Orfeo, o lettera dal carcere – racconto di Pierfrancesco Trocchi

Orfeo, o lettera dal carcere – racconto di Pierfrancesco Trocchi

Alla fine restano solo le immagini, e non c’è modo di disegnarne altre.

Avevo solo undici anni quando iniziai a provare fatica. Mi investì la fatidica consapevolezza per cui non avrei mai potuto spendere una vita fatta di un solo sguardo: non avrei mai accettato che la verità fosse solo quello che avrei visto. Incominciai ad avere paura delle cose semplici, perché non indagabili, e di quelle complesse, in quanto temevo non avrei mai avuto la forza di spingerle nel mio recinto. Applicai l’autodistruzione come tassello mancante di una mancanza, cercando di diventare bravo in quello. Una volta, in sogno immaginai di gettare un gatto con le mie mani di bambino sopra un albero alle pendici dell’Olimpo. Ricordo quanto mi sforzai per ritenere realmente accaduta una cosa del genere. L’obiettivo era che Dioniso m’invasasse di depravazione, con l’intento masochistico di toccare il punto di frattura, ricostruirlo, farne una linea retta su cui dispiegare un orizzonte di contrizione in grado di uccidere gli atomi buoni per poterlo cantare con la mia lira.
Allo stesso modo, ricordo quanto io, amatissimo, volessi credere che l’affetto dei miei genitori non fosse sincero. Ricordo quanto mi piacesse pensare alla morte. Ero un bambino cresciuto in fretta, all’oscuro di chiunque, e i miei compagni di giochi mi rigettavano chiamandomi “Il poeta”. Dentro di me vedevo un mondo dalla genealogia malsana, ma dai frutti buoni, in quella meccanica risaputa ma scadente della sofferenza come insegnante, del pàthei màthos. Ero riuscito a creare una provincia del mondo priva di leggi inattaccabili, dove ogni errore, anche il più grave, aveva la propria validità come valide erano le stringhe causali che ne stavano alla radice.
La Legge, invece, vuole essere una e sacra, e che ne si muoia, qualora sia necessario… ma non esiste nulla per cui morire. La mia generazione – grazie a Zeus – è precedente a quella degli eroi di Troia, destinata ai Campi Elisi o all’Ade per mano della politica, peggio ancora per causa d’onore. A dire il vero, una cosa per cui morire c’è, ed è l’Amore. Mi infastidisce chiedermi che cosa sia, ma è essente e tra ciò che è essente mi sembra l’unica emozione degna di essere cantata. Tutto ciò che si è o si fa è una rappresentazione, un’elaborazione, ma Egli no. Egli è.

A un certo momento, saturo del mio canto, spezzai lo specchio, i miei Inferi, per poi sforzarmi di riunirlo e finalmente vedermi chiaro. Presi una scheggia e, senza accorgermene, la portai alla pupilla. Capii che, se mi fossi avvicinato ancora, avrei perso del tutto il desiderio di accecarmi: era troppo importante poter immaginare, poter cantare – non vivere – una vita al buio e sentirmi protetto dalla sola fantasia di non vedere più. Mi arrestai, volendo preservare un ideale caruggio di anestesia in cui respirare, un sollievo dal mondo.

Ho tentato di vivere solo, per anni, ritrovandomi con ancora più specchi in frammenti di specchi. Finivo sempre per coccolare la mia carestia nei giorni di festa, arzigogolata in un linguaggio muto e caleidoscopico. Sì, perché io sono la mia stessa Lineare A, indecifrata, anche se mi sono tradotto, ridotto in greco per rendermi comprensibile. Resta, però, sempre il conato di ansia alla fine della frase e non c’è modo di dirlo in greco, quello. La mia tragedia è il desiderio che gli altri leggano la mia Lineare A al posto mio. So amare, non leggere: gli occhi mi baluginano.

Per farla breve, quel giorno amai così tanto che cercai con Lei di fare un unico corpo di Noi, come ci aveva illustrato Aristofane. Alla fine, fu Lei a morire d’Amore, e non me lo sarei mai aspettato. Aveva decrittato la mia Lineare A, e anche questo fu inatteso. Credeva in Noi quanto me e proprio per tale motivo gli dèi non ci hanno concesso il privilegio di morire insieme: ci detestano perché ci invidiano la fine, la sua capacità di portare l’Amore al massimo grado. Avrei voluto, vorrei spirare io per Lei, ma, dovessi o dovessero uccidermi, sarebbe già troppo tardi e quella brama di eterno accecamento sarebbe soltanto mia, non più Nostra.
Io volevo essere, con Lei. E ora non mi resta che cantare.


Orfeo

Pierfrancesco Trocchi

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