Stenderà la sua ombra la potenza – racconto di Claudio Kulesko

Stenderà la sua ombra la potenza – racconto di Claudio Kulesko

Oltre la ragione, che cerca, c’è un’altra ragione, che non cerca oltre.
Meister Eckhart

 

Era da poco sorto il sole. Adalberto scendeva giù per il pendio in silenzio, trascinandosi dietro un grosso secchio pieno d’acqua. Sul suo volto neppure un’ombra di stanchezza o di fatica. Il passo deciso, la schiena ritta come un muro di mattoni.
A fondovalle, nella stamberga appartenuta al guardiacaccia del conte, lo attendevano un tozzo di pane raffermo e un pezzo di formaggio. A essi pensava per distogliere la mente dal freddo e dalle fitte di dolore che gli attanagliavano i polsi e le ginocchia. Un piccolo anticipo di ciò che avrebbe significato accettare tutto ciò che esiste per quel che è, in grazia di Dio.
Come ogni giorno, si era alzato ancor prima dell’alba, per pregare e meditare in quel limbo a cavallo tra la notte e il giorno, camminando a piedi nudi per la selva. Come ogni giorno, al suo passaggio, gli uccelli l’avevano salutato e allietato con il loro cinguettio; i fiori erano sbocciati, baciati dalla prima luce; i conigli avevano drizzato le orecchie e levato il capo dal trifoglio; e lui, come ogni giorno, li aveva ringraziati levando alta al cielo la voce.
«Kyrie, eleison. Christe, eleison. Christe, eleison.»
Aveva ripetuto il suo canto per cinquanta, cento, duecento volte, finché non si era sentito svuotato.
Con l’alba era giunto il tempo delle faccende: cogliere la borragine e la cicoria nei campi; far legna per il fuoco; rammendare brache e cappotti; attingere acqua al fiume. La lista delle cose da fare sembrava non finire mai e, anzi, cresceva di anno in anno, man mano che le sue condizioni di vita si facevano più precarie. Ma Adalberto non se ne lamentava mai, neppure quando, una volta a settimana, scendeva in paese per mendicare, né quando i ragazzini lo schernivano per strada, correndogli attorno e strattonandolo per la mantella.
Adalberto era un eremita. Viveva in una capanna a ridosso della Foresta Nera, sul lato settentrionale del bosco, là dove il vento spirava più forte e il freddo era più intenso. Otto anni prima, aveva scelto quel posto per non poter essere raggiunto da nessuno, per restare solo. Così era stato e ora era così solo che, le rare volte che conversava con qualcuno, gli capitava di scordare le parole.
Prima di essere un eremita, era stato l’unico figlio del più ricco mercante di stoffe di Francoforte. Serbava ancora memoria di quei giorni benché, ormai, gli sembrassero appartenere a un’altra persona. Lo studio della contabilità e della grammatica; le letture della Bibbia dinanzi al focolare; gli amori fugaci e le notti trascorse a bere e giocare a carte con gli amici.
Era stato, al contempo, la più grande gioia e la più grande pena di suo padre e di sua madre. Eppure mai, mai, neppure una volta, era stato lasciato a se stesso, in balia delle conseguenze delle proprie azioni. Quando aveva messo incinta la figlia di un ciabattino di origine boeme, il padre si era adoperato per pagare un’ingente somma e metterla a tacere. Quando si era ubriacato in osteria e aveva inseguito, coltello alla mano, un giovane soldato, reo di aver barato a dadi, anche allora era stato il vecchio a far sì che più di un testimone avesse a dichiarare che a dare inizio alla zuffa fosse stato il militare.
Qualche anno dopo il convoglio di suo padre era stato assalito dai banditi mentre attraversava la Lituania. Due settimane più tardi, al rientro dall’ennesima notte di bagordi, aveva appreso dalla sorella di sua madre che il vecchio si era spento in un’abbazia alle porte di Turov. Fu solo qualche giorno dopo che si rese conto che, mentre suo padre moriva, lui se la stava spassando in un bordello. Gli capitava spesso di ripensare a quel primo, grande passo verso la verità delle cose: un attimo prima di attraversare la soglia di casa non era che un giovane delinquente; quello dopo, l’unico erede di una delle più grandi compagnie mercantili di tutto l’Impero.
Così va e viene la gloria del mondo.

