Larunchia – racconto di Giorgia Distefano

Larunchia – racconto di Giorgia Distefano

Non era vero che ogni giorno terminava e ricominciava uguale a quello prima. Non era vero che ‘u cunfortu arrivava dalle cose semplici e ripetute; invece era attipu quando vedevi un lapuni tutto peloso che faceva tunnu tunnu per la stanza col caldo di metà luglio.
Così mormorava Lilla a sua sorella Sarina.
Siccome Lilla non parlava quasi mai, allora quella stette con le labbra schiuse a fissarla, perché le venne caldo, ma un caldo da morire, di quello che lo zio Mimmo avrebbe detto che ci fici surari l’acqua ‘ro vattìu. Che poi tutti lo sapevano che Mimmo non lo avevano fatto vattìari, perché quel giorno il parrino era morto di vecchiania, e poi se lo erano scordati.
E mentre Sarina sudava sotto al maglione e allo scialle di lana: si scordò che era febbraio. Se ne scappò via dalla stanza da letto arida e cocente, per fuggire da quell’estate subitanea demoniaca, da quegli occhi gialli che abbruciavano il doppio del sole. Col sangue che tremava per tutto il suo gracile petto, sapeva che quella era sua sorella, che l’amava, ma le faceva una gran paura. Quell’oscura ombra grigia sul volto bello le dava i brividi alla schiena e voleva piangere di terrore quando udiva quella voce sibilante.
La bambina tornava tutta scantata e di nuovo fredda a sedersi per terra vicino alla conca, accanto alle gambe piene di ustioni di sua madre. La signora cominciava ad accarezzarle i capelli e sfilare lo scialle da quelle spalle spigolose come le ossa di un polletto.
Lilla non veniva mai a sedersi attorno alla conca, però a volte mangiava le mandorle, e la signora carbonizzava i gusci che lasciava sulla tavola per farci la scurcidda da bruciarci dentro. Quindi Sarina pensava che in un modo o nell’altro, Lilla c’era sempre, ed era soprattutto nel fumo e nel fuoco, col suo respiro crepitante nelle fiamme, che veniva dai suoi denti bianchi che scafazzavano le bucce delle mennule. Lei era la conca, e il caldo se lo portava d’appresso ovunque fosse, torbida carusa d’estate.

«Ma picchì nan ci mittisti ‘u nuzzuliddu? No ‘ccattasti sta primavera?»
«Ta stari mutu, chistu c’è. Anzi quannu vai in campagna arricogghi n’pocu i fraschi.»

Dino si grattò la fronte rugosa e rimase zitto, come richiesto da sua moglie. In un broncio strambo, le labbra si riposavano nella dentatura forata. La testa quasi gli arrivava tra le ginocchia divaricate per come stava ricurvo, cedendo al peso della stanchezza insopportabile di dovere ancora respirare. Osservò il braccio imponente della sua sposa rinfocolare la brace, per poi coprirla di nuovo di cenere. Suo fratello Mimmo stava raccontando qualche cosa; lui aveva ancora tutti i denti. Sapeva ridere fino a tossire, sfoggiando un rozzo tabagismo negli sputi e nel viso arrossato dal soffocamento. Poi lanciò un’occhiata al suo primogenito Nitto. Quello stava osservando lo zio con gli occhi del colore del lippo al fondo dei secchi bianchi. Sorrideva e poi rideva cristallino, si prendevano a pugni e Mimmo gli tirava una cozzata che pareva volergli far volare la testa dal collo secco. Faceva pure la mossa, fingeva di stapparlo come un bottiglione di mosto e imitava il suono dello scoppio quando saltava via il tappo per la pressione della fermentazione.

«Sarina, i jammi l’a livari da accussì vicinu, ca ti venunu i scursuni.»

Le dita forti scostarono le ginocchia nude della bimba dietro la sua gonna, rassettandole sotto il tessuto felpato, nello stesso modo in cui raggruppava il legno per bruciarlo e farci altra carbonella. Sarina iniziava a chiudere gli occhi mentre il giallo sfrigolante delle fiamme si proiettava su di lei come lo sguardo secco, vuoto e luminoso della sorella più grande. Si era assopita con la guancia schiacciata alle gambe della signora, che continuava a non far nulla dando l’impressione di star facendo un miliardo di cose, muovendosi irrequieta per spostare e sistemare oggetti attorno a lei.

