Ritorno del padrone – racconto di Apolae

Ritorno del padrone – racconto di Apolae

Ester mormora che è inutile. Stringe lenta le labbra secche, versa accorta l’olio nella lucerna e dice che tanto nessuna riuscirà a restare sveglia. Il suo giaciglio sta proprio alla destra della porta e lei è ben conscia che sarebbe la prima ad essere scoperta. Dà fuoco allo stoppino e scambia l’ennesimo sguardo con Rachele, occhi di rughe sottili, alla sinistra dell’entrata. Non si vede ancora, scuote il capo torcendo una ciocca castana. Fuori soltanto un grumo buio, spezzato dal taglio di luna che lambisce i guardiani del cancelletto. Gli uomini masticano gambi di borragine, discorrendo di voci recenti giunte dal sinedrio: pare che un sacerdote sia inviso ai romani per le sue posizioni in materia di giustizia. Rischia la prigione, qualcuno azzarda peggio. Una volpe ascolta cauta da un cespuglio, poi la folta coda striscia altrove.

Nella nostra stanza il riverbero delle quattro fiammelle rischiara a malapena, proiettando sulla penombra dei muri le nostre sagome curve. Rachele intende risparmiare l’olio fino all’ultimo istante, quando scorgerà il padrone in arrivo, ma il cielo stanotte tesse una trama difficile da districare. Daniela e Miriam sono crollate, quest’ultima con la fiamma ancora accesa tra le mani. Noemi si è affannata a spegnerla prima che bruciasse il vestito o infiammasse la stoppa del giaciglio. Nel tentativo di scuoterle dal torpore, Svegliatevi che fate, ha dimenticato di alimentare la propria lanterna e, se il padrone dovesse tornare di qui a poco, pagherebbe il proprio cieco altruismo. Eppure continua a picchettare sulla fronte di Daniela e strattonare il gomito di Miriam, alternando i tentativi dall’una all’altra. Neanche si avvede di Betsabea, dietro di lei come un ratto, intenta a trasferire la sua riserva d’olio in una coppetta che nasconde sotto la tunica. Io me ne accorgo e faccio un debole cenno a Ester, ma entrambe tacciamo. Betsabea è donna ruvida e vendicativa, alla quale non sappiamo opporci.

La mente indugia allora su Tamara, che tra noi non ha resistito ed è scappata, ormai sono sei giorni, saltando in un carro di letame. Rachele l’aveva veduti, i suoi calzari logori confusi nella poltiglia diretta ai campi, ma nessuno le aveva creduto, Stai zitta sciocca. Chi avrebbe mai messo le mani nello sterco per una schiava di trent’anni? Presto la rimpiazzerà un’altra, più giovane e vitale. Frattanto Lea zoppica verso il tavolaccio della stanza, trascinando una gamba malandata. Non riesce più a tenere il manico fermo, le schizza l’olio rovente sulle dita. Allora posa la sua lucerna tremante e raccoglie i lunghi capelli in una treccia che scivola tra le scapole ossute. Formiche percorrono l’orlo crepato di un orcio. Dice che Simona è stata la più fortunata di tutte, venduta al falegname vedovo, quel buon uomo che ha solo lei per schiava e la tratta quasi come fosse una moglie. Così le dicerie insinuate tra le tegole e le lastre del lavatoio.

Daniela ha un sussulto sul giaciglio, tossisce e si gira dall’altro lato. Noemi ne copre le caviglie con un panno. Ester osserva la scena e si lascia cadere molle con la schiena contro al muro. Soffia sullo stoppino e smorza la fiammella. Io provo a destarla con carezze spicce, la supplico di perseverare, ma scorgo Betsabea dietro di noi e devo voltarmi per proteggere la lucerna. Lei mi scansa con un grugnito, Levati svelta, e sostituisce il suo stoppino consumato con quello di Ester. Le luci nella camera sono adesso soltanto tre, tutte concentrate nel lato destro, come se nella stanza se ne fossero create due distinte. Persino Betsabea è stremata, a dispetto della tempra dura, china sul dorso di un baule. Si lamenta con voce rauca, un misto di malessere e rancore. Invoca i figli strappati, giura di ritrovarli. Lea rabbrividisce e siede su uno sgabello, avvicinandosi al mio cantuccio.

D’altro canto, non capisco se Rachele sia ancora all’erta di fronte alla finestra oppure se la sua veglia sia terminata nella dolce resa del riposo. Non sento più Noemi incoraggiare le donne addormentate, né il loro russare profondo. Non distinguo più nell’aria l’odore dell’olio bruciato da quello dei nostri umori smarriti. Sono acquattata in un angolo illuminato a stento, con una speranza accesa nel palmo delle mani callose. Talvolta ci sembra di sentire rumori là fuori: gli zoccoli di un cavallo che accenna a fermarsi, le chiavi di un guardiano che aprono il portone della stalla, eppure tutto sfuma nella sensazione indefinita di un malinteso. In quest’attesa umida e sollecita, il tempo si sbroglia pesante come una matassa di fango. Prego intensamente di avere la forza, Signore ti prego, resistere ancora un poco soltanto, perché so che il padrone confida in noi e sta arrivando. So che mi troverà pronta.

Apolae

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