Adalberto posò il secchio a terra e socchiuse piano la porta del capanno. All’interno regnava un silenzio teso, interrotto solo dal respiro della creatura che dormiva nella vecchia credenza che il guardiacaccia era solito stipare di pergamene, timbri e calamai. Adalberto trasse un sospiro di sollievo e trasportò l’acqua accanto al tavolo, cercando di fare meno rumore possibile. Poi, guardò bene sotto il giaciglio, tra la paglia e nella cappa del camino, per controllare che, in sua assenza, non fossero entrati animali selvatici. Ancor più del peccato e della bufera, era questa l’eventualità che lo crucciava più di ogni altra. Cosa avrebbero potuto fare una volpe o un cane randagio alla cosa che se ne stava accasciata, inerme, sul ripiano più alto della credenza? L’avrebbe sbranato, avrebbe giocato a sbatterlo qua e là come uno straccio logoro o avrebbe, invece, avuto pietà o persino orrore di quell’essere così derelitto?
Dalla bisaccia che pendeva da un chiodo affisso alla parete, Adalberto trasse il pane e il formaggio. Non appena era giunto in vista del capanno, il suo stomaco aveva preso a brontolare con ferocia. Un segno di quanto fosse ancora lontano dal raggiungere il distacco. Spostò piano lo sgabello e si sedette a tavola, le gambe tremanti per la fame.
Non era giunto neppure a metà del pasto, che dalla credenza in fondo alla stanza di levò un urlo disperato.
Adalberto si portò entrambe le mani al volto. Per otto anni aveva sopportato in silenzio la presenza della creatura. Era la sua croce, il sacrificio che il Padre Celeste aveva preteso da lui. Abbandonò il cibo sul tavolo e si diresse verso la credenza. Aprì gli stipiti e accolse l’essere urlante tra le mani. Il corpo cilindrico del Cane di Vita si contraeva e si espandeva, drizzando i peli scuri e ispidi, i piccoli occhi gialli spalancati, colmi di disperazione. Adalberto se lo accostò al petto e ne avvertì i tremori e l’intenso calore. Poco a poco, l’essere si calmò e sprofondò di nuovo nel sonno. Con cautela, Adalberto lo restituì alla credenza. Sarebbe bastato un solo movimento brusco a risvegliare la creatura e, stavolta, il suo abbraccio non sarebbe stato sufficiente a placarla. Richiuse le ante e tornò al suo pane e formaggio. Sul tavolo, accanto al cibo, la vecchia Bibbia di suo padre era già aperta all’“Ecclesiaste”.
Portandosi alle labbra un morso di mollica secca, si concentrò sull’atto di masticare, sul moto meccanico delle mandibole e delle lingua. Esiliò il Cane dai suoi pensieri. Solo Cristo doveva restare nel tempio della sua anima. Di lì in poi, non importava cosa sarebbe accaduto: doveva trattare ciò che aveva vicino allo stesso modo in cui trattava ciò che era lontano, lontanissimo nel tempo e nello spazio. Introdusse nel suo corpo un morso di formaggio e, subito, lo condusse nel distacco. Mastica. Assapora. Respira. Ingoia.

Dopo la morte di suo padre, aveva messo la testa a posto. Niente più bagordi né carte né prostitute allegre. Divenne Messere Adalberto e così lo chiamavano tutti, tra inchini e cortesie. Come aveva fatto suo padre, anch’egli si occupava di persona della qualità delle stoffe, del trasporto e della contabilità. Non si era mai visto, a Francoforte, un mercante più risoluto e implacabile. Nel giro di un anno, era riuscito a imporsi persino sulle compagnie italiane, importando dall’Inghilterra i primi filatoi ad alette. Era come se, fin da quand’era nato, non avesse atteso altro che di rivelare al mondo la sua vera essenza, quella dell’uomo d’affari. Eppure, in cuor suo, non faceva altro che vivere la vita che suo padre aveva voluto per lui. Ogni volta che poteva, incontrava i compratori nella piazza dinanzi al Duomo, per ribadire che quello era un ruolo che il cielo gli aveva imposto, non qualcosa che aveva scelto.
La notte del suo trentatreesimo compleanno, mentre era intento a chiudere gli ultimi dettagli di un ordine destinato alla corte imperiale, qualcuno aveva battuto con foga alla sua porta. La governante non aveva fatto in tempo a condurre l’ospite al suo studio, che quello aveva già salito le scale per presentarsi dinanzi a lui. Era Egidio, l’anziano segretario di suo padre. Senza neppure salutarlo, il vecchio aveva preso a inondarlo di parole, sbracciandosi e battendo le mani sullo scrittoio come se una legione di diavoli gli fosse appena balzata in corpo.
