padre».
La barca oscillava.
«Sei sicuro?»
La barca oscillava.
Oscillava mentre suonava, e la mandibola faceva dessinistra, dietravanti, dessinistra, non smetteva di stringersi e digrignare. Aveva smesso di premere i tasti e già lo fissava.
«Oggi sono venuto –», aveva detto raccogliendo da terra la melagrana.
Aveva soffiato dal naso e scosso la testa.
«Fammi parlare».
«No».
«Ho giurato».
«E quindi che vuoi? Non ti ho mai chiesto –»
«Voglio stare qua».
C’era stato un tuono vicino, il mare si gonfiava, cadevano le gocce, poche, piano: tac-ta-tac-ta-tac-ta-tac-tac ta-ta tac-ta-ta-ta-tac. C’era l’afa.
Si era avvicinata a lui che stava in piedi vicino la tenda, lo guardava da dietro gli occhiali: due sassi lucosi come pelle appena uscita dal ventre, neri di acqua sfragítida; la mareamassa perioculare si era imporporata, un cremisi si accaldava strano come un ematoma che si espande; tristi sorsi maremossi scendevano dagli occhi socchiusi da somnioside, verso il basso, luogo a luogo il paraselenio delle guance: prima in coppia, poi in terzine, dopo ancora senza numero, stupite, in fuga disordinata. La luce che veniva da fuori non era rossasolessera né d’oromiele, ma dello stesso colore del ramo d’edera che pendeva lungo la finestra; nella cornice si vedevano gli scogli chiomati di fuoco bianco, spruzzati di vene e momentanei coralli. Il tempo batteva: for-se-for-se-for-se –
Aveva avvicinato le falangi, facevano il segno di un acridide, la mano ruotava e il polso si torceva, l’anulare aveva degli scatti che lo moltiplicavano – l’aveva toccato sulla faccia.
«Tu lo sai che cosa fa», aveva iniziato a respirare col rumore di un graffio vetrato.
«Non succede più –».
«Che ne sai e se quando –»
«Non per forza», scuoteva la testa, «Non –»
C’era stato un suono nero e profondo: era il mare? era l’edera che camminava? era tutta la pioggia di un anno in un attimo? era il vuoto sotto la terra? era il si bemolle sul piano?

Gian Marco Ferone

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