Vita del conte di *** o Come l’imperatore del Giappone gli fece tornare l’appetito – racconto di Letizia Rigotto
Redazione2025-03-03T00:25:22+01:00Avvenne un giorno che nacque il piccolo conte di ***, il quale, quando venne alla luce, era così magro e rachitico che si dubitò potesse arrivare a un anno di vita. Seguito dai migliori medici, che a gran voce venivano chiamati da ogni parte del globo, questi tutti affermavano che il bambino non sarebbe morto, ma al tempo stesso dubitavano che sarebbe mai riuscito a prendere peso. Il perché non era certo un mistero: tutti, infatti, dai familiari, alla servitù, alla popolazione, si resero conto che il bambino non mangiava praticamente nulla, e che l’unica sua fonte di sostentamento erano dorati bicchieri d’acqua all’interno dei quali la madre si premurava di sciogliere, senza che il figlio se ne accorgesse, svariate zollette di zucchero.
Il piccolo e magro conte, dunque, quando fu cresciuto, faceva una misera impressione ai passanti i quali , reverenti, cercavano di ignorare gli occhi che uscivano dalle orbite del teschio, e che, ancora con più cautela ed eleganza, trattenendo un’espressione di disgusto, stringevano e baciavano le lunghe dita ossute del giovane quando questi le porgeva, talmente sottili che l’anello della casata ne sarebbe caduto, così che questi lo portava legato al collo.
Bisognoso di aiuto sia per alzarsi che per sedersi, a causa di quelle gambe magre che sicuramente si sarebbero spezzate, lo scheletrico conte passava le sue giornate disteso su una portantina, scortato per la città alle varie giostre ed eventi, e nulla di strano si sarebbe potuto dire di lui aldilà di questo suo aspetto: era infatti giovane dal carattere affabile e d’intelletto notevole, che più di una volta, anche se in pochi l’avrebbero creduto, aveva attirato l’attenzione di nobildonne che non si erano lasciate spaventare da quella sua fragilità.
Avveniva così che, se per tutte le altre mansioni questi aveva bisogno di un aiuto costante, per essere di buona compagnia si arrangiava da solo e, traballante, si faceva lasciare fuori dalla camera da letto, congedando portantina e servitù, prima di zoppicare attraverso la porta intralciato dai vestiti che, troppo larghi anche se ristretti, gli si infilavano sotto le suole.
Il giovane conte crebbe dunque, tranne che per quella sua strana magrezza, in un’assoluta tranquillità e serenità, così che gli antichi presagi di morte divennero lontani dai pensieri della corte. Anche la madre, prima così affranta per la condizione di quel povero figlio, aveva smesso di sciogliergli lo zucchero nell’acqua, avendo notato che, non si sa per quale ragione, non solo l’acqua bastava al suo sostentamento, ma che di fatto nessun cibo, ricco o povero che fosse, suscitava il suo interesse.
Come tutti i giovani nobili, arrivato alla soglia dei vent’anni, anche lo smunto conte, ormai annoiato dalla routine, fece desiderio di partire per un viaggio che l’avrebbe portato negli angoli più remoti del pianeta.
La madre, certo più tranquilla ma non del tutto serena, assecondò il desiderio del figlio, a patto che questi, oltre ai numerosi servitori, portasse con sé un amico fidato da lei scelto che gli tenesse compagnia.
Accettata la condizione della madre, il giovane si preparò per partire: fece impacchettare tutti i suoi cappotti e soprabiti, tutte le sue giacche e cappelli, tutti i suoi libri e gioielli e li fece sistemare in dei grossi bauli che, alla mattina della partenza, già lo aspettavano sulla nave mentre lui salutava con strette di mano e abbracci famiglia e amanti in lacrime.
Per tre anni avvenne che l’emaciato conte percorse il globo secondo la sua volontà: si fermò prima a Parigi, e in tre mesi comprò così tante stoffe e consultò così tanti sarti che servì impiegare una nave di scorta per stipare tutti i nuovi acquisti; percorse in otto mesi la catena montuosa delle Ande, dove nemmeno la latitudine lo convinse a cedere alla masticazione delle foglie di coca, così che lo si dovette legare al dorso del lama, che già una decina di volte era svenuto e aveva rischiato di cadere di sella; passò un anno e mezzo nella pianura australiana dove, con sua grande sorpresa, scoprì le dolcezze delle donne aborigene e da cui lo si dovette trascinare via a forza, tra lacrime e preghiere.