Poco prima del tramonto, uno stuolo di figure eteree era apparso nei cieli sopra lo stabilimento al di là delle mura. Dischi, croci, triangoli e galeoni dalle vele spiegate avevano solcato lo spazio tra le nubi, disponendosi in due distinte formazioni. I tessitori, allarmati dalle grida dei braccianti, si erano riversati all’esterno per assistere al miracolo. Nessuno si sarebbe mai aspettato che le apparizioni dessero inizio a una violenta battaglia, speronandosi e colpendosi a vicenda con intensi raggi di luce. Egidio stesso aveva udito qualcuno invocare la fine del mondo e visto alcuni tessitori prostrarsi a terra, in ginocchio. Alla fine, sopraffatto dai tuoni e dai lampi, il capannello radunato fuori dall’impianto si era dato alla fuga, abbandonando a loro stesse le fornaci da asciugatura e le postazioni di fissaggio.
Adalberto lo aveva ascoltato come in un sogno, senza replicare.
Dopo qualche minuto, forse già all’inizio della battaglia, uno dei capi lasciati ad asciugare doveva aver preso fuoco. Le fiamme si erano propagate alle bobine di tessuto ed erano giunte alle vasche dei mordenti. Da lì era scoppiato un incendio che aveva avvolto l’intero stabilimento. Nessuno, però, aveva avuto il coraggio di avvicinarsi per provare a estinguere le fiamme, per timore della battaglia che ancora infuriava nel cielo.
Non vi era stato un momento in cui Adalberto aveva preso coscienza dell’accaduto. Di punto in bianco, le sue gambe avevano preso a muoversi e il mondo attorno a lui a scorrere veloce. Si sentiva la testa leggera, leggerissima, ma non aveva smesso neppure un attimo di correre, come se fosse la sua anima a trasportare il suo corpo su ali d’argento. Non si era accorto di aver perso Egidio già a pochi piedi da casa, né aveva fatto caso alla distanza che lo separava dall’impianto. Tutto quel che gli premeva era raggiungere il prima possibile quell’ultima traccia di suo padre, impedire che finisse distrutta assieme al suo futuro.
Giunto sul posto, con il fiato corto e incapace di reggersi un minuto di più sulle gambe malferme, non aveva trovato altro che una distesa di fumo e rovine. Fumo e rovine sulla terra, là dove giaceva ciò che restava dello stabilimento. Fumo e rovine nei cieli, tra i quali immense figure fluttuavano meste alla deriva. Nell’oscurità, le ultime vampe danzavano come spettri, tramutando l’orizzonte in una visione d’Inferno.
Adalberto non riusciva né a piangere né a gridare. Se n’era rimasto a pensare che se l’era meritato, che quella era la giusta punizione per uno come lui. Poi, aveva alzato gli occhi al cielo e, per la prima volta, li aveva visti davvero: una solenne processione di dischi e croci, disposti a triangolo, procedeva verso sud, sfilando tra le carcasse dei galeoni in fiamme. L’armata di Nostro Salvatore Gesù Cristo che marciava, trionfante, tra le ceneri di Babilonia.
Allora, lo Spirito Santo era sceso su di lui.
Una luce abbagliante aveva avvolto ogni cosa in un silenzio infinito. Adalberto si era sentito trascinare fuori dal mondo, fuori dal tempo. Aveva intuito che qualcosa gli stava per essere conferito o sottratto. Mai e poi mai, però, si sarebbe atteso entrambe le cose in una sola volta.
Si era sentito libero. Libero dal peso di dover fare o avere qualcosa, di dover essere qualcuno. D’un tratto, la famiglia, gli affari, persino l’incendio, gli erano parsi così lontani, così irrilevanti, da non riguardarlo più. Con suo sommo stupore, gli era stato dato tutto e, al contempo, tutto gli era stato tolto.
Com’era apparsa, la luce se ne era andata. Il brulichio delle fiamme era tornato a saturare la spianata, sulla quale le ultime braci si andavano consumando. Era rinato al mondo, infreddolito e in lacrime, a malapena in grado di respirare.
Mentre giaceva a terra, sferzato da gelide raffiche di tramontana, Adalberto aveva udito un pianto acuto ergersi tra le macerie. Un bambino? Un neonato lasciato indietro dalla madre in fuga? Per più di un’ora, aveva battuto i resti dell’incendio, palmo palmo, lasciandosi guidare dalle grida. Mentre rovistava tra una pila di travi e macchinari semidistrutti, i gemiti si erano fatti più intensi, più vicini. Aveva scavato e scavato, fino a rompersi le unghie e ferirsi le mani.
