Ossidiana – racconto di Laura Calagna Bambini

Ossidiana – racconto di Laura Calagna Bambini

Questa è un’imbrogliona. Come me.
La sera non c’era e all’alba la trovo in piedi sulla spiaggia a est. È fradicia, tira indietro i capelli appiccicati al viso e indossa un abito bianco tutto strappato, con una macchia sul ventre. Sangue, ne riconosco l’odore. È una sposa, forse, chissenefrega. Se è arrivata qui a nuoto, peggio per lei. Non la voglio.
Il gabbiano l’ha già puntata, il pino marittimo e la palma nana vicini alla baia insistono nel dire che ha qualcosa di familiare. Io la osservo in silenzio. È bella, molto più di quanto mi aspettassi. Ha gli occhi neri, di ossidiana. Somiglia a un’immagine che vedevo riflessa sul pelo dell’acqua, tanto tempo fa. Le ultime donne che ho visto avevano il volto sformato dalla rassegnazione, in attesa di una morte che le strappasse alle loro vite. Erano mogli e puttane. La ragazza ha qualcosa che la rende sfolgorante, non è nessuna delle due. Se viene dal mare, ha superato indenne le razze a guardia delle mie coste, e questo sì che è interessante. Quelle piccole assassine non lasciano attraversare nessuno che non sia di passaggio, hanno l’ordine preciso di ferire chiunque voglia mettere radici su di me. E non è mai accaduto che mi disobbedissero.
L’intrusa percorre l’orizzonte con lo sguardo, una mano a schermarsi gli occhi; sembra valutare quanto si veda di me dalle altre isole. Mi preparo a ributtarla in acqua, ma il pino e la palma si mettono a parlare uno sopra l’altro, come sempre. E dai, teniamola, che ti costa? Siamo sempre da soli, ci farà compagnia. Magari è malata e vuole passare i suoi ultimi giorni in pace. Morirà presto, ma intanto avremo qualcuno con cui parlare, te sei diventata così scorbutica.
Noi, replico, siamo un noi, magari fossi ancora un io. Non dovervi più sentire né ritrovarvi accanto nei momenti più impensati. Ritornare lava e ossidiana, la mia forma primaria, l’anima che non mostro più.
Che melodrammatica, ribatte la palma, devi starci a sentire per forza: siamo tutti parti di te.
Insomma, ammazzala e mangiamo. Il gabbiano è l’unico dalla mia parte, ma è un doppiogiochista che va sempre a ruffianarsi le altre isole e torna da me quando lo scacciano. Non gli darei retta per il puro gusto di poterlo fare.
La ragazza si incammina lungo il sentiero che porta a sud, verso il mare aperto. Si sofferma sui cespugli, tasta i frutti di un rovo per capire se sono more o bacche velenose. Non ho molta scelta: o la uccido o la rifocillo. Deciditi, incalza la palma. Vivrà qui, protesto, capricciosa come quando ero una massa di pietra lavica e su di me non cresceva manco un filo di gramigna. Ma falla finita. I pini si allungano a fare ombra alla ragazza prima che il sole la scotti. Lei avanza sicura come se conoscesse la strada, ma non è mai stata qui, ricordo chiunque abbia calpestato le mie coste. La cosa mi intriga, e sono secoli che un umano non mi incuriosisce. Gli altri hanno già deciso di tenerla e io sono stanca di privarci di qualsiasi piacere. Sarà una bella distrazione, la farò spirare prima che sorga una luna nuova.
L’intrusa punta un rifugio in una caletta a sud. Avrei potuto buttarlo giù, ma ho pensato che avrei solleticato gli umani a costruire di nuovo su di me, e allora che continui a essere il sollazzo dei pescatori o di qualche vagabondo per un giorno o due. La serratura è arrugginita, lei la sfonda con un calcio. Recupera una rete da pesca e faccio in modo che non peschi niente. È calato il sole quando risale alla casetta; accende un fuocherello e stacca un paio di foglie da un cactus vicino, che mette ad arrostire. Gliele brucio. Le palme mi rimproverano, ma lo trovo molto divertente.
