D’oro e di pietra – racconto di Giacomo Bencistà

D’oro e di pietra – racconto di Giacomo Bencistà

Nemici delle sirene sono i basilischi, di cui ho già parlato. È un fatto misterioso che creature di nature così opposte e incompatibili siano riuscite a farsi la guerra per secoli, dato che a malapena possono avvicinarsi le une alle altre.
Plinio, Storia naturale, libro IX.

Scivolò tra le rocce che ancora trattenevano il calore del giorno. Dietro di lui torreggiavano le fortificazioni ferite dagli assalti del mare. Il sole era basso sull’orizzonte e incendiava gli occhi globulari. Le vibrisse e le antenne captavano profumi ostili: essenze di piante abbarbicate alle pietre, vibrazioni di elementi disciolti nell’acqua o legati al terreno, scie di insetti, sentore di carni bruciate, urlio di particelle espulse da cadaveri rotti e contorti. Le percezioni fluivano nella mente, impastate nell’aroma del mare e dell’orrore ancestrale.
Si lasciò alle spalle i campi del boia, superò con un balzo le rocce che delimitavano la spiaggia sottile, scese sulla striscia di sabbia, si acquattò immobile, gli occhi fissi sul sole calante. Accarezzò la sabbia con le quattro mani e sfilò dal collo una collana di bronzo cui era appesa una piccola conchiglia. La soppesò, la fece oscillare per qualche istante nella luce del tramonto, la accostò alle labbra: il calore rese rovente la madreperla. Con un movimento improvviso sollevò la collana, la fece vorticare e la scagliò nelle acque immobili, lontano dalla riva, dove la catena e la conchiglia si inabissarono in uno sbuffo di vapore.
Passarono alcuni istanti. La superficie del mare si infranse: a una quindicina di metri dalla riva affiorò e scomparve una testa crestata.
Sotto le placche ferree si tesero i muscoli: la forma si avvicinava alla spiaggia scivolando sotto il velo marino. Emerse in prossimità della riva: accompagnata dal fruscio delle acque spezzate e dal ticchettio delle gocce che ricadevano dalle membra, la sirena si trascinò sulla battigia con la forza delle sole braccia, tirandosi dietro il corpo anguiforme, le pinne a mezzaluna, i tentacoli folti.
Un attimo prima che il suo sguardo incontrasse lo sguardo della sirena, il basilisco serrò le membrane degli occhi, schermò la radiazione. Un passo alla volta scivolò sulla sabbia bagnata, sconfinò sulla battigia. Gli artigli delle zampe sfidarono l’acqua, vi affondarono metallici. Il fuoco rabbrividì nelle arterie.
L’aria bruciava le branchie e la gola della sirena, scorciava il respiro, smerigliava le mucose, la luce del sole al tramonto bruciava gli occhi attraverso le palpebre serrate.

La natura ha provvisto gli amanti di organi il cui incastro è imperfetto perché non siano mai soddisfatti della loro unione e tornino a cercarsi incessantemente.
Lucrezio, Sulla natura, libro IV.

Il basilisco passava gli artigli sulle squame del volto, ne percorreva i contorni affilati. Le quattro mani scivolavano sugli orli spinosi delle branchie, sfioravano le creste che dalla testa scendevano lungo il collo sulla schiena. Sotto il tocco degli artigli la sirena socchiudeva le palpebre gonfie e contraeva le labbra scoprendo le zanne.
Mentre il sole scompariva sotto l’orizzonte, la sirena sollevò la mano sinistra, che fino a quell’istante aveva tenuto affondata nell’acqua, nella sabbia satura d’acqua. Intrecciata intorno al polso e alle lunghe dita stava la collana che era stata gettata nel mare. Con estrema lentezza la sirena sciacquò il pendaglio tra le onde e lo rimise al collo del basilisco. Fu un’operazione laboriosa perché poteva usare soltanto una mano – teneva l’altra piantata nella sabbia per conservare eretto il tronco – e doveva con essa trovare la strada fra gli artigli che scivolavano sul volto, sul collo, sulle spalle.

