Ricordo di fine estate – racconto di Stefano Spataro
Redazione2025-10-04T16:34:53+02:001.
La sveglia all’alba, o meglio quando è ancora notte. Aldo non è abituato, ma l’anticipazione dell’esperienza che andrà a vivere distrugge il sonno. Il cuore carica, anche se ha appena aperto gli occhi. Il caffè, la lucina tenue nella cucina di casa della nonna, l’odore di umido e le mani rugose del nonno che tremolano sebbene forti intorno alla tazzina sottile.
Il vecchio manda giù in un sorso la broda bollente, poi si gira sulla sedia e si sporge in avanti, si abbassa sulla cassetta di plastica nera. Un’ultima occhiata, il controllo finale. C’è tutto? Pare di sì: sorride.
«Nonno, posso avere la lenza con tre ami?»
Il nonno si volta leggermente. «No. A te la togna piccola, che già così imbrogli.»
Al piccolo Aldo questa storia dei tre ami non scende giù. Il nonno Nicola e lo zio Lino e anche suo padre: tre ami, di diverse dimensioni. La togna di sughero grande, rettangolare, rigida. A lui invece un misero pezzetto di legno con un filo di nylon ingiallito, un amo che non ci prendi neanche le settine e un minuscolo piombino.
Ma il bimbo non si lamenta. Glielo hanno detto tante volte. Quando sarà più grande li avrà anche lui, due e poi tre ami sulla lenza. Gli sta bene così, imparerà ad armare e pescherà tante di quelle vope e di quegli spari da fare invidia allo zio Lino.
2.
Fuori è ancora buio. Trascinare il carrello della barca lungo la stradicciola non asfaltata è faticoso, ma ancora più faticoso è tirarla su quando a mezzogiorno si torna e le forze non ci sono più. Lo scrocchiare delle vecchie ruote consumate sul brecciolino, il cigolio del ferro rugginoso, il riverbero generato dalla convessità del guscio. A guardarlo bene ci si meraviglia di come quello schifaridd possa reggere tre adulti e un bambino senza andare a fondo.
Quando la barca viene calata in acqua, la salsedine a contatto con il legno emana un odore di umido, familiare e rassicurante. Le assi stridono e scricchiolano con un suono così particolare e amico, come un saluto che il vecchio legno porge ogni giorno ai suoi compagni come a voler ribadire: “Sono vivo, sono qui”. Nel crepuscolo mattutino d’estate l’aria è fredda e calda allo stesso tempo, il mare è una tavola e il lucore arancione all’orizzonte si riflette sullo specchio d’acqua come il cuore della fiammella di una candela.
Aldo perde per un momento il suo sguardo in quel dipinto fermo. Alle sue spalle il nonno tossisce. Richiama la sua attenzione. Si sta innervosendo.
Così il bambino si gira, allunga una mano nella cassetta degli attrezzi e cerca la sua togna. Scava un altro po’ di lato e afferra il boccaccino con i gamberi che fanno da esca. Sistema la tavoletta di legno sul limite esterno e ci svuota su una decina di gamberetti ancora freddi di congelatore. Con le piccole dita agili afferra un’esca e la tagliuzza in tre pezzettini, mentre lo zio Lino, con una vecchia corda, ha già avviato il motore che sputacchia e tossisce con una nuvoletta densa e azzurrognola prima di diventare regolare con il suo basso borbottio costante.
La baia alle loro spalle si allontana lentamente.
3.
Il corpicino sminuzzato dell’esca deve avere una dimensione precisa. Non dev’essere troppo piccola: deve ricoprire l’intera lunghezza dell’amo e soprattutto non deve lasciarne scoperta la punta. Non deve essere neanche troppo grande, altrimenti il pesce mangia “intorno intorno”, oppure sfilaccia il gambero e non abbocca.
I pesci sono intelligenti.
