Piccoli pesci – racconto di Mattia Gargiulo

Piccoli pesci – racconto di Mattia Gargiulo

Sono sottoterra. Non vedo niente, ma non ha importanza, vivo in un mondo che non posso guardare. Però so scavare. Scavo tunnel nel sottosuolo per avvicinarmi al centro del mondo. È lì che sto provando ad andare.
Sto scappando da uno che vuole prendermi. Mia mamma lo chiama uccellaccio. Dice che ha grandi ali con cui volare e guarda tutto e tutti dall’alto in basso. Per me è solo una grande chiazza bianca nel bianco della mia cecità.
È già da un po’ che cerca di prendermi. Appena metto il muso in superficie sento che taglia l’aria con le grosse ali e proprio in quel momento capisco che devo tornare sottoterra.
Mia mamma non può farci niente. È più grande di me fisicamente, ma se si mette in mezzo, quella a pagarne le conseguenze sarà lei. Ha squittito di farci l’abitudine: “c’è sempre qualcuno che ha più fame di te, è la catena alimentare. Pesce grande mangia pesce piccolo — ha usato proprio questa espressione — e tu, sei il pesce piccolo, anche se sei una talpa” ha detto facendo vibrare i baffi.
Mio padre invece mi ha detto qualcosa che non ho capito. Come sempre, quando raglia non lo capisco. Fa “IH-OH, IH-OH” ma anche sforzandomi, non riesco proprio a tradurre i suoi versi. A volte, penso di essere stato sfortunato ad avere loro come genitori.
Si sono conosciuti un’estate nelle campagne toscane. Lui portava le cassette di frutta guidato dalle urla del suo padrone, lei era alla ricerca di cibo per i suoi piccoli. “Un errore di gioventù, ero troppo stupida” dice mia madre per giustificare i topini nati con il suo ex.
I miei si videro la prima volta durante un’imboscata organizzata da mia madre. L’obiettivo era quello di apparire improvvisamente davanti a mio padre, come per magia, durante uno dei tragitti che lui faceva insieme al suo padrone per spaventarlo e rubare il bottino. Ed è così che andò. Mio padre, quando gli si presentò davanti gli zoccoli s’imbizzarrì, cominciò a ragliare, si agitò sempre più nervosamente e il padrone, incapace di calmarlo, fu colpito da uno dei suoi calci. Cadde come una pera cotta e mia madre scappò con la frutta caduta a terra.
Mio padre lavora di continuo.
Porta il peso del mondo sulle spalle e lo pagano con fieno e due pacche sul culo. Al massimo con qualche mela. Raglia frustrato, poi abbassa lo sguardo e diventa malinconico. Fa tenerezza, sembra porti il peso del mondo anche sugli occhi. A volte, mamma mi racconta di mio nonno. Dice che gli somiglio. Uno stallone con la criniera folta e quadricipiti duri come rocce. Mio padre lo invidiava. Non sarebbe mai stato come lui. E nemmeno io.
Una volta ho provato a mostrare a mio padre uno dei miei tunnel. Quando ci ha messo il muso non vedeva niente. Si è spaventato e ha cominciato a ragliare a più non posso. Ha iniziato a sbattere compulsivamente le zampe posteriori. La terra ha tremato e c’è stata una piccola frana all’interno della galleria. “IH-OH, IH-OH IH-OH!” ragliava. Poi, quando è riuscito a liberarsi, la terra gli copriva gli occhi. Sembrava piangesse lacrime marroni. Se ne andò senza dire niente, con l’espressione del peso del mondo addosso.
Anche mia madre non riusciva a stare nel sottosuolo.
Se le racconto di aver provato a far vedere uno dei miei tunnel a papà, ride. “È proprio un asino” dice. “Risponde solo agli ordini” dice. Poi, però, se provo a portarci lei, reagisce allo stesso modo. Volevo farle vedere gli inferi per regalarle uno spettacolo che io non avrei mai visto: il centro della Terra, fatto di fuoco e lava e luce e riflessi e paura. Ma dopo una decina di metri sottoterra comincia a tossire e vuole risalire in superficie. Poi, una volta su, mi guarda con occhi che non vedo, ma avverto, perché portatore di tutto il peso del mondo: quello di farti sentire diverso. Poi dice: “Stai attento lì sotto.”
Quando sono sottoterra non sento niente. Non sento neanche i versi di quell’uccellaccio del malaugurio. Penso solo a scavare. Scavare è un po’ come scalare. È una questione di limiti. In montagna lo fai in altezza. Sottoterra lo fai in bassezza. Non avrei mai visto una montagna, né avrei raggiunto una vetta, né avrei sentito la libertà di essere sulla cima del mondo. Non avrei mai sofferto di vertigini. Non avrei mai avuto paura di cadere giù. Però scavare è un po’ come scalare. L’aria è rarefatta, ci vogliono gli artigli giusti per proseguire, alla fine del percorso c’è un panorama che ti aspetta — anche se io non l’avrei mai visto — e puoi mettere una bandierina che certifica il traguardo raggiunto.