***

Ad aprile stare senza scarpe si faceva più sopportabile, e Sarina poteva giocare per strada. Si svegliava presto la mattina, alle quattro e mezza come suo fratello Nitto. Anzi, per colpa di suo fratello Nitto: quando si vestiva per andarsene a faticare, faceva sempre bordello. Suo padre invece si preparava in silenzio. Faceva rumore soltanto mentre risucchiava il latte e zucchero dal cucchiaio, sbrodolandoselo addosso.

«Mamma, chi ni manciamu a menzuiornu?»

Nitto si stava allacciando una cintura ridotta a brandelli per tenere stretti i pantaloni scicati di terra ai suoi fianchi dritti e ossuti.

«Finisti ora di calariti u latti e pensi a chi t’a manciari a menzuiornu? ‘Vo travagghia, armali!»

La madre già urlava aspra, asciugando una ciotola con una pezza logora per dare del latte alla bimba spettinata che si era appena seduta al tavolo.

«U capisti Sarina? A menzuiornu ni manciamu pani e sputazza.»

Nitto sorrideva mentre scuncicava la madre, parlando con la bambina. Gli occhi verdi del ragazzo rimanevano alla signora, sebbene si stesse sporgendo a baciare la testa impolverata della piccola, con quell’aspetto da scarafaggio. Lei lanciò un’occhiata severa al fratello che saltellava svelto a prendersi il cappello per sgusciare via di casa. Seguì invece con sguardo calmo il padre lento e stanco, che salutò la moglie con una parola indistinguibile da un mugugno. La signora rispose solo “accura”.

Aprile era un mese crudele per il terreno, la terrosa concezione. Era il principio, il momento giusto per zappare e seminare, ma a Nitto non gliene fotteva niente e se ne andava a cercare gli asparagi e il finocchietto selvatico, così li vendeva e si poteva comprare le sigarette.
Era così che si era preso un cavallo, ma rubando arance; anche se metà glielo aveva pagato suo zio Mimmo ed era rimasto in debito. Gli amici che lo portavano col carretto a vendere la frutta rubata fuori paese pretendevano una percentuale di guadagno troppo alta. Allora si erano ammazzati di corpa per le vie del paese accanto, coinvolgendo anche chi per strada si divertiva ad alzare le mani per puro diletto. Tutti insieme erano finiti in un unico cumulo di arti spasmodici che si era scontrato addosso al carro, frantumato in ruote e travi scheggiate, da cui sbucavano qui e lì viti corrose. Si era smontato come un castello di carte, come se fino a poco prima non avesse sostenuto cinque ragazzetti e almeno tre casse fonde piene di arance.
Ma non importava, c’era tempo a sufficienza, sia per zio Mimmo, che per il cavallo.

Nitto iniziò a legare le cinghie della vardedda attorno alla pancia dura dell’animale, facendole passare attraverso degli anelli di legno. Iniziava a sudare, e le cinghie parevano non finire più, scorrevano infinite tra le sue dita, indistinguibili dai cerchi legnosi. Nei movimenti vorticanti, iniziò a sanguinare. Al grigiore livido del crepuscolo, alzò la testa in un sibilo di dolore, e scorse Lilla affacciata alla finestra, con quella faccia da arraggiata. Per fortuna col cielo così scuro i suoi occhi gialli da selvaggia parevano solo marroni. «Ou!» tirò una uciata il ragazzo. Quella abbassò senza spostare neanche il mento.

«Ci voi scinniri ‘a campagna? O ti cachi a ‘cchianari no cavaddu?»

Lilla allungò le labbra verso il basso, improvvisamente infastidita da qualche pensiero intenso e turbante. Dietro quella fronte arida c’erano sempre tempeste di ghiaia, piogge sporche e ortiche.

«Ci su i larunchi?»
«No, è tuttu siccu ancora.»
«Annunca no.»