Si accompagnava sempre a lui l’amico fidato della madre, il cui vero compito, si scoprì presto, più che aiutante o confidente, era quello di assaggiatore, o meglio, di intero stomaco, dello striminzito conte: e tutta la cacciagione, tutto il pescato, tutto il raccolto che le casate donavano come segno di accoglienza, tutto quanto veniva porto all’amico che si guardava bene dal rifiutare.
Dopo tre anni di viaggio, dunque, nessuna delle prelibatezze offerte al giovane erano state da lui assaggiate: questi, col suo calice dorato sempre pieno, poiché se non aveva mai fame certo non gli mancava la sete, sorrideva gentile a quei doni e, fatto cenno verso l’amico, subito glieli faceva mettere davanti.
Accadde però un giorno che, mentre il conte si trovava ospite dell’imperatore del Giappone, questi gli portò in dono, invece che larghi vassoi stracolmi di cibo, un solo frutto, non più grande di un occhio, dal colore bluastro. Porgendogli la strana pietanza, quando l’imperatore vide che il giovane accennava all’amico di fianco, sorrise educatamente e disse: «Giovane conte, mi farebbe una vera grazia se questo frutto lo mangiasse lei».
Il magrissimo conte, che da anni non si sentiva più pregare per mangiare, e che credeva che quel suo tratto fosse ben risaputo in tutto il mondo, tanto era singolare, non riuscendo a nascondere la sorpresa, chiese all’imperatore: «E perché mai dovrei io mangiare proprio questo strano frutto, io che per anni ho rifiutato pietanze ben più ricche?».
«Giovane conte» rispose l’imperatore «Questo frutto proviene da un albero che non in base alle stagioni, ma secondo sua voglia produce. Prima di questo, sull’albero non cresceva nulla da più di mille anni. L’ultimo che ha potuto godere di tale fortuna è stato l’imperatore Nintoku, il cui impero durò più di ottant’anni. Dopo aver saputo della vostra visita mi recai come al solito sotto quest’albero, dove sono solito riposarmi ogni pomeriggio, e notai che, da un giorno all’altro, questi aveva maturato il meraviglioso frutto che ora voi vedete. Troppo repentina è stata la crescita, troppo legata al vostro arrivo, per poter credere che sia stata una coincidenza. L’albero ha maturato questo frutto per voi solo, e a voi solo lo porgo».
Il conte, dapprima confuso, sentito il racconto dell’imperatore, si fece convincere e allungò la mano, prese il frutto e lo mangiò in un sol boccone davanti alla servitù e all’amico che, deluso, già si apprestava a riappoggiare le bacchette sul tavolo.
Finito di masticare, cessato lo scricchiolio continuo causato dal chiudersi della bocca, un acceso rossore gli infiammò il volto e un lampo gli passò per gli occhi, e cominciò a leccarsi le dita e il piatto e a chiedere a gran voce che gli fosse portato altro.
Nella felicità della corte e nell’invidia dell’amico, così passò il giovane il resto del suo viaggio, spostandosi di corte in corte, non chiedendo né donne né oro, ma solo cibo: cotto o crudo, dolce o salato, caldo o freddo, non c’era pietanza che l’affamato conte non si facesse presentare davanti e non mangiasse con così tanta voracità che nemmeno una briciola rimaneva nel suo piatto o in quello dei commensali.
Altri due anni passò in questo modo, a mangiare e a divorare, che tornato a casa a stento lo si sarebbe detto lui, con tutti i chili che aveva preso, che non solo gli abiti non andavano più ristretti, ma anzi, vennero tutti quanti allargati di cinque taglie.