Si spoglia, e la spio. È piena di lividi, dalle scapole ai polpacci, e ha una bruciatura tondeggiante sotto l’ombelico, un marchio. Ha ancora la crosta e i margini smussati. Non fa una smorfia, ma deve sentire dolore. Avverto la sua resistenza a cedere e tutto questo mi affascina oltremodo.
La ragazza mette a bollire dell’acqua di mare, strappa un lembo dal vestito e si tampona l’escoriazione. Mi rassereno: ridotta così e senza cibo e non vivrà a lungo. La mattina dopo, invece, lei riparte come se niente fosse. Questo suo essere stoica mi ricorda la determinazione nel farmi amiche le madri assassine del mare. Sono affettuose e socievoli, e molto garbate con i lori cuccioli, finché non si infastidiscono per motivi noti solo a loro. Imbroglione. Come me.
Le palme mi incitano a lasciare prendere qualcosa alla ragazza, ma il fatto che si sia rialzata e ci abbia riprovato mi aveva già convinta. Le faccio trovare della frutta e dei rami secchi per il fuoco. Più passano i giorni e più la ragazza irrobustisce. Non posso dire che mi faccia piacere, già non sopporto tutti noi, ora devo tollerare pure lei.
Rimpiango i tempi in cui ero sola, un’isola tutta storta e nera nata da un’eruzione e solidificata in una mezzaluna. Potevo sentire le mie giunture tendersi da parte a parte, l’aria attraversarmi in ogni punto, l’ossidiana sgretolarsi e la sua polvere volare via. Potevo sollevarmi e farmi scudo contro il mare, permettergli di bagnarmi solo le estremità. Il sole sorgeva e tramontava senza che io avessi concluso alcunché se non divertirmi a fissarlo. Potevo trascorrere settimane a seguire il volo degli uccelli e a osservare i pescatori gettare le reti nelle isole vicine. L’estate era venuta e se n’era andata, e così l’inverno, e non era cambiato niente. Mi sono scoperta inquieta. Ero l’unica dell’arcipelago su cui non attecchisse nulla. Le altre isole erano rigogliose, con i pini alti e i fiori dalle corolle viola che ondeggiavano cingendole come corone. Ridevano, si scambiavano chiacchiere sulle giornate e sugli umani che le abitavano. Mi ignoravano ogni volta che rivolgevo loro la parola. Ho capito il motivo grazie a un antenato del gabbiano, pettegolo come l’erede: ero l’unica disabitata. Avevo una tale voglia di parlare con qualcuno che sarei affondata, ma arrendermi non era previsto. A furia di lenire la mia terra nera, ecco che una sera sulla pancia mi è comparsa una protuberanza con le foglioline tutte appuntite. Una palma nana.
Che gioia! L’ho coccolata, e ne è spuntata un’altra e un’altra ancora. Devo a loro il mio nome e l’invasione degli umani. Palmarola, ha detto il primo gruppo di commercianti, e io ero così felice e ingenua. Hanno preso a scorticarmi e a rivendere pezzi di me sulla terraferma, come se fossi una loro proprietà, al pari di un vaso pregiato o di un metro di seta. Ogni giorno, uno spicchio di me diventava loro. Mi facevano male, non gli interessavo io, gli importava solo dei denari che producevo, inanimata e zitta; le puttane del bordello, almeno, ogni tanto si ribellavano. Io no, non parlavo la lingua degli umani, non potevano ascoltarmi.
Dopo le palme sono venuti i pini e le lucertole, e da lì siamo stati sempre noi. Ero stata sola un tempo indefinito, ora non avevo più un attimo di riservatezza. I commercianti continuavano a prendersi pezzi di me, a costruire case e a riempire il mio corpo delle loro scorie. L’inquietudine è tornata così come mi aveva lasciata ed è mutata in ostilità.