Nitto tornò con lo sguardo al cavallo, senza salutare la sorella. Salì sopra l’animale con un balzo stremato, facendosi male sul legno della vardedda prima di poggiarsi al cuscino di tela, sentendo la paglia tritata male muoversi spigolosa al suo interno. Gli zoccoli battevano sulla strada, poi i rintocchi di campane.
Lui lo sapeva che faceva Lilla, sola e torva come i gatti selvaggi. L’aveva vista, coi coltellini col manico di legno, che tagliava a pezzi gli armaleddi. I suggi, le zazzamite, le larunchie; spurtusava pure le uova di serpente. Non se ne schifiava. Stessa cosa con le colombe, sia morte che vive. Il ragazzo ci pensava mentre si affacciava alla gebbia piena, che puzzava più del fiume. Una carusa di quella mai si potrebbe maritare, né ce la farebbe a starsene buona dalle monache. Sarina forse sì, ma Lilla… lei no, lei aveva la faccia bruciata dalla stortura. Gli occhi pure, si inumidivano delle secrezioni amare delle larunchie, non delle lacrime delle femmine. Tagliuzzava cose vive, come faceva quando parlava, e tutti tranne Nitto si scantavano e non ci provavano più a scherzare con lei, o parlare di mariti, o di sartoria. Quei sussurri come di vento sabbioso, una lingua di deserto, sapeva solo prosciugare ogni cosa e salarla. Lei era una carusa fatta di siccità.
L’acqua sotto i primi bagliori bianchi del sole pareva latte, e Nitto non riusciva a scrutare il fondo della gebbia. Stava perdendo tempo, abbassava la chiusa – un pezzo di ferro ruvido e tagliente in ogni parte, nonostante fosse già ben aderente al fondo della cannaletta. Ancora dovevano finire di sistemare il terreno in certi settori, e bagnato di luce grigioblu, il logoro Dino stava ravvivando la terra con la sua zappa. Colpito da duro, il terreno si sgretolava sottomesso alle punte violente tetaniche dell’attrezzo, e da ribaltato assumeva una nuova morbidezza fragile e profumata.
Padre e figlio si erano scambiati un’occhiata di tristezza primordiale, di visioni dei lineamenti di donna sbiaditi, un cavallo zoppo e poi uno sparo secco di rimando, sotto le palpebre cadenti. Il vecchio senza denti, con l’espressione risucchiata al centro del viso, e la schiena curva come se volesse spiralare nel guscio di un crastuni, si era riempito di una stanchezza che non poteva terminare nemmeno nel sonno inchiodato e sotterrato di cenere lavica. Per contro, gli occhi animaleschi e le gambe secche e lunghe del giovane potevano saltare sopra i tetti, ma quelle ginocchia si sarebbero rotte molto prima di mettergli i soldi in tasca, saltando e correndo sopra quella bestia bruna e malaticcia: “cu tutta a vardedda!”, sputacchiava Dino.

***

Dino era già pronto alle quattro e mezza. «Pà, chi sta fannu?» sbadigliò Nitto, colpito da una lunga fascia di luce bianca che si faceva strada dalla finestra sgangherata e accarezzava le fughe impolverate del pavimento. Il padre lo osservò da appena sveglio e intontito, biunnu come la crosta del pane buono, mentre si stropicciava un occhio dalle ciglia di paglia. L’aria era piena di polvere densa, da non poterla respirare. «Aiu a fari na cosa. M’avissi a spicciari currennu, tu ‘bbersiti e vo’ cogghi i cucuzzi». Parlava piano, la pelle coriacea delle guance si spostava nervosamente da un lato all’altro, stringeva il cappello in mano e lo tirava tra le dita, ripassandone le cuciture. I suoi passi trascinati, come in certe processioni, scrosciavano ruvidi. «Pà,» lo richiamò il ragazzo. Quello si girò con gli occhi che sbucavano terrorizzati dalle palpebre molli. Nitto se ne sconcertò e annaspò prima di continuare a parlare. Deglutì.

«Accura co’ mulu, ca ‘nterra è chinu i cinniri».

Il vecchio si coprì di un’espressione delusa, si aspettava una salvezza dalle labbra ancora gonfie di sonno del figlio. Certe onde spumose di sangue gelido lo investivano dal petto alla testa, e sapeva di avere qualche nodo di disperata nascita alla gola che non riusciva a sciogliersi, per come lui si era scordato di essere stato picciriddu, pure. E se ne andò.