Non poteva credere ai suoi occhi. Quello che urlava e si dibatteva tra i rottami non era un bambino. Non era neppure un essere umano. Rannicchiato su se stesso come un lombrico, giaceva un essere ricoperto di peli, della lunghezza di due palmi risicati, privo di braccia e di gambe, senza collo e senza testa, oblungo e compatto come un escremento di cane.
Come se una mano invisibile lo stesse guidando, Adalberto lo aveva preso a sé e se l’era stretto al petto. In quel corpicino esausto aveva sentito pulsare tutti i dolori e le sofferenze del mondo; da buon mercante, le aveva condivise e soppesate, valutate e ridistribuite; e aveva deciso non volerne più farne parte.
Il pianto era cessato e la creatura aveva levato su di lui i suoi grandi occhi languidi. In quel preciso istante, Adalberto aveva deciso che non l’avrebbe mai abbandonato. Era suo. Gli era sempre appartenuto, sin dall’inizio dei tempi. Era il suo cane. Il cane in cui il Signore aveva riversato tutte le menzogne e gli sbagli della sua vita.

Quella notte infuriò sul bosco un vento implacabile. Al sicuro nella sua capanna, coricato su un giaciglio di legno e paglia, Adalberto ascoltava il sibilo delle fronde, così acuto e spaventoso da fargli immaginare che il mondo intero stesse per essere strappato da terra e scagliato nel cielo. Si tirò sotto il mento la coperta pidocchiosa.
Nel camino sfrigolavano gli ultimi tizzoni. Adalberto aveva dimenticato l’attizzatoio in ferro battuto del guardiacaccia poggiato in bilico sul braciere come uno spiedo fuori misura. Il Cane di Vita era sveglio da un pezzo, assiso sul suo ripiano della credenza. Non piangeva ancora ma erano buoni minuti che aveva preso a lamentarsi, singhiozzando sconsolato di tanto in tanto. La somma di quei gemiti e del vento dava vita a una sinfonia infernale, alla quale l’eremita rispondeva inspirando ed espirando, in modo lento e rigoroso, quasi intendesse trasformare il respiro, che è qualcosa di automatico, in un atto deliberato. Respirava e pregava a mezza bocca, in un alito di voce:
«Kyrie, eleison. Christe, eleison. Christe, eleison».
Era quasi riuscito a sprofondare nel sonno, quand’ecco che il vento si placò di colpo, lasciando la valle in balia del silenzio. Tutti i peli sul corpo di Adalberto si rizzarono all’istante. Persino il Cane tacque. L’eremita si mise a sedere sul letto e allungò una mano verso il rosario appeso alla parete. Non fece in tempo a raggiungerlo, che il Cane iniziò a uggiolare. Adalberto restò di sasso, la mano tesa a mezz’aria; era la prima volta che udiva la creatura emettere un suono diverso dal pianto. E si agitava, anche, ondeggiando a destra e sinistra quel suo corpo da zucca-embrione, euforico.
Un vago senso di terrore si insinuò nell’eremita. Un timore che non era suo ma che pareva giungere da fuori, dall’oscurità che languiva oltre la porta. Tese l’orecchio e restò immobile, in ascolto.
Toc, toc.
Adalberto sobbalzò sul letto e si voltò a guardare il Cane. Ma quello era ancora intento a scuotersi e a dondolare febbrile. Un ramo trascinato dal vento contro la capanna. Un viandante che aveva perduto la strada nella tempesta. Un cane affamato che va di casa in casa, grattando disperato. Senza che potesse farci niente, un’immagine gli trapassò la mente, facendolo rabbrividire: Il Diavolo bussa alla mia porta.
Toc, toc, toc.
Scivolò fuori dal letto. Cercò con lo sguardo un coltello o un bastone da usare come arma e, subito, si maledisse per quel pensiero così crudele. Si accostò cauto alla porta e domandò, con voce grossa: «Chi è?»
Silenzio.
«Adalberto, figlio mio, apri la porta. Si gela qua fuori.»
Sulle prime, l’eremita credette di sognare. Poi, ebbe un mancamento e fu costretto a indietreggiare, per sostenersi con entrambe le mani al tavolo dietro di lui. Se solo avesse potuto, sarebbe andato ancora più indietro, all’angolo più lontano della stamberga. Il Cane uggiolava ancor più forte di prima.
