Il sogno del bosco – racconto di Andrea Garagiola
Redazione2025-02-25T10:56:25+01:00Il bosco di notte piange.
È il lamento dei bambini che il popolo del bosco ha strappato dai loro letti per donarli agli alberi.
Sono i nostri figli che ci supplicano di andare a salvarli.
E tra quelle grida disperate posso distinguere quelle del mio piccolo.
Il buio della notte è così pesante che sembra che non lascerà mai posto al mattino.
Mi lascio guidare dai singhiozzi di mio figlio, nonostante lo scrosciare della pioggia eterna cerchi di nascondere ogni suono. Ma una madre sa riconosce la voce del suo bambino.
Oltre ogni rumore. Oltre ogni dolore.
Gli alberi si stringono intorno a me, non mi lasciano passare. Non vogliono che trovi la strada. Con i loro rami aguzzi mi artigliano le carni. Mi feriscono. Vogliono farmi desistere.
Ma non posso avere paura. Devo trovare mio figlio.
Devo liberarlo.
I vecchi che chiamano la nostra collina Collotorto dicono che nel bosco vivono cose cattive. Raccontano tante storie sul popolo che si nasconde sotto le radici e le foglie cadute. E sono tutte storie terribili.
Sono creature sfuggenti, difficili da individuare. Ma loro ci osservano sempre, lo stanno facendo anche in questo momento. I loro piccoli occhi gialli mi seguono da quando ho messo piede nel loro regno.
Il padre del nostro vicino di casa dice che una volta, molti anni fa, è riuscito a vederli. Sono piccoli e magri, con lunghe braccia e gambe scheletriche, il naso a uncino e la pelle grigia e bitorzoluta. I loro occhi gialli sembrano quelli di un gatto.
Una notte gli sono entrati in casa per rapire il suo unico figlio e lui li ha inseguiti fin dentro al cuore del bosco. È riuscito a ferirne uno, ma il bambino è stato divorato dal buio e dalla pioggia.
Quell’uomo è certo che il popolo del bosco può essere ucciso e che lui un giorno riuscirà a ritrovare il suo figlio perduto. Ci ha provato molte volte, ma è sempre ritornato a casa con le mani vuote e il cuore colmo di lacrime e fallimento.
Ora è diventato troppo vecchio per andare a caccia nel bosco, ma continua a ripetere che il bambino che quelle creature gli hanno lasciato nel lettino non è davvero suo figlio. Solo un fantoccio composto da corteccia e pelle di lepre, animato dalla loro magia per sembrare un figlio vero.
Il terreno fangoso sotto i miei piedi nudi cede e perdo l’equilibrio. Mi appoggio a un albero per non cadere. Sento le loro risate intorno a me, ridono della mia imprudenza. Del mio amore di madre.
Mi guardo intorno e vedo gli occhi gialli nascosti tra le foglie. Quando sbatto le palpebre sono svaniti, sono tornati un tutt’uno con la vegetazione. Ma sono ancora lì, intorno a me. Posso sentire i loro respiri e i battiti dei loro cuori grigi e avvizziti.
Li ucciderò uno a uno, se dovesse essere necessario. Con le mie mani e il coltello che mi sono portata dietro.
Strapperò mio figlio dalle loro dita nodose e morte e lo riporterò a casa con me.
Mi aggrappo all’albero e mi rialzo in piedi. Sotto la corteccia qualcosa pulsa, si muove. Affondo la lama del coltello nel tronco e strappo schegge di corteccia fino a che non raggiungo la polpa dell’albero. È viva. È carne.
L’albero sanguina. Il suo corpo è percorso da vene che trasportano linfa purpurea fino ai rami e alle foglie.
Scavo ancora. Strappo brandelli di carne e raggiungo il cuore della pianta. Ha la forma di un bambino scolpito nel legno. Sembra avere pochi mesi, la stessa età di mio figlio.
Ma non è lui.
Da qualche parte intorno al Collotorto c’è un’altra madre disperata che sta cullando un neonato che finge di essere la vita generatasi nel suo ventre. Ma sta stringendo tra le mani solo corteccia e pelle di lepre.
Quella minuscola forma lignea sussulta. Accenna un sorriso. Stringe i pugni.
Sta sognando.
Altri occhi gialli mi scrutano, ma ormai non importa. Il pianto di mio figlio è l’unica cosa che ora ha importanza.
Gli alberi si muovono e disperdono il suono in tutte le direzioni.
Ma sono vicina. Lo sento.
Sento il grido di un altro albero che mi sta chiamando. Lo pugnalo e porto alla luce il suo cuore. Un altro neonato. Un’altra vittima del popolo del bosco. Ma non è mio figlio.
Sono sempre più vicina. Non posso sbagliarmi. Mio figlio è imprigionato dentro uno di questi tronchi.
Passo all’albero successivo. Lo sventro. Un altro infante pulsante, sconosciuto.
Continuo a cercare. A strappare pezzi di corteccia e carne viva.
Continuo a portare alla luce bambini ingoiati dal bosco.
Sono sempre più stanca. Ma non posso arrendermi. Lui è qui.
Posso sentire le sue grida disperate. Sono vicinissime. Provengono dall’albero davanti a me.
Colpisco il tronco con il coltello. La lama è ormai esausta quanto me e si spezza.