Quando Nitto raggiunse il tavolo, vide che la tazza di latte del padre era ancora piena. Il cucchiaio sporco riposava al lato, sulla superficie liscia di legno, e sotto una pozza candida si stava asciugando appiccicosa. Sua madre strofinava nervosamente un cencio dentro una ciotola, gli occhi piccoli chiari inchiodati alla finestra, la vista sui vetri opachi impestati di aloni di stracci sporchi.
Il ragazzo si vestì saltellando e correndo per le stanze, bevve il suo latte in piedi, e quando salutò la madre, non ricevette in cambio nemmeno un rimprovero. Salendo sul cavallo, tese il collo al sole così amaro e umano che sembrava nascere con dolore, e poi alla finestra. Lilla non c’era. Partendo con lentezza, sentendo gli zoccoli spazzare manciate di cenere nera a ogni carezza al suolo, Nitto si guardò attorno con attenzione per tentare di scorgere il padre o il suo vecchio mulo da qualche parte. Tese le orecchie, ma il silenzio arido lo teneva in una cappa asfissiante, fino ai rintocchi delle campane. Il sangue pulsava azzurro sotto le vene, col trottare della bestia che portava. Si fermò davanti alla porta spalancata sull’androne buio della casa del signor ‘Ntoni, da cui uscì frettolosa con un secchio pieno d’acqua tra le mani la signora Tina, che era sua moglie.

«’Gna Tina, buongiorno!»
«Buongiorno Nittuzzu. Comu sta a mamma?»
«Bona. Senta, cia pozzu spiari ‘na cosa? Ca pi casu visti me patri?»
«To papà? U visti ora ora, sinni iu a ‘cchianari. Mi passi stranu, ma era di premura, u chiamai, ma iddu mancu mi visti».

Dino aveva preso la direzione opposta alla campagna, era andato per salire. Lì abitavano Mimmo e i suoi cugini, che erano una dozzina, infilati in stradine laterali minuscole che davano su cortili grigi e impolverati, dove ogni cosa emetteva fetore di letame e sudore. Nitto ringraziò la signora Tina, per poi muoversi verso casa di suo zio, con un’attesa spiacevole che gli arrugginiva il sangue. Fermatosi in mezzo alla strada larga, scese dal cavallo per infilarsi nelle vanedde in punta di piedi, senza scivolare e scrosciando il meno possibile sulla cenere. Il mulo di suo padre era fermo davanti casa del cugino Alfio, il cacciatore. Nitto indietreggiò lentamente, sgusciando via dal cortile, per poi venire schiacciato con la schiena al muro in un solo slancio potente dalla figura imponente dello zio Mimmo. Una mano abbronzata, grossa e callosa gli stava bloccando il collo, e la faccia rubiconda e sudata dell’uomo gli alitava in faccia tabacco stantio.

«Pigghia ‘ddu cavaddu, e scoppula ‘ri ‘cca. Prima ca ti scannu comu ‘na jaddina».

Nitto ebbe l’impressione di avere battuto le palpebre una volta sola, prima di ritrovarsi spiaccicato al suolo vicino alle lattughe, ansimando. Tutto fuori sembrava normale, il sole era rimasto alla stessa distanza di sempre, la signora Tina stava per buttare a terra l’acqua sporca del secchio, le strade alle cinque erano ancora deserte e i bambini non si erano svegliati, non erano ancora seduti fuori a tirargli sassi ri ‘ngoddu. Anche quel giorno a pranzo avrebbero mangiato zucchine e patate, e lui avrebbe detto “comu iè bona sta carni co sucu”. Dentro, invece, tutto era diverso. Ogni cosa era cambiata e doveva capirlo da come il grigiore del mattino si scagliava addosso agli occhi melmosi di suo padre, che sembrava dovere andare a scegliersi un tabuto. Alzandosi da terra, coi capelli biunni pieni di terriccio umido, e la camicia logora che a malapena si teneva insieme, osservò il centro vorticoso cremisi delle lattughe, che parevano celare all’interno delle foglie fresche delle rose brillanti.
Un gracchio bavoso si fece sentire vicino, il ragazzo si voltò di scatto. Una rana stava vicina al dorso della sua mano, e a ogni salto rilasciava sulla terra un timbro nero e colloso della sua sagoma.