«Adalberto, sei in casa? C’è anche la mamma lì con te?»
Strinse i pugni e cominciò a sudare, nonostante il freddo che trapelava dagli spifferi tra le travi. Deglutì un groppo di saliva denso e doloroso. Le parole gli uscirono di bocca da sole.
«Papà. Tu sei morto, ricordi, papà?»
«Che vaneggi, figliolo? Dov’è tua madre? E aprimi, per carità di Dio, che fa freddo qui fuori.»
Adalberto si stropicciò il volto con le mani e si gettò sulla porta per sbirciare tra le travi. Nel buio, una sagoma se ne stava in piedi davanti alla porta. Non vi poteva essere alcun dubbio, era suo padre. Suo padre a quarant’anni. La stessa età che aveva l’ultima volta che l’aveva visto nel salotto di casa sua.
Si incurvò per spiare nel buio, quasi a introdurre l’occhio nello spazio tra le assi, e si avvide che, dietro all’uomo, altre sagome si trascinavano alla fioca luce lunare. Il vecchio Egidio. Adelajda, la governante polacca di sua madre. Suo zio Ernst e il suo migliore amico di infanzia Friedrich.
«Chi c’è con te, papà?»
Chiese, rivolto alle tavole di legno infradiciate.
Dall’altra parte, la solita voce replicò, stizzita.
«Ci siamo tutti, no? È il tuo compleanno oggi, te ne sei dimenticato, mascalzone d’un figlio?»
A sentirsi chiamare “mascalzone”, un istintivo moto di indignazione lo colpì come un pugno allo stomaco. Si irrigidì, come aveva fatto quasi ogni giorno per trent’anni, in preda al senso di colpa, e si rese conto che era davvero il suo compleanno.
Si conficcò le unghie nei palmi delle mani, finché il dolore non lo costrinse a tornare lucido.
Recuperò la sacca appesa alla parete, indosso la pelliccia di montone e andò alla credenza. Afferrò il Cane quasi fosse un ciocco di legno e quello strabuzzò gli occhi e smise di agitarsi. Se lo ficcò nella borsa con un grugnito. Andò al camino e raccolse l’attizzatoio; ne strinse con forza il manico nel pugno serrato e avvertì il calore risalirgli lungo il braccio.
Tornato dinanzi alla porta, poggiò quasi le labbra sul legno ed esclamò a gran voce.
«Un attimo, arrivo, sto venendo ad aprire.»
Poi, spalancò di colpo la porta, l’attizzatoio ben alto sopra la testa. Il demone che sosteneva di essere suo padre era il primo della fila, in piedi di fronte alla porte. Era identico a lui, ma pallido e rigido come un uomo appena morto. Gli calò la punta sbarra di ferro sulla fronte, tra gli occhi fissi spalancati. Quello emise un sibilo acuto, che risuonò come un fischio nel vento, e barcollò indietro, tenendosi il volto tra le mani, continuando a soffiare e urlare Ihhhh, Ihhhh.
Gli altri diavoli si fecero avanti, le braccia tese dinanzi al corpo come per ghermirlo, ma Adalberto faceva dondolare il ferro a destra e manca, frustando l’aria con vigore. Non li voleva davvero colpire, oppure sì ma non ne aveva il coraggio. Voleva solo che si levassero di torno, che lo lasciassero in pace una volta per tutte. Lanciò uno sguardo al simulacro di suo padre, più in là, in ginocchio sul prato, e lo vide sciogliersi e liquefarsi come grasso al sole. Trasalì, avvertendo il tocco del male spandersi su ogni cosa. Iniziò a pregare a bassa voce, sferrando colpo dopo colpo.
«Padre del Cielo, che sei Dio, abbi pietà di noi. Figlio, Redentore del mondo, che sei Dio, abbi pietà di noi. Spirito Santo, che sei Dio, abbi pietà di noi. Santa Trinità, unico Dio, abbi pietà di noi.»
La punta acuminata dell’attizzatoio ne colse un altro sul petto. Era lo zio Ernst, che si piegò in due, prolassando dal torace una melma densa e vischiosa, color muschio. La creatura prese a urlare, agonizzante Ihhhh, Ihhhh.