Bisogna stare anche in silenzio per non farli scappare via. Già il rumore dell’armamentario che rompe la superficie dell’acqua potrebbe essere un fattore che scatena un fuggi fuggi generale, là sotto. Poi la lenza viene calata giù. Aldo aspetta che si fermi e di sentire il tonfo del peso che si ripercuote con una leggerissima vibrazione lungo il filo di nylon.
Aldo osserva gli adulti con ammirazione. La scioltezza dei gesti, la pazienza conservata nelle mani piene di calli. Il sorriso del nonno che si nasconde tra le grinze del viso, che senza scomporsi affatto e senza apparente fatica tira su tre, quattro, cinque pesci, e inizia a riempire il secchio.
E allora il bambino lo imita, come ha sempre fatto ogni mattina di quest’estate ‒ un tempo che a lui sembra lunghissimo. Poggia anche lui la lenza sul dito indice, e resta a fissarlo, concentrato, in attesa che un tremolio segnali la presenza di qualcosa che si muove lì sotto.
Lo zio Lino, dietro di lui, fa con calma. Mentre il sole timido dell’alba riflette sul suo petto nudo i suoi raggi d’argento, lui si prende il tempo per raccogliere la cima di sicurezza, quella strana, dura, sottile e arancione, sotto il sedile, e sistemare i giubbini rossi per le emergenze. Nelle sue mani agili, la togna sembra l’arma di un eroe antico. Con movimenti lenti, raccoglie la sua tavoletta, toglie gli ami conficcati nel legno e inizia ad armare il corrispettivo dell’arco e delle frecce di Ulisse di cui Aldo ricorda vagamente la storia raccontata dalla maestra a scuola.
Il padre di Aldo non è così in gamba. Tradisce il fatto di essere il più giovane, il meno esperto, eppure anche lui, in questi pochi minuti, ha già tirato su due o tre volte. Nel secchio si contorcono uno sparo e due cazzi d’ rre di medie dimensioni.
Aldo resta pazientemente in attesa, e quando sente una vibrazione strattona. Ma poi il peso della lenza non aumenta, “non tira” e quindi ritorna nella posizione di prima e aspetta ancora, sperando che il pesce non l’abbia fregato.
«Stonne mang’n, osce» dice il nonno sorridente.
Poi lo zio lancia un grido secco e quasi gutturale, dal profondo, seguito da un’imprecazione, si alza leggermente dal sedile per farsi forza.
«Quist è gruess!» dice.
«A’ fasc, Lì?» chiede il padre di Aldo che ha tirato su, si è acceso una sigaretta e osserva il fratello, indeciso se avvicinarsi.
«Sine!»
Ora zio Lino è in piedi, usa tutto il corpo e le gambe per distribuire la forza, come ha imparato anche lui da bambino, e tira la lenza con forza ma in modo cauto, lentamente. Non deve strazzare, altrimenti il pesce andrà via.
Aldo non resiste, è troppo eccitato. Riavvolge la sua lenza e si alza per vedere dalla parte dello zio cosa sta succedendo. Vuole vedere cosa arriva su. E come per miracolo il fondale nero come la pece ribolle violentemente, si iniziano a intravedere tre esemplari meravigliosamente grandi che danno colpi di coda e tentano di liberarsi.
«Cè ssò? Scorfani?» chiede il nonno.
Lo zio tira su la parte finale della lenza, e i tre pesci ad Aldo sembrano enormi e li guarda con un misto di timore e ammirazione, sono di un marrone scuro e hanno la bocca larghissima.
«Scorfani, sì!» Lino sussulta.
I tre pesci si dibattono e devono pesare davvero tanto perché lo zio è costretto a lasciare la lenza nel secchio e a togliere gli ami dalle bocche dei pesci direttamente lì dentro. Mani veloci, attente, gesti esatti, chirurgici. Il pesce può mordere se non fai attenzione. Il pesce è intelligente. Il contenitore per poco non si ribalta per la forza con cui spingono sulle pareti.