***

Era colpa sua, era tutta colpa sua. Sarina si stringeva le ginocchia al petto più strette che poteva. Era rintanata all’angolo dell’ingresso e tutto era buio, tranne uno spiraglio paglierino che si insinuava nella fessura tra le due ante sgangherate del portone. L’odore di acquaragia le riempiva i piccoli polmoni. Quando era uscito, Nitto non l’aveva vista. La mamma e il papà non dicevano nulla a Nitto, ma Sarina era convinta che proprio nei momenti in cui loro pensavano troppo a cosa fare, discutendo di infinite ipotesi angosciose, allora Nitto avrebbe fatto la cosa giusta, se solo l’avesse saputo. L’avrebbe fatta nel modo sbagliato, inciampando sulle sue ingenuità, incastrandosi a rovi di inutili contorsioni, ma alla fine tutto sarebbe andato comu avìa a ‘gghiri, perché Nitto otteneva sempre quello che voleva, lui se ne fotteva di tutti. Lo diceva sempre: “iu, di ll’autri, minni futtu”.
Non gli importava degli altri, ma avrebbe fatto qualcosa per sua sorella Lilla. Lui avrebbe urlato alla mamma, se l’avesse vista tirare quel ceffone al teschio abbronzato.
La signora Aita lo sapeva che sua figlia stava dicendo la verità, se la immaginava cogli occhi gialli a perforare nuvole e cumuli di lapilli, facendo cascare in vorticose danze colombe e rondini, stramazzati al suolo. Lilla le labbra non le spiccicava, quelle lame rosse senza manici, affilate su tutti i lati. Ma Aita doveva liberarsi di quel gonfiore, di quel nodo natale alla gola, perché si era scordata di essere stata picciridda anche lei, e quando guardava Sarina le pareva di essere nata già madre di tre figli, vecchia e coi capelli grigi corti, con gli scursuni alle gambe e la pelle delle braccia cadente. Lei non era mai stata così piccola. E guardando Lilla, lei non era mai stata così muta, così strana, quasi bella. Il palmo teso si mosse da solo, con piena intenzione di fare saltare in aria le cervella dell’arida ragazza. Sarina pianse un po’, ma senza fare rumore. Le lacrime si interruppero, come se avessero affondato la chiusa alla cannaletta, appena ricevettero uno sguardo giallo e arido di superiorità.
«Chi ci ricisti? Chi ci cuntasti a ‘ddu vastasu? ‘Ddu cosu lordu, tu, me figghia!»
«Nenti ci rissi.»
«E ti ‘mmucciasti! Ri mia, to matri, sangu do ta sangu!»
«Nenti mi ‘mmucciai.»

Il cappello estraneo rimaneva sul tavolo, immobile, sembrava volersi scusare di aver causato tutto quello scompiglio. Marrone, confondeva le sue cuciture tra le venature legnose del mobile, tentando di scomparire.

«Aita, basta. A carusa a virità sta cuntannu, però a parrari cu ta maritu, ca chisti nan su cosi i fimmini.»

La voce di Lina, la vicina di casa, era ancora più aspra di quella di Aita. Arrivava prima alle soluzioni, e già alle sette aveva terminato tutte le faccende di casa, così il pomeriggio poteva giocare a carte. Lo sapeva fare meglio degli uomini. Aveva una paura pruriginosa di Lilla, se ne teneva lontana con compostezza. Stava robusta, ritta, e la osservava tra le pezze che vestiva. Si chiedeva come un uomo avesse potuto lanciarle la coppola, a quella povera carusa che era tutta ossa. ‘E masculi ci piaci a carni. L’ossa ‘e cani. Quella povera carusa. Mancu i cani s’a manciassiru. E povera, povera, povera, la picciridda. Che vedeva quel disgraziato col mulo passare e spassare, per fare il viscido davanti alla sorella più grande. Ma quella cosa era così scheletrica, che manco femmina era. Manco i maschi le potevano piacere. Povera, povera e poverella. La picciridda voleva solo giocare. E invece dietro al muretto della casa aveva visto tutto. Quello fischiava, e poi bisbigliava, Bedda, bedda, chi fa, nan mi talii? Chi fa, nan mu manni n’vasuzzu? Sulu unu. Porco, porco era.
Sarina vide sua sorella arrivare silenziosamente, poggiarsi alla porta con entrambe le mani, e spiare fuori dalla fessura. Sembrava cattiva, cattivissima, con quei gomiti affilati e le dita appuntite. I capelli scendevano lunghi sulla schiena nuda e le ossa dalla forma di scolopendra si torcevano in un mostro dentro di lei, avvolto solo dalla pelle imbrunita e dalla camicia da notte dalle lunghe spalline lucide. In un’onda, con un solo respiro, la bambina fu contenta di quello schiaffo. Se lo meritava, per essere così cattiva, così paurosa. Per non essere una sorella come lei la voleva, bella e morbida, una culla piena di latte, un bacio sulla pelle rossa. Era un insetto enorme sua sorella, che camminava per le stanze senza fare nessun rumore, senza ali, senza gusci; piena di veleno, osservava la morte al buio per conservarla negli occhi, e riversarla alla luce del giorno.

