Mahare – racconto di Veronica Pennisi

Mahare – racconto di Veronica Pennisi

Un incubo lo spaventava più di ogni altro. E tornava periodicamente, come le piogge settembrine.
Nel sogno, due o tre donne volteggiavano nel ristretto cielo dell’isola. Le figure femminili svolazzavano a bassa quota. Forse per questo gli abitanti di Terra-Ferma le chiamavano così: Berte. Gli uccelli di mare che accarezzano le onde durante le tempeste. Un giorno di burrasca, Cola ne aveva avvistata una in alto mare.
Era rimasto a fissarla, mentre lei lasciava che la corrente d’aria la trascinasse in volo. Quel giorno la pesca era andata malissimo e i pescatori avevano convenuto su un presagio di sventura.
Bartolo accese la lampada ad olio. Per un momento, l’oscurità sembrò meno spessa. Cola si soffermò sui tratti familiari del pescatore. Considerò che dimostrava almeno una decina d’anni in più della sua età, con le mani callose logorate dall’intelaiatura delle nasse e gli occhi spenti, ovattati da un velo. Era la prima volta che se ne accorgeva, come se non lo avesse mai guardato davvero fino ad allora.
“Domani hai da fare. Adesso dormi” ordinò lui.
Non sapeva nulla del patto, ma doveva aver intuito che c’era un motivo se il ragazzo lasciava Terra-Ferma per spingersi in un luogo così pericoloso. Forse si era accorto che qualcosa non andava quando un manipolo di scagghiunazzi lo aveva scortato sino al porto e aveva dato ordine che un peschereccio prendesse il largo per Ginostra. Bartolo era il solo che si fosse offerto di accompagnarlo. Cola avrebbe voluto ringraziarlo, ma se ne stette zitto.
Dopo un po’ avvistarono l’isola. Una pallida luna fece capolino dalle nubi e rischiarò la cima del cono vulcanico. Sembrava uno spicchio di terra dimenticato in mezzo al blu. La barca beccheggiò avanti e narrè, sempre più vicina, sempre più vicina.
Cola mise via la mappa. Si sentiva dentro al libro di suo padre, con quell’imponente vulcano sullo sfondo. Solo che non stava più illustrato sopra a una copertina, ma era lì, davanti ai suoi occhi: poteva sentirne l’odore acre di zolfo e fumo.
Dall’isola arrivò un vocìo, come un canto. Ma non era un canto normale. Sembravano grida e lamenti insieme. Ti vogliamo con noi sembravano dire non ti lasceremo mai più andar via. Bartolo iniziò a santiari1 sottovoce.
“Mahare, mahare2!”
Cola sentì un brivido gelido darrè la nuca.
“Io mi fermo qua. Dovrai fartela a nuoto” sentì dire al pescatore. Il ragazzo annuì. Era contento che le ombre della sera gli impedissero di guardarlo negli occhi.
“Buona fortuna, Cola”.
Il ragazzo si sporse sul parapetto e si tuffò. L’acqua era così ghiacciata che quasi bruciava. Fece un paio di bracciate e, quando si voltò indietro, Bartolo sembrava già lontanissimo, poteva sentire appena lo sciabordio delle onde contro la chiglia della sua barca. Sull’isola, le femmine non cantavano più.
Poteva intravedere la curva del porto e lì, in attesa, la figura di una donna simile a un fantasma. Una trama di venature verdi scintillava in mezzo ai capelli alabastro, simile al baluginare smerigliato nell’onda spumosa.