4.
Silenzio. La giornata sta passando, il sole è ormai alto e lucente e tra meno di un’ora dovranno invertire la rotta e tornare a casa.
Aldo ha contato i pesci presi da lui. Sono una ventina. Pochi in confronto a tutti gli altri. Il nonno si arrabbia quando si fanno le gare, quindi non è riuscito a tenere il conto di quelli presi da lui e dallo zio. Ma sa che suo padre di nascosto sta contando, e quando saranno a casa glielo dirà, anche se sono di più e Aldo perderà anche questa volta.
Il nonno e lo zio sono più duri di suo padre, quando si parla di pesca. Hanno delle regole rigide, non transigono quando stanno in mezzo a mare. Quando Aldo imbroglia la lenza, il nonno e lo zio si innervosiscono perché sanno che toccherà a uno di loro sciogliere tutti i nodi, e si perde tempo, e si perde pescato.
Eppure Aldo si diverte, e anche suo padre si diverte. Ma il nonno e lo zio sono permalosi, il papà glielo ha sempre detto, e allora Aldo cerca di stare attento.
Il papà gli ha raccontato che una volta la loro famiglia non pescava solo con la lenza, ma andava a buttare le reti, ogni giorno in un posto diverso, e Aldo non riusciva a capire come fosse possibile ricordare, il giorno dopo, dove le avevano lasciate.
«La prima cosa che un pescatore impara, sono i riferimenti» gli diceva. «Senza riferimenti, in mezzo a mare sei perduto. Oggi ci sono i telefonini, i motori, ma una volta si andava a remi e dovevi saper leggere sia quello che c’era sotto l’acqua che quello che stava sopra.»
I riferimenti, pensa Aldo. E capisce, seppur nella sua ingenuità, che quella materia che ora sembrava a lui così oscura, deve esserlo anche per il suo giovane padre, che dal mare non trae sostentamento. Per molti in paese pescare è ormai uno svago, una distrazione; gente che l’inverno si alza e va a lavorare da un’altra parte, in un’azienda, magari. E Aldo in qualche modo comprende che qualcosa col tempo sta cambiando, nel rapporto delle persone col mare.
Il filo dei pensieri viene interrotto bruscamente da una leggera scossa. Aldo sussulta e di scatto tira in su la lenza.
«Ha abboccato!» grida. «L’ho preso!»
Lo zio inarca le labbra in una specie di sorriso, eppure lo rimprovera: «Non devi gridare, lo sai, mannagghia a te!»
Aldo corruga le sopracciglia e socchiude gli occhi, e con colpi di mano ritmici riavvolge la lenza. Quando sta per finire si affaccia dalla paratia e aspetta di veder venir su qualcosa. Spera che ci sia qualcosa, qualsiasi cosa, ma sul blu profondo non si scorge niente, solo il timido sbrilluccichio dell’amo e il grigio smorto del peso, a seguire.
Aldo tira su la lenza e mette il broncio, deluso.
Il nonno ride. «Che hai preso? Un bel pesce piombino?»
Ora tutti sulla barca ridono, anche il bambino, che non rimane offeso da quelle parole. Conosce bene lo scherzo e sa che può capitare a tutti, anche ai più esperti come suo zio. Allora tira fuori la lingua, afferra un pezzo di cozza già tagliuzzato e lo infila sull’amo, stando bene attento a non pungersi.
«Dai, nonno» dice dopo aver rigettato l’esca in mare. «Almeno oggi non ho imbrogliato manco una volta.»
5.
