Ossa – racconto di Irene Spini
Redazione2025-02-18T07:05:32+01:00Ruvido, con qualche residuo spugnoso nel cuore cavo, il colore di uno straccio vecchio.
È lungo, sottile nella parte centrale.
Lo sfiora con il polpastrello: sembra quasi reagire al tocco dondolando piano.
La ragazzina lo raccoglie e fa un respiro a metà, poi trattiene il fiato.
Con un movimento rigido lo avvicina cautamente a sé.
Il polso ha un improvviso tremolio.
La curiosità e il terrore si mescolano ingarbugliandosi: si sovrappone perfettamente al suo femore.
Sente un gelo irrigidirle lo stomaco.
Potrebbe essere dentro di lei: umido di carne e sangue, cinto di vita da parte a parte.
Sente a pieno la consapevolezza che un giorno anche lei sarà solo un mucchio di pezzi.
Rigidi stracci vecchi che si nascondono nelle profondità del suo corpo, indifferenti alla sua mortalità.
La testa dura del cane, che ha visto muoversi il suo gioco, le spinge il gomito.
Quando si gira gli occhioni di terra bagnata le danno un’indicazione precisa.
Lei risponde lanciando lontano l’osso con una certa malcelata soddisfazione.
Torna a essere solo un vago pezzo: un gioco come lo sarebbe il ramo secco di un vecchio cedro, forse.
Inspira l’aria densa dell’autunno, godendosi il galoppo attutito del cane.
Lontano, qualcuno sta bruciando le foglie secche. L’uomo che dice di essere suo Padre l’ha già fatto prima di partire pochi giorni prima.
L’uomo che dice di essere suo Padre è un uomo con le spalle larghe e le braccia ispide, i denti dritti.
Spesso si assenta per andare a vendere pelli e tessuti in città e la lascia per giorni da sola nella baita con i suoi misteriosi scricchiolii; nella notte i belati delle capre si alternano a suoni cupi.
A metà di quell’estate era tornato con molto denaro e un pettinino d’avorio per lei.
Ne era stata felicissima: subito era corsa in camera e, buttata di traverso sul letto, lo aveva rigirato tra le dita. Era sfumato dell’azzurro tenue di una vena.
Osservando attentamente i denti arrotondati del pettine aveva visto qualcosa e subito una fastidiosa fitta alle tempie le aveva riportato certi ricordi abrasivi di urla soffocate e colpi secchi.
C’erano due capelli lunghi scuri e morbidi intrappolati svogliatamente al suo regalo.
Avrebbe dovuto pensare che suo Padre avesse un’amante generosa ma sapeva che non era così.
Da diversi anni si trascinavano ogni domenica giù dalla terra morbida del monte fino all’acciottolato davanti alla Chiesa.
Aveva captato certe occhiate nella direzione di lui e c’erano stati persino goffi approcci di donne profumate di sapone e con le mani rosa che invitavano (frettolosamente) lei e (calorosamente) lui per un pranzo a base di quella carne o quell’altra prelibatezza da provare.
Suo Padre, in quei casi, si irrigidiva come un animale selvatico e declinava, sforzandosi di soppesare ogni parola come se pronunciarla gli costasse uno sforzo enorme.
Per tutti quegli anni era successo così spesso che una volta persino il curato l’aveva preso in disparte farfugliando qualcosa su come non stia bene che una ragazzina e un uomo stiano sempre da soli.
Lei ne era rimasta profondamente offesa sentendosi un peso: un sasso solitario sul fondo del sacco di suo Padre.
Una settimana dopo aveva portato a casa il cane.
Subito tra loro era nata un’intesa fatta di scatti elastici e tepore di pelliccia.
La ragazzina e il cane passavano spesso il tempo insieme e con il figlio del contadino: un cencio tutto nervi e con i capelli rossi e sparati.
Lei soppesa l’idea di aprirsi con l’amico e parlargli di quel femore, ma poi un nuovo timore la paralizza. Il figlio del contadino potrebbe cominciare a fare domande invece di dire ciò che lei vorrebbe: ovvero che sono cose normalissime, cioè, molte persone sono sepolte nella terra brulla e altri che si perdono nel fitto del bosco soccombono alle intemperie.
Semplicemente moltissimi diventano pezzi in attesa di un cane che li trovi.
Un destino non così terribile.
Ugualmente tutti devono morire e questa è la cosa davvero terribile.
Anche se è strano che siano tutti proprio vicino a quella che è la sua casa, ma anche questo è presto spiegato: è una baita nel profondo del bosco.
Ecco, non c’è bisogno di dire del femore proprio a nessuno perché il suo motivo di trovarsi lì è così ovvio e palese da essere quasi buffo.
Però lei potrebbe anche dire: e il pettine?
Quando l’aveva chiesto al Padre lui le aveva detto di averlo comprato.
La ragazzina non l’ha mai usato, giace sul fondo del cassetto e quando lo apre sembra fissarla come un occhio ardente perennemente spalancato.
Non è davvero più solo un pettinino per lei ma un onere indecifrabile carico di silenzio.
Il cane torna con il femore in bocca, lei lo prende e si alza dal masso ricamato di licheni brandendolo nell’aria fredda.
Sta scendendo un buio scuro e grigio, quindi si incamminano verso casa.
Casa che è un posto sicuro e le fa sentire una mano calda sopra la testa.
Accelera il passo.
Entrano, lei appoggia l’osso sul tavolo e rimane a fissare.
Suo Padre le ha raccontato di quando l’ha trovata: lei era grande come una brocca per l’olio e piangeva.
L’aveva presa e portata a casa.
Quella casa di ora con il camino pieno di legna e le travi ingombre di pentole di rame.
Il cane si scuote il freddo di dosso e pianta il tartufo nel palmo della mano di lei agitando la coda poderosa, la bocca aperta e l’animo allegro che sembrano quasi una mezza presa in giro.
Un mucchio di pezzi giace sul tavolo in un groviglio indistinto.
Alcune sono le ossa solide tra la mano e il gomito, altre sottili come foglie di oleandro, con la stessa anima verdina.
Quando ha portato la prima volta uno di quei pezzi in casa l’uomo che dice di essere suo Padre le ha spiegato che spesso sotterra quel che avanza di un cervo o un cinghiale.
Una risposta così limpida e calda da essere un sole di primavera.
Le era sembrato tutto così fiorito e ragionevole per molto tempo.
Ma i cinghiali non indossano anelli.
I cervi non hanno teschi piccoli e denti d’oro che luccicano caldi vicino al fuoco del camino.
Irene Spini