Sottoterra c’è tanto da mangiare. Mi nutro di vermi e lombrichi e mi capita di ingoiare ciottoli di terra senza masticarli. Non mangio mai con i miei. Mio padre mangia fieno o l’erba. Mia madre un po’ di tutto, dipende da quello che trova. Va pazza per i formaggi e spesso ha nostalgia della carne. Io non ho idea di che sapore abbiano.
“Il mio ex marito, per esempio, per la carne ne andava pazzo” mi raccontava. “Pensa che dovetti difendere i miei figli dalla sua fame. Voleva mangiarseli tutti. Una volta riuscì a prenderne uno, di nascosto, come i ladri. Un padre che mangia il figlio, te lo immagini? Lo trovai con il muso infilato nella gabbia toracica che staccava pezzi di carne con violenza. Sembrava in crisi di astinenza. Gli occhi iniettati di sangue e i denti così aguzzi che sembravano le zanne di un elefante. Quando l’ho visto non ho resistito. L’odore del sangue e della carne mi attraeva. Da morire. Mi avvicinai e quando misi le zampe in una piccola pozza di sangue bruno il cuore cominciò a battermi forte. L’odore sempre più acre, il rumore del masticare come il cigolio di una tenaglia, la fame che s’insinuava in me. Tirai un morso. Poi due. Poi tre. Era gustoso.”
Rimasi sconvolto. Mia madre avrebbe mangiato anche me?
Il mattino presto è il momento della giornata che preferisco. Nel terreno si infiltrano piccole goccioline di rugiada e il sole inizia a scaldare il terreno. Non sento nessun rumore. L’uccellaccio probabilmente dorme ancora. Inizio a scavare verso la superficie. Per assaporarne l’aria fresca giusto un momento, prima di continuare il viaggio verso il centro della Terra. Sento odori che si mischiano ad altri. Rimango con il muso fuori la terra per un po’, giusto per farmi vedere dal sole e farmi riscaldare dai suoi raggi lievi, soporiferi, miti. Intorno a me il bianco. Un bianco diverso, più luminoso, come quello di una luce in fondo al tunnel. L’atmosfera satura di ossigeno mi paralizza. La testa diventa pesante, il bianco continua ad accecarmi. Sento l’aria tagliata in due. C’è un odore strano. Non riesco a muovermi. Sento dei movimenti che strisciano e smuovono leggermente la terra. Poi sento un rumore continuo, come uno spruzzo e le piante che iniziano a puzzare peggio di una puzzola. Ascolto versi mai sentiti, complessi, che provengono dall’alto. Poi un altro rumore ancora più strano. Diverso. Meccanico. Che fa driin driin. Mi gira la testa. I versi adesso sembrano urla e percepisco che l’insalata vicino a me non ha più un odore naturale, ma sembra quello ripugnante rilasciato dalle cimici quando si sentono minacciate.
Un fortissimo mal di testa mi sveglia. Ho la sensazione che un chiodo si sia conficcato nel cervello, e sotto di me ci sia solo il vuoto. Fa freddo, un freddo d’inverno e fendenti di aria gelida mi colpiscono il muso. Sento starnazzare l’uccellaccio sopra il mio corpo e il rumore di un battito d’ali che muove l’aria in maniera violenta. Apro gli occhi. Tutto ciò che vedo è il bianco della mia cecità. — Sto volando? — Improvvisamente il mio corpo fluttua verso destra, poi sinistra, poi si stabilizza, appeso a quel chiodo conficcato nella mia testa che ora capisco sia un artiglio. Sento scendere una goccia — di sangue? — che mi percorre il muso e se ne va chissà dove. Ho paura. Mi ha preso. “Lasciami! Lasciami!” Tra poco diventerò cibo di piccoli uccellacci. D’un tratto mi sembra planare. Il mio corpo s’irrigidisce leggermente all’indietro, scendiamo in picchiata. Stiamo sorvolando le montagne? Ho paura di cadere e non sapere quando atterrare. Il vento mi colpisce con piccoli aghi pungenti su tutto il corpo. Sento sempre più vicino lo scrosciare delle foglie, la temperatura rialzarsi, l’altezza abbassarsi, l’artiglio sempre infilzato nella mia testa. Poi all’improvviso lo sfila via. Cado. Agito le zampe, ora muoio, ora muoio, ora muoio. Dopo poco però, atterro su qualcosa di morbido. C’è un fetore insopportabile. Il cinguettio è peggio. Copro le orecchie con le zampe. Il mio corpo sembra contornato da qualcosa di morbido — piume? — e il buco nella testa mi causa un dolore lancinante. Qualcosa comincia a colpirmi. Una, due, tre volte. Sembra un martello, sembra volermi fracassare la testa. Il cinguettio è sempre più acuto, mi penetra nel buco sopra le tempie, si espande dentro di me, come un’onda generata da una forte corrente. Vedo tutto bianco. Sento il peso del mondo più leggero. Se mia madre fosse qui si unirebbe al banchetto?

Mattia Gargiulo

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