***

Nitto entrò silenziosamente nella stanza di Lilla, e la vide seduta a terra. Lo sterno ossuto dalla forma di ragno, le clavicole ragnatele assieme alla scollatura fina e tonda della camicia da notte. Gli occhi pestati e gialli da gatto preso di malattie e paura. Il ragazzo teneva in mano qualcosa, avvolto in un fazzoletto. Si chinò alla sorella, porgendo il pacchetto di tela. Era sporco di terra umidiccia dalla testa ai piedi e lasciava orme di fango a ogni suo movimento. Lei prese il fazzoletto sul suo grembo e lo distese, rivelando una carcassa di ranocchia appiccicosa e molle. Ne distese tutte le zampe, tenendole con le punta delle dita, poi le portò alle labbra, assaggiandole. Nitto deglutì, lo stomaco sembrava muoversi in composizioni fisarmoniche dentro il suo torso. Lilla si alzò e poso la rana sul comò, seguita dal fratello. Uno specchio li fronteggiava, distorto e opaco.

«Ora papà trasi ‘ca scupetta.»
«Picchì?»
«Picchì unu m’abbiau a coppula.»

Occhi da animali, gemelli, speculari, si scontrarono gli uni contro gli altri. Non era più facile maritarsi e basta?, pensava Nitto. Niente era facile e basta, non lo era mai.

«Papà nan cia fa a maniari a scupetta.»

Lilla si stette muta.
Niente era facile, mai.
***

Con le mani che tremavano, Dino puntava la canna fuori dalla finestra. Era una carabina, e del gelido incontro che ne aveva fatto a casa di suo cugino Alfio, era rimasta soltanto la paura, che era diventata caldissima sotto le sue dita sudaticce. Desiderava essere già morto, o, più che altro, non avere mai avuto figli.

***

Tuzzu già assaporava la sua vita completa, il sapore del vino fermentato per bene, la dolcezza della frutta che ci avrebbe tagliato dentro la sua futura mugghieri. Col suo occhio tumefatto, portava il mulo al vigneto. Passava per la strada lunga, così da vedere la sua fidanzata affacciata come sempre alla finestra. Sapendo che non avrebbe potuto ignorarlo. Poteva mangiarsela, viva e brulicante.
Il sole era bianco, coperto da nuvole dense di presagi crudeli, che Tuzzu ignorava. Lui si sentiva baciato dall’alone slavato di quella giornata fresca, benedetto dal suo cielo preferito ai rintocchi delle campane che presto avrebbero scandito gli attimi luminosi del suo matrimonio. Il matrimonio col miglior vino di tutto il paese.