A ogni passo in avanti dell’eremita, i diavoli soffiavano furiosi e arretravano, finché non si ritrovarono disposti su due ali. In quel momento, Adalberto lanciò un ruggito e balzò avanti. Si fiondò sul sentiero e prese a correre nel bosco immerso nel buio. Nella sacca, il Cane di Vita gemeva e uggiolava, contorcendosi piano contro il fianco dell’eremita.
Continuo a correre e a correre, con tutta la forza delle sue gambe anziane ma ancora energiche, allo stesso, identico modo in cui aveva corso la notte nella quale aveva perso ogni cosa e guadagno la parola di Dio. Alla fine, ansante e stremato, si fermò nel bel mezzo di una radura, i palmi delle mani sulle ginocchia. Dalle sua labbra, nubi di vapore si andavano disperdendo verso il cielo. Un freddo bagliore lunare colava come melata dai fili d’erba e dalle chiome degli alberi. Si girò a guardare e non vide nessuno dei suoi misteriosi persecutori. Si arrestò per ascoltare e non li udì. Li attese, incapace di proseguire, l’attizzatoio spianato dinanzi a lui come la spada di un soldato.
Nient’altro che il silenzio, un debole ronzio che gli trapanava i timpani e il cuore, e il pianto sommesso del Cane. Era riuscito a seminarli. Lasciò andare l’attizzatoio e neppure lo udì toccare terra.
D’improvviso, gli parve che la luce lunare si facesse più intensa. Forse, stava già albeggiando. Poi, ricordò di essere andato a letto al solito orario, subito dopo aver mangiato e meditato le Scritture. Si guardò attorno e scrutò il cielo: la luce proveniva da un punto sopra di lui. Diventava sempre più grande e sempre più intensa, di secondo in secondo, sempre più vicina. Rimase a fissarla, finché non si trovò egli stesso nella luce, incapace di stabilire se fosse stata la luce a inglobarlo o egli stesso a esservi entrato. Gli sovvenne un frammento dell’“Ecclesiaste”:
Tutti i fiumi nel mare e il mare non è più nel fiume.
Lo ripeté a mente altre due volte.
Era tornato. Dopo tanti anni, infine, lo spirito aveva fatto ritorno. Qualcosa, qualcuno, prese a parlare da un punto imprecisato e, al tempo stesso, ovunque, come un cerchio la cui circonferenza è ovunque e il centro in nessun luogo in particolare.
«Abbandonalo, Adalberto. Lascialo andare.»
Disse la voce, ed era come un tuono ardente di fiamma. L’eremita non seppe cosa rispondere.
«Vogliono portartelo via. Vogliono che continui a soffrire lontano dai tuoi occhi, senza che tu possa vederlo, affinché tu ne avverta per sempre il bisogno e la mancanza. È giunto il momento di lasciarlo andare, Adalberto. Lascia che prosegua senza di te, per conto suo.»
Proseguì la voce in un tono dolce, pacato, simile a quello che un adulto serberebbe a un marmocchio.
L’eremita si accorse del Cane che gli premeva sul fianco con la testa o la parte inferiore del corpo, e capì cosa intendeva la voce. Che strano essere, quello che non si riesce a capire dove inizi e dove finisca, pensò Adalberto.
Ficcò la mano nella borsa e la avvolse piano attorno alla creatura. La tirò fuori, ben attento a non ferirla con i lembi della sacca, e la espose alla luce.
L’angelo parve sospirare attraverso il cielo e il Cane trasalì assieme a esso. Ma non era terrore, e neppure angoscia o dolore. Per la prima volta da quando l’aveva tratto in salvo dalle macerie, Adalberto sentì il corpo del Cane rilassarsi poco a poco tra le sue mani. Era sveglio, eppure non si stava lamentando, non piangeva né urlava come un ossesso. Se ne stava lì, zitto e buono tra le sue mani, alla stregua di un cane in attesa di un comando dell’amato padrone. E un comando giunse davvero, ma non per il Cane.
«Va, Adalberto. Torna a casa. D’ora in poi, sei libero.»
L’eremita percepì il Cane staccarsi dalle sue dita e le spalancò per favorirne il passaggio. Nel sentire il corpo della creatura allontanarsi dal suo, Adalberto si lasciò sfuggire un singulto e calde lacrime presero a salirgli agli occhi, intrise di gioia e di amarezza, di rimpianto e speranza. Osservò il Cane librarsi nella luce e svanire, come un fiume che, giunto alla foce, si getta nel mare.
Per tutto quel tempo, chi era stato il cane e chi il padrone?
Fu libero.

Claudio Kulesko

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