Non voglio più umani su di me. Ho profuso un impegno nello sfrattarli che le mie sorelle laviche non hanno compreso. Che sarà mai?, mi chiedeva Ponza, tutta bella coccolata e colorata. Noi non siamo assassine, rincarava Ventotene dall’altro lato. Ma sono due bugiarde. Zannone fingeva di non vedermi, la principessa corrotta tra noi, e Gali, bambina appena nata, era impegnata nei suoi giochi: creare piccoli vortici manco fosse Cariddi. E poi c’era l’isola verso sud, Santo Stefano, a cui il mare aveva predetto ospitalità alle anime dannate, e lei si era spenta. Queste eravamo, un gruppo di ossidiane solidificate ognuna in una bugia diversa. Se fossimo state un gruppo di puttane, non avremmo mai attirato lo stesso uomo. Non ho dato ascolto a nessuna di loro, mi sono messa a studiare un modo per essere intellegibile agli umani, e un giorno, mentre fissavo il sole bruciare in goccioline l’acqua della riva, ho avuto l’epifania che mi ha resa quella che sono adesso: le pastinache. L’antico veleno che tiene in piedi l’arcipelago, la quiete della morte che rende il mare così placido e trasparente. Così caldo e accogliente. Non sognavo di possedere un tale potere, ma siamo entrambe piccole rispetto alle nostre simili, e fascinose agli occhi degli altri. Loro hanno un’arma per difendersi, io no; però potevo essere un buon rifugio dai predatori, e un terreno fertile per il cibo.
È stato più facile di quanto immaginassi. Non ho dovuto dare grandi spiegazioni e non ci siamo scambiate lunghe confidenze al calar del sole. Io ho aperto i miei scogli, loro vi si sono radunate. Fine dello struggimento.
Ho fatto sì che giocassero con qualche commerciante caduto in mare. L’unica cosa che ho ottenuto è che gli umani hanno recintato le mie coste, ma continuano a fare come gli pare. Attraccano, bivaccano, mi rovinano e se ne vanno. Un vizio simile a quello che avevano con le donne del bordello sulla costa a ovest, quella nascosta alle altre isole.
Un’altra puttana, ecco cosa sono per loro. Ma preferisco questo vizio a quello di abitarmi.
Le palme mi hanno ringraziata così a lungo di averci liberate che ho dovuto zittirle con la minaccia di una grandine. Il resto dell’isola, ormai, era una componente di me. Ognuno alimenta l’altro e io alimento loro. Per quanto mi scocciano, non potrei più immaginare di vivere senza il loro cicaleccio.
La ragazza no. Lei vuole mettere radici, lo sento, e a me non va.
Chiedo conto alle pastinache. Bambine, si può sapere che vi è preso? Pungetela, avanti. Quelle smorfiosette si mettono a giocare con lei appena le raggiunge in acqua, e l’intrusa, invece di fuggire, ride. Sono intollerabili, tutte. Come me.
Gli scorpioni si rifiutano di spaventarla. Andiamo, ragazzi, non la volete nemmeno voi. Si girano e mi agitano le code in risposta.
Mi decido a farla fuori da sola. Attendo che prenda il pendio verso la baia a nord e mi preparo, quando intravediamo una barca di guardie. La ragazza sbianca, raccoglie quel suo vestito da sposa e corre verso la capanna. Inciampa contro una radice di quercia e si storce la caviglia. Dunque sta fuggendo. Non lascerò che la ammazzino gli umani, ormai è una sfida tra me e lei. La aiuto a raddrizzarsi, deve sentirmi perché sporge le mani per aggrapparsi, e mi turba. Nessun umano prima di lei mi ha avvertita. La guardo con più attenzione e ora la vedo: lottiamo entrambe per essere libere, siamo materia di cui nessuno può appropriarsi davvero, io per natura, lei perché se voleva diventare proprietà di qualcuno non si sarebbe nascosta su un’isola disabitata. La ragazza si appoggia agli alberi e riparte zoppicando fino alla capanna. Rimane a fissare la barca nascosta dietro la finestra, trasalisce appena un cannocchiale punta su di noi. Non sa che le palme ci fanno da scudo e nessuno può vederci se non glielo concedo.
Mi chiedo perché sia finita qui. Quando le passa la febbre, scende alle piscine e si sfrega il corpo finché non si arrossa tutta, poi si rimette il vestito bianco. Il suo sposo è morto? L’ha colpita lui? Si è colpita da sola?
Spedisco il gabbiano a impicciarsi nelle isole vicine. Mi riferisce che la ragazza è sbarcata a Zannone con una nave in cui c’erano altre persone, lei era a volto coperto e legata; l’hanno trascinata alla villa e si è ribellata tutto il tempo. Di notte, la mia dirimpettaia l’ha vista fuggire e lanciarsi in acqua di nascosto.