Nicola era l’unico maschio dell’isola. In effetti l’unico bambino, dal momento che aveva solo undici anni quando era stato scelto. L’isola era un vulcano sottomarino. Glielo aveva raccontato suo padre una volta, prima che il mare lo ingoiasse per sempre. Suo padre conosceva un mucchio di cose del genere: poteva calcolare la velocità con un solcometro e sapeva persino che i maschi dei cavallucci marini partoriscono.
Per la verità queste erano informazioni assai rischiose, ma Gesualdo era stato maestro di scuola quando ancora la terra firriava3, prima che mettessero al bando i libri. In gran segreto gli aveva insegnato a scrivere e a far di conto. Leggere invece era ancora permesso. Faceva parte delle beffe di Terra-Ferma: la lettura non è bandita, ma non ci sono libri per poterla esercitare; lasciare la città è consentito, ma non esistono navi sulle quali imbarcarsi; giocare per i vicoli non è vietato, ma non ci sono bambini con cui poterlo fare.
Un venticello soffiò, gonfiando la tenda d’ingresso. La corrente scostò un riccio dalla fronte di Nicola, mettendo in mostra una costellazione di brufoletti rosso ciliegia. Spremette il viso contro il gomito. Qualcosa di peloso gli sfiorò il braccio. Doveva essere uno dei gatti che si aggiravano per l’isola di Ginostra, ne aveva visti parecchi la notte precedente, nella strada che conduceva da porto Pertuso alla casa. Una mezza dozzina di gatti e due sciccareddi4, ma di esseri umani – fatta eccezione per la sua accompagnatrice – nemmeno l’ombra. Era acchianato5 per la strada tortuosa con il naso all’insù. Le case, intonacate di un bianco così brillante da distinguersi pure nel buio più nero, si arrampicavano lungo il pendio.
“Iddu” aveva indicato la sua guida, puntando con l’indice il cono fumante. Quella era la prima parola che Nicola le sentiva pronunciare. Sapeva che si stava riferendo al vulcano: Iddu, loro lo chiamavano così.
“Buongiorno”.
Nicola schiuse gli occhi malvolentieri. Il chiarore fosforescente del mattino gli s’insinuò tra le palpebre, offuscandogli la vista. Nuotò negli abissi di luce per qualche secondo, poi poco alla volta mise a fuoco: la trama rampicante di canne e viti sopra la sua testa; u bagghiu quadrato che s’apriva davanti la porta di casa; ‘a bisola di pietra sulla quale giaceva addormentato; la donna che lo contemplava in silenzio. Si chiamava Madama Marina, lo aveva riferito il rapido e teso scambio della sera precedente, prima che lei scostasse la tenda all’ingresso e scomparisse all’interno della casa per la notte. Nicola si susì6; il mare alle sue spalle sembrava una tavola di blu compatto.
“La colazione” esordì lei, servendo al tavolo un grappolo di brioche dalla crocchia dorata. Emanavano un profumino di burro fuso e soffice farina, la superficie scricchiolò dolcemente quando Nicola la sfiorò con le dita.
“Non ho fame” mentì, senza tuttavia smettere di serrare la brioche come un naufrago la sua boa. Madama Marina lo ignorò, scivolando nuovamente dietro la nuvola del tendaggio. Riemerse dieci minuti dopo con una tanica di caffè, della brioche era rimasto solo il tuppo.
“Non lo mangi?”
“Lo lascio per ultimo”.
Lei gli sedette di fronte, le iridescenze verdi dei suoi capelli splendevano nella luce mattutina. Aveva le gambe nude, l’orlo della gonna le sfiorava continuamente le cosce. Nessun sarto avrebbe mai osato cucire niente del genere a Terra-Ferma, dove le gonne erano più lunghe di parecchi centimetri, pensò Cola. Gli occhi grigioturchino indugiarono sul ragazzo, mentre serviva il caffè. Le rare volte che Nicola si era trovato ad ordinarne uno al bancone de Il Pesce-Cane, Saro il locandiere gli aveva rifilato una brodaglia nerastra, simile a fango calpestato. Il caffè di Madama Marina, invece, aveva il color del cioccolato fuso e sulla superficie si era creato uno strato di bollicine sfrigolanti. A Nicola quella donna metteva addosso una strana sensazione. Un misto tra inquietudine ed imbarazzo. Prima di rendersene conto sciorinò: “Graziediavermifattostarequistanotte”.
Lo snocciolò tutto d’un fiato, come fosse uno scioglilingua: grazie – di – avermi – fatto – stare – qui – stanotte. Chissà cosa avrebbero detto i pescatori di Terra-Ferma se lo avessero sentito ringraziare gentilmente, come nessuno gli aveva mai insegnato a fare.
“Sarai nostro ospite per i prossimi trenta giorni” spiegò Madama Marina “Così è stato pattuito”.
Nicola annuì. “Le Berte sanno che sono qui?”
“Nessuno ci chiama così a Ginostra. Questi sono nomi che date voi”.
“Ho una fame da lupa” sentì dichiarare Nicola alle sue spalle e si voltò. Una ragazzina niscì7 dalla porta e gli venne incontro a grandi passi. Si squadrarono. Lui non aveva mai visto una ragazza, eccezion fatta per le Tortorelle, ma quella era diversa. Gli tornarono in mente le raffigurazioni delle Furie nel libro che gli aveva regalato suo padre. La picciotta era asciutta e muscolosa; sottili peli scuri costellavano le gambe e non l’abbandonavano nemmeno sul viso, creando un piccolo capolavoro di arcobaleno sull’arcata superiore della bocca. Lo sguardo di Cola si soffermò sui seni piccoli e maturi della ragazza e poi sul suo ombelico, simile al minuscolo guscio di una chiocciola.
“Questa è mia figlia Nerea” annunciò Madama Marina “Nerea, ti presento Nicola”.
“Preferisco Cola, mi chiamano tutti così”.
Gli occhi lucenti e duri di lei saettarono e Cola pensò ai ciuffi setosi che invadono il cielo quando è in arrivo una tempesta. Forse non aveva grande esperienza con i ragazzi, perché anche lei restò in silenzio per un altro minuto.
“Sai che Nereo era il padre della ninfa Galatea?” si trovò a dire lui, per spezzare il silenzio piombigno. “In realtà era il padre di tutte le Nereidi. Erano cinquanta”.
Nerea allungò la mano, Cola porse la sua. Ma lei deviò traiettoria e artigliò il tuppo che giaceva accuratamente avvolto in un tovagliolo.
“Se questo non lo mangi, lo prendo io” disse ed in un baleno se lo fece sparire tra le fauci. Cola non era uno di quei bambini che piangono, ma stavolta dovette sforzarsi per trattenere le lacrime.
“Si è fatto tardi, ho del lavoro da sbrigare” gracchiò, afferrando la bisaccia che aveva abbandonato in un angolo e gettandosela a tracolla. Poi si lanciò giù per il vicolo, senza voltarsi indietro.