Nitto osservava suo padre con una rabbia incompleta che gli formicolava nelle vene dei polsi. Il vecchio non sarebbe riuscito a sparare, non aveva neanche la forza di premere il grilletto. La carabina rinculava poco, ma Dino sembrava pronto a sdirrubbarsi all’indietro per uno starnuto. Ingrigito e flaccido, sudava freddo dai pochi capelli appiccicati al cranio chiazzato.
Lilla gli era sfuggita, non sapeva dove fosse andata. Nel silenzio salivante che inumidiva l’aria, sembrava che la rana distesa sul comò potesse viviriscire ancora e tornare a gracchiare umida.
Appena sentì gli zoccoli poggiarsi sordi sulla terra pestata liscia, il ragazzo dovette scuotere le mani per permettere al sangue di scorrere senza fargli male. Ogni arto era teso, come tra colpi di fruste, sentì di dovere sbrigarsi. Scese correndo all’ingresso buio, cadendo a terra e lazzariandosi le ginocchia al termine delle scale. I pantaloni si erano già strazzati. Vide la sorella appoggiata alla fessura di luce bianca, con le dita appuntite aderenti al portone. La sua spina d’insetto si muoveva da serpente moribondo. La scansò, aprendo le ante sgangherate al grigiore primaverile. Il cielo saltò addosso all’ingresso, liberando per aria il prulazzo, il fetore di acquaragia, e rischiarando le figure delle due sorelle, entrambe sedute a terra. Sarina ancora raggrumata in un rovo di ossa, la più grande graffiata e rimasta in disparte, vittima di una tempesta.
Nitto corse ad appendersi alla gamba dell’altro ragazzo sul mulo, trascinandolo giù con tutto il peso che poteva caricargli addosso, portandosi dietro pure la vardedda. Il corpo sorpreso e inerme di Tuzzu gli cadde addosso, schiacciandolo. Ruzzuliando nella terra e nella cenere nera, l’odore di fumo e polvere si innalzava in nubi tra le loro braccia e le loro schiene, lo respiravano, e si urlavano e tossivano in volto ingiurie interminabili. Tuzzu non poteva scappare, perché quel biondo si attaccava con le unghie ai suoi vestiti, e lo teneva inchiodato al suolo. Gli era salito con le ginocchia sulle braccia, e aveva serrato le mani al suo collo bruno, appena sotto la barba ispida. L’occhio scuro lacrimava, dalle labbra aride sibilava un lungo lamento. Il ragazzo sopra, con gli occhi acidi, mummuriava di rabbia.
Quando la presa si fece debole, un rivolo di sangue colò dalle labbra dell’animale biondo. Uno scoppio non venne udito dai due giovani. Il corpo ossuto si lasciò andare, sfiatando, addosso a Tuzzu. Con le mani sulle sue spalle, le ginocchia ai suoi fianchi, pareva lo stesse abbracciando. La bocca era rimasta aperta, e i denti poggiavano sul collo del ragazzo a terra, che non sapeva se respirare o meno. Tuzzu spinse via Nitto e lo capovolse, aveva un purtuso al centro del petto, e gli aveva macchiato tutti i vestiti di sangue vischioso e bollente. Con gli occhi verdi rivolti ai primi spiragli ingialliti del sole in un foro tra le nuvole dense, rantolò. Tuzzu alzò lo sguardo, incontrando le biglie melmose e la pelle di cera colante del signor Dino. Aveva fatto cadere la carabina dalla finestra, assieme alla sua mandibola; quella però era rimasta ‘ppinnuta al volto ciondolante.
Con passi scroscianti, Lilla si avvicinò al fratello suo riflesso, guardandolo in volto con gli occhi gialli e le labbra di lame rosse. Gli arti appuntiti, le ossa di insetto, la pelle polvere e sole. Abbassandosi, arrivando con le ginocchia gonfie al suolo, sfilò dalla bocca gonfia una rana morta intera. Colavano bave indistinguibili e animalità come ragnatele. Infilò la carcassa nella tasca zuppa di sangue della camicia del fratello, sul petto. Tuzzu non aveva mai visto una ragazza così laria. L’avesse vista prima da vicino, non avrebbe mai ‘bbiato la sua coppola. Una così, non l’avrebbero sbranata manco i cani.
Aita uscì fuori correndo sbilenca sui polpacci tozzi e feriti, per poi tirare un lungo bastone in testa alla ragazza, che si accasciò a terra coprendosi il volto, completamente nascosta dai capelli castani ingrigiti dalla polvere. Un tonfo e spasmi ruvidi sulla cenere seguivano le percosse, senza lamenti, solo il sangue che scorreva dalla fonda ferita al petto di Nitto.
Rimase di lui solo un colloso timbro della sua sagoma sulla terra.

Tuzzu non aveva mai visto una ragazza così laria. Mai l’avrebbe maritata.

Giorgia Distefano

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