È mezzogiorno. La barca viaggia dritta verso la costa, lasciando alle spalle l’enorme segnale di via che sta all’imboccatura della rada. “Dai rosso al rosso e verde al verde e avanti pure la nave non si perde” ‒ vengono da sole alla mente le parole di una delle filastrocche con cui la nonna lo faceva giocare quando era ancora troppo piccolo per uscire con “i grandi”. La struttura di ferro verdone che spunta nel nulla ha sempre affascinato il piccolo Aldo, e ancor di più lo attraggono gli scogli artificiali ai suoi piedi, giganteschi cubi di pietra che sembrano affastellati uno sopra l’altro in un ordine del tutto casuale. Di quel posto Aldo sa solo che una volta si pescavano le pettinesse, ma che ora non è più così. Loro ci vanno per gettare l’ancora e raggiungere a nuoto la base del segnale, e fare i tuffi dalla cima di quei blocchi dalla forma peculiare.
La barca lascia una scia bianca. Il volto dello zio è fiero, abbronzato, i capelli ramati scomposti dal vento, il braccio destro rigido e la mano che regge la barra del motore. Tutt’intorno gruppi di gabbiani affamati che reclamano qualche scarto per loro.
«Dai le settine, dai» dice il nonno. «Tanto l’amma scittà».
Il padre allora infila la mano nel secchio e seleziona dei pescetti piccoli, a righe verticali beige e marroni. I gabbiani sembra abbiano compreso e aumentano l’intensità del loro gracidio. Il papà di Aldo allora lancia lontano i pesci e gli uccelli vi si fiondano prima ancora che questi, esanimi, possano scomparire sotto il pelo dell’acqua.
«Così non ce ne liberiamo più, però» dice lo zio.
«Tanto n’ ste’ sciam» dice il nonno, con un tono che sembra non accettare repliche.
Aldo si alza dal suo posto, attento a non perdere l’equilibrio, e si va a sedere dalla parte opposta, di fianco al padre.
«Ti sei divertito?»
«Sì, papà.»
«Bene.» Il padre fa una carezza sulla testa del piccolo e poi lo stringe a sé.
«Ci torniamo domani?» chiede Aldo.
«No, domani dobbiamo iniziare a fare le valigie ché sabato torniamo a casa.» Il padre si annusa la punta delle dita delle mani e fa una smorfia di disgusto. «Questa puzza non andrà via tanto presto.» Poi prende una sigaretta dal pacchetto e l’accende. «Dalla prossima settimana inizia la scuola.»
Aldo distoglie lo sguardo e lo porta all’orizzonte. Lì, lontano, sulla costa, si intravede la meda di San Vito. L’ultima cosa a sparire quando partono per la pesca, la prima che li accoglie al loro ritorno.
«Mi sono scocciato di andare a scuola» aggiunge dopo poco, sconsolato. «Io voglio diventare un marinaio e fare il pescatore come il nonno».
Il nonno ride e tossisce. «Il marinaio lo puoi fare, se ti fai raccomandare, ma il pescatore…»
«Ma perché, io…»
«Fai meglio che vai a scuola, che studi e ti trovi un lavoro come si deve» aggiunge lo zio senza cambiare la sua postura statuaria. «Il mare ha poco da offrire adesso. Pure noi lo facciamo per divertimento, ormai. Lo stanno distruggendo, questo mare. Na vota i pesci erano grossi così, e ora? Niente. Ormai ci buttano le bombe a mare, e distruggono il fondale, ammazzano i pesci grandi e quelli piccoli. E poi l’inquinamento…»
«Lino, per piacere» interrompe il padre di Aldo. E poi rivolgendosi al figlio: «Era una vita difficile quella del pescatore… e ora è pure peggio. Una vita di sacrifici e di povertà, che grazie a Dio possiamo evitare. E l’estate, ogni estate, quando ci va, possiamo venire a farci un giro con la barca dello zio, e col nonno, a prendere un sacco di pesci per farci una bella mangiata».
Aldo resta in silenzio. Non risponde. Si fida di suo padre e pensa che sia meglio così.
Poi rivolge lo sguardo al volto stanco e affaticato del nonno e gli pare che nonostante la durezza dei suoi lineamenti, tra gli occhi cupi e bruciati da sole, si possa scorgere una lacrima.
Stefano Spataro