Nella gioia della madre e dell’intero regno, al ritorno del grosso conte seguirono sei mesi di festeggiamenti, e fra balli e banchetti, tra giochi e giostre sempre lo si vedeva seduto sul suo trono, che tutto si dedicava a spolpare e ingurgitare cosciotti e costine, a bere e tracannare vino e birra e a leccarsi e succhiarsi mani e abiti: nulla sembrava mai saziare o riempire lo stomaco del conte, nessuna situazione sembrava troppo formale per non poterla accompagnare con un bel pasto, e avveniva che alle sedute del consiglio approvava e rifiutava sentenze mangiando tonni interi a mani nude, risparmiava o mandava a morte i condannati sgranocchiando pannocchie come fossero mandorle, andava a caccia e tornava a mani vuote, che tutta la selvaggina se l’era ingoiata ancora con la freccia nel fianco.
Anche il giorno del suo matrimonio, fattosi portare un tavolo fin dentro la chiesa, pronunciò le promesse con la bocca piena di stracotto, e quando il sacramento venne ufficiato a stento se ne accorse, che già si stava dedicando ad una torta ai mirtilli del diametro di due metri.
Così grosso e pesante, che centinaia furono i servitori che morirono sotto le stanghe della portantina, dopo un po’ divenne chiaro che il grasso conte non si sarebbe più potuto spostare, così si fece ampliare un’ala del palazzo e costruire un trono talmente grande che nella stanza c’era spazio solo per altre due persone.
Vent’anni passarono in questo modo, durante i quali il grande conte seguitò a mangiare ogni cosa gli fosse messa davanti, e durante i quali mai una volta lo si sentì dire di essere sazio; vent’anni passarono in questo modo, senza che mai nessuno osasse ribellarsi, poiché la madre, che ancora godeva di grande prestigio e rispettabilità a corte, tutti piegava con lo sguardo e il bastone e ricordava di quegli anni in cui il suo povero piccolo figlio non aveva consumato nemmeno una briciola, che ora doveva ben essere in credito: fu anzi proprio lei che, per assicurarsi che mai al figlio mancassero i viveri, stabilì che la metà del raccolto annuo fosse riservata alla scorta personale della famiglia reale, e che per ogni animale solo zampe, coda, occhi e orecchie fossero lasciati agli allevatori, mentre il resto doveva essere pulito, trattato e cucinato per apparire sulla tavola la sera stessa.
Non passò molto tempo che l’intero contado si ritrovò a morire di fame, e mentre i sudditi riuniti in cucina si dividevano il riso contando chicco per chicco, a palazzo il cibo che ogni giorno veniva cucinato e mangiato a stento trovava posto sulla tavola, che lo si cominciò a stipare sui letti, negli armadi e nelle scuderie.
I boschi, i campi, le stalle, gli allevamenti, i laghi e i mari, tanto sfruttati per provare a sfamare l’enorme conte, dopo pochi anni non furono più in grado di produrre nulla, e si vedeva i carri tornare dai campi vuoti, i pescatori dal mare con appena mezza dozzina di pesci, subito intascati e nascosti per non essere portati a palazzo. Per le strade si aggiravano mendicanti a supplicare per una briciola di pane, madri che con i figli rachitici al collo scavavano nella spazzatura alla ricerca di avanzi, bambini piangenti che, non potendo più essere mantenuti dalle famiglie, erano stati abbandonati davanti alle chiese e nelle piazze vuote.
Di tutto questo nulla toccava il gigantesco conte che, ormai nemmeno più in grado di mangiare da solo, passava tutto il giorno a farsi imboccare da servitori che gli ronzavano intorno come mosche, nella speranza che avanzasse qualcosa.
Accadde però un giorno che, vìstosi il conte arrivare per pranzo solo due mucche di contro alle sei cui era abituato, mandò subito a chiamare i cuochi i quali, informatolo della situazione in cui versava il regno, furono da questo condannati a morte per tradimento. Venne dunque emanato un nuovo decreto che riservava alle scorte reali tutto quello che veniva coltivato, allevato o pescato, riservando ai sudditi la possibilità di sfamarsi degli eventuali avanzi che ogni sera sarebbero stati portati nella piazza del mercato.