Tutto qui?, dico stizzita. Cosa vuoi, degli stranieri si conosce solo quello che vogliono mostrarti, come voi isole, d’altronde. Sei un pessimo pettegolo. E tu un’ospite antipatica, ma è per questo che mi piaci. Ruffiano, magari è un’assassina. Allora tra simili potete farvi compagnia.
Quel pensiero, in fondo, mi conforta. Sono nata lava, non acqua dolce.
Nelle settimane successive le guardie perlustrano le mie coste; le razze mi dicono che è meglio non consegnargli l’intrusa e si mimetizzano quando chiedo loro dettagli. Non avevo dubbi che il gabbiano non mi avesse raccontato tutta la storia. Che hai combinato, bambina? Sei un’omicida? Una ladra? O solo una ragazza che ha visto l’orrore ed è venuta a rifugiarsi qui? Chi sei davvero?
Ma a quest’ultima domanda mi rifiuto di rispondere io stessa, ormai.
Lei continua ad abitarmi in silenzio. Stacca i frutti che crescono spontanei, arrostisce quanto pesca, mantiene puliti i miei sentieri. Non cerca contatti con le altre isole o con la terraferma. Se non fosse che i suoi passi rimbombano dentro di me, non mi accorgerei nemmeno che è qui.
Stamattina, tra i pini e le palme scoppia l’ennesima discussione su chi ha le foglie più belle. Un gruppo di paranze attracca sulla costa ovest, non sono però pescatori. Con loro c’è un uomo con un mantello rosso e il copricapo bianco. Ha una lunga croce d’oro che gli pende dal collo. Gli alberi si zittiscono, le lucertole si radunano sugli scogli e il gabbiano si appollaia con loro. Traditore. Ma non lo scaccio. Le pastinache li hanno lasciati passare, tuttavia avverto il loro pungiglione vibrare sotto di me, attraversarmi le giunture a mo’ di monito.
Mi volto a cercarla, corre verso la casetta. Le palme non se lo fanno neanche dire: sbarrano con i pini l’accesso ai sentieri che portano al rifugio. Per una volta non mi impiccio di cosa fa lei, mi sporgo ad ascoltare gli uomini, specie il cardinale che è con loro. Non ho mai sopportato i preti, incitavano gli altri umani a strappare pezzi di me sempre più grandi, sempre più a fondo, e facevano piangere e gridare le donne del bordello.
Ciò che scopro è interessante, e motiva la cicatrice della ragazza: era un dono a Satana. Una vergine, dicono, sangue puro da versare in suo onore per permettere ai figli di Dio di continuare a vivere nella sua grazia. Un pegno da pagare per la quiete del Diavolo. Parole che per me non hanno alcun senso, di cui colgo solo che l’intrusa è un’altra prostituta, donata a un Signore più esigente che addirittura ne pretende la morte e non solo le cosce.
Non è la prima volta che ascolto questa storia. Zannone è solita ospitare riunioni umane del genere, le chiamano Messe Nere. Mia sorella deve amare lo scorrere del sangue sulla sua pietra. I corpi dei “sacrifici” non sono mai stati ritrovati. Trovo di un divertimento indicibile che il “mio” sacrificio sia stata talmente furba da essere scappata alle fauci di mia sorella per rifugiarsi da me.
Ecco perché le razze l’hanno lasciata passare. È una di noi. Sono sicura che l’abbiano direzionata di proposito da me, le altre isole l’avrebbero consegnata, io non potrei mai.
Potevo domandare direttamente a Zannone, ma tra noi è quella che si dà più arie e non c’è nulla di più pretenzioso di un’isola che si crede la più bella tra le belle. Tra loro, sono quella più algida. Ma è davvero riduttivo sentirmi definire così. Non sono affatto scostante, sono evasiva, che è diverso, e ho una certa predilezione per la vendetta. Perciò ascolto le scempiaggini del cardinale e bracco la ragazza alla casetta. Lei si irrigidisce, capisce di avermi accanto.
Violo la promessa che mi sono fatta secoli fa, e le entro dentro. Lei non si ribella, quasi mi aspettasse. È la prima volta che vedo con occhi umani ed è tutto così piccolo, limitato. Mi fa impazzire. I colori sono sbiaditi, e non c’è la vista periferica. Provo a muovere un passo e barcollo, non poter vedere intorno mi destabilizza, ma lei, dentro di me, spinge. Sembra insegnarmi come si fa, e raddrizzo la schiena, le braccia larghe a trovare un equilibrio. È facile, mi dice, sta dritta e guarda dove poggi i piedi.