‘U cani muzzica sempre ‘u spardatu8, ripeteva spesso suo padre. Mai come adesso, rifletté lui, percorrendo la mulattiera che si snodava a strapiombo sul mare. A destra e a sinistra lo fiancheggiavano piante di capperi e fichi d’india. Aveva trascorso l’intera giornata a battere l’isola in lungo e in largo, facendosi strada con una canna trovata sulla via, che brandiva con piacere vichingo.
Al contrario di Terra-Ferma, dove a nessuno era permesso oltrepassare le mura cittadine senza l’autorizzazione degli scagghiunazzi, a Ginostra era il mare a fare da scudo al mondo esterno. Cola aveva evitato le abitazioni acciambellate sul fianco del vulcano ed era partito dalla grande terrazza a strapiombo sul mare. Al centro della terrazza si ergeva una struttura rettangolare, la cui facciata volgeva a ponente. Sulla mappa stava scritto Chiesa di San Vincenzo, ma una targa in legno sotto il tetto a capanna recitava SCUOLA. Combattendo contro l’impulso di entrare, Cola si era calato come un ragno tra le rocce che conducevano al mare. Aveva percorso a nuoto il tratto che correva fino a porto Pertuso ed era acchianato nuovamente, attraversando il sentiero del Timpone per sbucare sul punto più alto di tutta l’isola: Punta Corvo. Ma giunto all’incirca a metà della vetta gli era stata sbarrata la strada. Era una Berta: la catananna9 più rugosa che avesse mai visto. Un bastone nocchiuto le giaceva in grembo, mentre lei divorava con le mani una gallina intera, la carne si sgretolava sotto i colpi dei denti. Cola considerò il corpo curvo e la pelle grinzosa come buccia di mandarino. Poi scivolò in avanti, silenzioso come un gatto.
“Ah-Ah!” gridò lei, agitando il bastone con una velocità sorprendente per la sua età. La gamba di Cola si piegò e lui allungò le braccia per prevenire la caduta. Tentò un nuovo balzo con la gamba buona.
“Ah-Ah!” gridò nuovamente la vecchia e questa volta colpì il ginocchio sinistro, atterrandolo definitivamente.
“Accidenti! Fammi passare!”
“Nonzi” gracchiò la Berta.
“Devo passare, vado…”
“Si c’è ventu vai a vele, si c’è bonaccia vai a remi, si c’è tempesta vai a guai” ghignò la vecchia, scoprendo la bocca sgangherata come un ponte. “Vattìnne. Qui non troverai quello che cerchi”. Puntò l’indice nodoso verso lo specchio del mare.
“Devi solo imparare a galleggiare, Cola”.