Nemmeno questa, tuttavia, si dimostrò una soluzione efficace, e per quanto i servitori si ingegnassero di privare, derubare e razziare i sudditi di tutto ciò che poteva essere commestibile, per quante incursioni facessero ai granai dei contadi vicini, il cibo che arrivava ogni giorno nella stanza del trono era sempre meno, mentre aumentavano quelli che, piegati dagli stenti, si stendevano a lato di un marciapiede per non rialzarsi più.
Fu davanti ad uno di questi che un giorno un servitore, mandato in città con l’incarico di reperire del cibo, ebbe una certa idea, e, chiamato un carro e ordinatogli di fare il giro di tutte le strade, tornò la sera a palazzo con un carico di carne di maiale che da anni non si vedeva e per il quale venne nominato cavaliere e responsabile della carne, che certo lui doveva ben sapere dove trovarla.
Dopo quel giorno, non si vide più un mendicante per strada poiché questi, appena accennavano a fermarsi, subito venivano affiancati da un carro e quattro uomini che, presolo due per le braccia e due per le gambe, lo caricavano e lo portavano via che ancora protestava, mentre tutt’intorno la folla assisteva ossuta, cercando di mostrarsi il più viva possibile. E spesso capitava che gli stessi servi, anche loro indeboliti dalla fame, si accasciassero lungo il perimetro delle mura, così che non c’era una vera differenza tra chi raccoglieva e chi era raccolto.
Fatta pulizia dei morti – effettivi, ritenuti e sperati – ci si risolse ad affidarsi ai vivi, così il palazzo emanò un decreto in cui offriva assistenza alle famiglie con più di un figlio, promettendo di riservare loro un’adeguata istruzione e fiorente carriera, con l’impegno di trovare loro sistemazione all’estero «in uffici governativi e al servizio delle più ricche e potenti casate del mondo»: e si vedevano bambini di tutte le età e di tutte le stature, con addosso gli ultimi abiti buoni rimasti, che salivano sugli stessi carri e venivano salutati dai genitori sorridenti, fieri e sollevati che «almeno loro avranno una vita dignitosa, che qui tanto non è rimasto più nulla».
Nel frattempo, il conte era diventato così grasso che occupava la stanza per tutta la sua larghezza e per tutta la sua altezza. Continuamente, durante la giornata, lungo i suoi fianchi erano sistemate delle scale sulle quali si vedevano salire e scendere i servitori che, come dei cenci, si trascinavano sui pioli e ribaltavano cibo a secchiate nella bocca del padrone, mentre questo, con la testa piegata all’indietro e lo sguardo rivolto verso il soffitto, non sapeva nemmeno che cosa stesse mangiando. E non poco spesso capitava che qualcuno, arrivato in cima, si sentisse male e cadesse dentro quella voragine, ma ormai nessuno ci faceva più caso.
Dall’alto di una torretta costruita dopo i lavori di ampliamento della stanza, la madre del conte sopperiva per la cecità del figlio, assicurandosi che tutto quel cibo fosse mangiato da lui e da lui solo, e che nemmeno un dito andasse sprecato.
E giorno e notte si vedevano migliaia, centinaia, decine di uomini che andavano su e giù, sempre meno e sempre più magri, che ormai erano più quelli che finivano nella bocca che quelli che riuscivano a scendere e a prendere un altro secchio.
Quando anche l’ultimo uomo cadde, dopo aver portato su per la scala il penultimo che gli si era accasciato davanti, venne il turno della madre, fino a quando il colossale conte non rimase da solo nel salone a lamentarsi della fame.
E passò un giorno e passò un anno, e anno dopo anno il conte cominciava a sgonfiarsi e a dimagrire, finché non fu abbastanza dimagrito da poter uscire dalla stanza: si trascinò per il palazzo, per il cortile, per le piazze, per le campagne alla ricerca di cibo, ma tutto intorno a lui era secco e abbandonato da anni. Il rinsecchito conte continuò a vagare cercando qualcosa da mangiare o qualcuno, fino a quando, ormai stremato, non se ne tornò nel palazzo.
Il giorno che il conte morì era magro come quando era ragazzo, anzi, alcuni avrebbero giurato che fosse ancora più magro, e quando lo trovarono videro che sulla spalla destra aveva come una corona di buchi, come dei segni di denti.
Letizia Rigotto