La sorprendo a non chiedermi conto della motivazione, né cosa ho intenzione di fare, anzi, mi dice che ci ho messo troppo tempo. Per un attimo, mentre capisco che i piedi umani vanno distanziati tra loro in modo che si regga il tronco e che non devono essere mossi in contemporanea per non cadere, ce ne stiamo sole io e lei. Il mondo, dai suoi occhi, è divertente in quanto è provvisorio, però è davvero misero. Posso ergermi infinite volte di più. La pelle, poi, e le ossa e la carne e l’ossigeno che le narici ispirano ed espirano senza che sia necessario un comando, ma se mi turo il naso sento la gola chiudersi e cerco di nuovo aria. Come siete strani, le dico. Ciò che mi incuriosisce è il cuore, che batte e batte e batte, e gli arti. Afferro il primo oggetto a portata delle mani, una ciotola, mi dice, e trovo fantastica la sensazione di aggrappo delle dita. Ma non sono qui per questo.
Ci porto io, dimmi solo dove. Guardo fuori, in un punto preciso, e lei spinge e ci incamminiamo. Avverto la sabbia sotto la pelle, la precisa consistenza di un corpo, e non me ne accorgo solo io. Le palme rizzano le foglie, tra i cespugli strisciano le vipere. Hanno capito che sono io. Andiamo dove non ci vede nessuno, nelle piscine a nord, verso il mare aperto. Raggiungiamo la riva e le pastinache si sono già radunate, ci vengono incontro con la loro forma svolazzante. Ci spogliamo.
L’impatto con il mare è benevolo, per quanto la mia forma umana avverta freddo, ma finalmente lo sento. Ci immergiamo fino alle spalle, poi iniziamo a cantare. La mia voce esce limpida dalle corde vocali dell’umana, ma non è la sua, è la mia ugola di isola, capace di solleticare solo ciò che voglio io.
È facile come far ruzzolare un frutto da un albero. Il gabbiano si piazza su uno scoglio delle piscine, e sono contenta assista anche lui. Lo riferisse per bene alle altre isole. Lo attendiamo tranquille, ci teniamo a galla cantando. Il sale ci pizzica le spalle, tra le gambe ondeggiano le mie amiche, la loro corazza vischiosa mi fa il solletico.
Le palme lo lasciano passare; in qualche modo, anche loro non vedono l’ora. Il cardinale spunta dal sentiero, mi nascondo sotto l’acqua. Lei ha paura di aprire gli occhi, mi dice che il mare brucia, ma non è me e spalanco le palpebre. La sensazione di bruciore arriva, surclassata subito dalla mia vera natura, che sta per esplodere. I pungiglioni delle razze sfiorano il corpo dell’intrusa, che mi chiede di lasciarglielo. No, lo faremo insieme.
Aspetto che il prelato giunga a riva, emergo piano dall’acqua. I suoi occhi mi trovano presto, e so esattamente cosa vede: una femmina, una dea, l’immagine più bella che abbia mai visto, più bella ancora della vergine che voleva sacrificare su Zannone. La cicatrice tira, il corpo ricorda anche se non è il mio, e il mio ricorda da troppo tempo.
Mi avvicino, languida, lascio che le gocce di spuma mi colino sulla pelle, sulle labbra. Vieni, dico con la mia voce melodiosa. Lui si piega, ma io voglio di più e mi faccio indietro, le pastinache retrocedono simultanee. Percepisco il pizzicore del loro veleno avvilupparsi alle code, pronte. Non mi indurre in tentazione, dice l’uomo, sei stata scelta per liberarci dal peccato. Sbatto le palpebre su di lui, lascio scivolare le nostre pupille, ossidiana pura, sui riflessi d’oro dei monili, e su quelli neri delle mie pietre.
Le razze si agitano, voglio farlo io, insiste lei. Ma anche io voglio. Da secoli. Da quel primo piccone che ha sventrato la mia terra. Sono io a non vedere l’ora.