Quando le due creature si staccarono l’una dall’altra il silenzio che avvolgeva la spiaggia era scalfito dal respiro rauco della sirena, da quello sibilante del basilisco, fusi nella tenebra che aveva nascosto l’incontro, nella spossatezza di cui le membra erano pervase. Le mani della sirena, coperte di ustioni, scivolarono dagli artigli del basilisco e la creatura, faticando non poco, volse le spalle alla spiaggetta e riguadagnò le acque. Il basilisco, cieco nelle tenebre della notte, dischiuse le palpebre semitrasparenti e lasciò che la luce spettrale dagli occhi prorompesse all’esterno e rivelasse i profili delle onde e le spalle, la schiena, il lungo corpo sinuoso che serpeggiava nelle acque basse. Con un guizzo silenzioso la sirena scomparve: non nuotò in superficie ma cercò subito le profondità. Il basilisco restò alcuni istanti a fissare il mare deserto; poi trasse fuori dall’acqua le membra crettate dal freddo e raggiunse le rocce ancora tiepide.

Le nazioni tollerano l’infedeltà meno dei singoli: più di questi ultimi si mostrano violente e crudeli qualora siano tradite.
Seneca, Lettere a Lucilio, XV, 94.

Il basilisco tornò sulla spiaggetta. Era notte inoltrata. Si era mosso tra le creste e gli spuntoni rocciosi con estrema circospezione, bilanciandosi su gambe e braccia ferite, esitando a lungo prima di affidare il peso del corpo all’uno o all’altro appiglio che permetteva la discesa lungo la scarpata. Quando raggiunse l’ultima roccia, scrutò per qualche istante la striscia di sabbia pochi metri più in basso, piegando e ruotando la testa da un lato all’altro nel tentativo di valutare le distanze. Spiccò il balzo e rovinò sulla spiaggia: uno schianto come di vetro andato in frantumi fu accompagnato da un sibilo di dolore, mentre violenti sussulti percorsero le membra della creatura. Due volte cercò di rialzarsi e due volte stramazzò sulla sabbia, incapace di reggersi sulle zampe spezzate. Facendo uso delle sole braccia il basilisco si trascinò verso l’acqua.
Nel buio della notte erano ciechi gli occhi coperti dalle membrane, timorosi di incontrare le sensibili pupille marine spalancate a sondare le tenebre. Guidato dalle antenne e dalle vibrisse il basilisco individuò subito l’odore della sirena. Ignorò gli scricchiolii che si levavano dal corpo, il sangue che scorreva rovente dalle ferite: si trascinò verso di lei, attratto dal profumo straniero. Le dita urtarono contro il corpo steso sulla sabbia umida: le antenne scesero a sfiorarlo, le mani si mossero per seguirne le curve. La sirena fu scossa da spasmi, si ribellò al contatto. Le antenne restarono incollate, prigioniere del sangue appiccicoso. La pelle era solcata da profonde ferite, le lunghe pinne affilate e i tentacoli erano stati mozzati. Il basilisco ritrasse le mani dagli squarci che si aprivano al posto delle branchie.

Raccontano i siriani che le impronte di conchiglie e piccoli animali scolpite nella roccia siano il prodotto dell’ultimo impulso di vita che percorre i corpi morenti e fissa nella materia incorruttibile l’essenza di quegli esseri, come un sigillo posto sul limite delle loro esistenze.
Aulo Gellio, Notti attiche, IX, 25.

I corpi giacevano abbandonati l’uno sull’altro: dalle loro profondità salivano il battito raro dei cuori e il respiro ridotto a rantolo.
Muovendosi con estrema lentezza il basilisco scivolò a fianco della sirena, la propria testa accanto alla testa di lei, un volto di fronte all’altro. Le spesse membrane oculari si alzarono, svelarono il fuoco retrostante. I raggi dissiparono il buio della notte dal volto squamoso, coperto di sangue rappreso e ferite ancora aperte. La mano metallica salì a carezzare una tempia, poi uno degli zigomi affilati; la punta di un artiglio scivolò sulle palpebre gonfie. Le percorse un brivido, poi una contrazione: due sottili strisce perlacee scintillarono sotto lo sguardo infuocato. Gli occhi si aprirono.
I raggi invasero il corpo della sirena e lo pietrificarono. In parte riflessa dal fondo argentato degli occhi abissali, la luce tornò agli occhi del basilisco, che la ricevette in silenzio: la sua coscienza sbiadì, anche il suo corpo si fece pietra, si fuse alla massa rocciosa anguiforme. 

Giacomo Bencistà

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