Non demordo. Mi avvento con le unghie sulla corteccia. Ne strappo brandelli finché il sangue delle mie dita consumate non si fonde con quello che scorre nelle profondità della pianta.
Le dita affondano fino a sfiorare una forma al suo interno. Cerco di estrarla, ma è saldamente collegata alle vene di legno. Posso percepire la forma. Le dita scorrono sulla testolina, sul suo naso e sulla sua bocca. È mio figlio. L’ho trovato.
Lo afferro con tutta la forza che mi rimane e cerco di tirarlo fuori. Ma il bosco non me lo lascia.
Sono troppo stanca. La pioggia mi investe e mi trascina con le ginocchia a terra. Le radici nodose dell’albero si preparano ad avvolgermi e a stritolarmi.
Intorno a me si accendono decine di coppie di occhi gialli. Le loro risate si trasformano in ringhi mentre si avvicinano.
Le creature escono dall’oscurità e mi circondano. Le loro deformità sono nascoste da stracci scuri e i loro visi orribili sono celati dietro maschere di corteccia che lasciano vedere solo i loro occhi gialli.
Si fermano a pochi passi da me. Uno di loro sbraita e urla qualcosa nella mia direzione. Riesco a malapena a percepire la sua voce terribile attraverso il frastuono della pioggia e il pianto dei bambini.
Mi volto verso le sue grida. Tiene qualcosa in grembo avvolto da un drappo sgualcito e sporco. Di fianco a lui un suo compagno tiene in mano una corda.
L’essere urla mentre si avvicina a me. Non ho le forze per rispondere e le radici mi trattengono con le ginocchia nel terreno. Con la mano cerco il coltello spezzato, ma il fango ormai se l’è inghiottito.
Quando la creatura è vicina mi mostra ciò che nasconde nel fagotto. Appena vedo ciò che tiene in mano, la sua voce inizia a diventare comprensibile. E familiare.
Mi chiede spiegazioni. Lo fa mentre singhiozza dietro quella maschera che non permette espressioni. Lo fa con la voce di mio marito.
Vuole sapere cosa sto facendo. E perché nel letto di nostro figlio c’era una grottesca scultura di corteccia e pelli di lepre che scimmiottava le forme di nostro figlio.
La sta tenendo in mano e me l’avvicina al viso. Distolgo lo sguardo, quella vista è terribile. Gli spiego che il popolo del bosco ha sostituito nostro figlio con quel manufatto blasfemo. Che ora sono vicina a salvare il nostro vero figlio e la loro magia si è indebolita, stanno perdendo il controllo e la statua è tornata inanimata.
Lui non mi crede. Lo posso capire, anche io non volevo farlo all’inizio. Ma poi ho accettato la verità. Per mio figlio.
Mio marito lancia la figura a terra, e i piccoli e grezzi arti vanno in pezzi. Si toglie la maschera e vedo gli occhi colmi di lacrime. Dietro di essi c’è il suo cuore spezzato. Non l’ho mai visto così. Forse ora mi crede.
Gli dico che mi deve aiutare. Che se lui e i suoi compagni non sono il popolo del bosco, vuol dire che le creature che hanno rapito nostro figlio sono da qualche parte qui intorno che ci stanno osservando. Gli dico che insieme possiamo ucciderli e riprenderci ciò che ci hanno portato via.
In risposta distoglie lo sguardo e fa qualche passo indietro.
Quello che tiene in mano la corda si porta alle mie spalle e dice qualcosa. Non capisco. Non mi importa. Ma riconosco la voce. È quella del mio vicino.
La corda si stringe intorno al mio collo e mi solleva in piedi. Le radici mollano la presa.
Mio marito mi spinge via e inizia a scavare nel solco che avevo lasciato nel terreno morbido ai piedi dell’albero. Scava a mani nude. Con rabbia.
Mentre scava provo a parlargli, ma la corda è troppo stretta e mi mozza il fiato. Il bosco urla sempre più forte e cancella la mia voce.
Mio marito si ferma. Affonda le mani nella terra ed estrae qualcosa. La stringe al petto e urla. Piange. Si dispera. Alza la testa al cielo e lo maledice.
Intorno a me le bocche dietro alle maschere gridano. Le loro voci sono cariche di odio.
Ma non capiscono. Continuano a non credere al popolo del bosco. E sfogano la loro vendetta su di me.
In due afferrano la corda che mi stringe la gola e la issano al ramo più robusto dell’albero che tiene prigioniero mio figlio.
Mi sollevano e mi lasciano penzolare. Sperano che la mia morte arrivi presto e con essa di trovare sollievo. E una spiegazione.
Ma sono ciechi. E sordi. Non sentono il pianto del bosco che si fa più intenso.
I loro occhi mi fissano mentre attendono che esali l’ultimo respiro. Tutti loro, tranne mio marito. I suoi occhi sono ormai resi opachi dal pianto.
Attraverso il ramo al quale sono appesa posso sentire i sussulti del mio piccolo. Sente che la mamma è vicina e ha smesso di piangere. Sta sognando.
E con lui anche il bosco. Ora ne sto diventando parte anche io. Non ho più paura.
I bambini che gli sono stati donati alimentano i suoi sogni. E scacciano gli incubi fatti di corteccia e pelle di lepre.
Continua a sognare, piccolo mio.
La mamma è qui con te.
E farà parte del tuo sogno.
Per sempre.
Andrea Garagiola