L’umano alla fine cede, si decide a farsi abbastanza vicino perché io possa fingere di baciarlo. Il gabbiano ride, ci avverte dell’avvicinarsi del resto del branco umano. Salvami, dico al cardinale, e lui si sporge.
Succede in fretta. Gli afferro la croce, lo porto sott’acqua, la ragazza mi scavalla e gli morde il collo, grazie alla mia forza gli stacca pezzi di carne con i denti. Le sue dita gli stracciano i vestiti, le mie cercano il modo di insediarsi, me lo mostra lei. L’uomo urla, si dimena, non ascolto più niente. Le razze sfrecciano verso la riva, sentiamo ovattate le grida degli altri umani e il tentativo di fermarci. Le mie amiche erano impazienti, il divertimento per sferrare quelle loro code velenose mi giunge frenetico. Una viene afferrata e l’umano la recide da parte a parte; non faccio in tempo a vendicarmi, gli hanno già ricambiato il favore sgraffiandogli le gambe e iniettandogli tanto veleno da uccidere un’orca.
Lei e io avvertiamo che quanto dovevamo fare è compiuto, stiamo per separarci. Trova un pugnale attaccato alla cintola del cardinale, solleva il polso, nell’istante in cui si abbatte sul suo corpo e l’ossidiana dei suoi monili rotola nei miei fondali, io torno isola e lei ha la sua vendetta.
A questo punto posso divertirmi davvero. E osservare lei e le pastinache rimangiarsi quanto mi è stato tolto.
Dopo, il mare cancella le ultime tracce.
Ce ne stiamo quiete per un po’, tutte; lei a fare le sue cose e io le mie e le razze a veleggiarci intorno. Le palme e i pini non discutono più, rimangono all’erta, con la paura che gli umani giungeranno a fiotti a vendicarsi di noi. Noi tre non abbiamo questo timore. Una mattina, una palma dichiara che le sue foglie sono lucidissime, molto più di quelle dei pini, e tutto torna come prima. O forse no.
Con l’estate a bruciarmi le coste, la ragazza si mette a fare avanti e indietro per le baie, si mozzica le unghie, sorveglia la linea del mare. In attesa. Ho provato quel sentimento per tanto e tanto tempo. Prendo ad attirare pescatori, a mandarle amanti. Sceglie quelli che le aggradano di più, si finge la mia custode, giace con loro e poi li scaccia, ancora stordita dal languore e tutta traballante. Per qualche giorno se ne sta in pace.
Il gabbiano mi riferisce che nelle altre isole circola la favola che su Palmarola abiti una strega, ma anche questa è un’altra storia vecchia che alle mie sorelle piace tanto. Dicevano la stessa cosa di quella strana ragazza che è vissuta su nostra sorella maggiore, l’Isola Grande. La chiamavano Maga, e sembra che mia sorella non abbia retto al dolore per la sua scomparsa. Si è trascinata fino alla terraferma e ne ha preso nome e sembianze. Pare che la loro storia sia stata storpiata come quella di una qualunque di noi, ma nessun cantastorie ha avuto il coraggio di scindere l’isola dalla donna. Non mi sorprende, e non rispondo al gabbiano. Non ho più bisogno di narrare la verità, ognuna si terrà la propria e andrà bene così.
Lei e io abbiamo preso a chiacchierare. Mi racconta come vuole sistemare la casa, come non deve preoccuparsi più se si macchia con le mestruazioni, quanto le mancano i libri che le facevano leggere le suore. Parla di altre cose sue che per me non hanno importanza.
Io le rispondo a modo mio: un soffio di scirocco, un cespuglio di elicriso colorato, le more che le piacciono tanto. Non le entro più dentro, ma in qualche maniera mi ascolta: abbraccia le palme, si stende tra il limonio, accarezza le mie spiagge. A tratti diventa cupa e si cinge le braccia senza dire più nulla.
A volte ho ancora voglia di ucciderla, altre penso che lo farà da sola. Magari al calar del sole prende la barca e se ne va, magari si mette a costruire un’altra casa, aiutata dai suoi amanti, e magari glielo lascerò fare. Magari un giorno, semplicemente, la troverò fredda e riporterò le sue membra alla mia terra.
Non ha ancora capito di essere diventata ossidiana.

Laura Calagna Bambini

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