La mulattiera gli fece percorrere una U perfetta e finalmente lo vide: uno scivolo di basalto piatto e liscio, circondato da scogliere a picco sul mare. Doveva essere quella la secca di Lazzaro indicata nella mappa, la zona dell’isola che non aveva ancora perlustrato. Si calò.
C’era una canoa ormeggiata lungo lo scivolo. Per un attimo considerò l’idea di rubarla e fuggire via. Smettila, si rimproverò, vuoi solcare i mari a bordo di una canoa? Saresti spazzato via alla prima mareggiata.
Lasciò scivolare la mappa dentro la canoa per tenerla al sicuro, poi si tuffò. Tutt’intorno il cielo si tingeva del colore dell’albicocca quando è matura.
Qualcuno fischiò in lontananza, ricordava il ciù ciù di un assiolo. Cola alzò lo sguardo: la figura scalza in cima alla scogliera assomigliava ad un uccello. Ciù ciù ripeté e poi spalancò le braccia e si gettò in mare. Volo giù e svanì tra le onde. Lui pensò che fosse morta, invece il ciuffo bruno di Nerea fece capolino poco lontano da lui.
“Wow, chi sauto chi facisti!10
“Grazie”.
Nerea sorrise, mostrando denti piccoli e bianchissimi.
“Non pensavo di rivederti prima di stasera”.
“Munti e munti ‘un s’incontranu11, ma le persone prima o poi sì. Vieni con me” e nuotò verso uno scoglio che emergeva tra le onde. Cola arrivò per primo, si tirò su e si sedette ad aspettarla. Quando lei gli fu accanto, per un po’ nessuno dei due parlò.
“Allora, me lo dici cosa ci fa un maschio nell’isola delle donne?”
“É una lunga storia” sospirò Cola.
“Abbiamo il tempo di un tramonto”.
E lui le raccontò tutto.

Aveva concluso il suo racconto. I due ragazzi si distesero a pancia all’aria sullo scoglio, osservando il sole tuffarsi oltre l’orizzonte fiammeggiante. Rimasero in silenzio finché il disco di luce non scomparve. Iniziò a soffiare un fresco venticello estivo.
“Devo andare. Domattina voglio battere tutti i golfi dell’isola”.
Nerea scoppiò a ridere. “Domani sarà maestrale!” gridò e svanì tra i flutti marini.

Il maestrale soffiò per cinque giorni. Le canoe furono trascinate a secco e gli ami non vennero mai calati. Gli sciccareddi Gina e Angelina si ripararono sottovento ed i gatti fuggirono chissà dove. Sembrava impossibile che le rocce resistessero a tanta violenza. Il rumore sferzante delle onde non s’acquietava né di giorno né di notte, così che Cola si abituò a svegliarsi e a prendere sonno con un sottofondo costante. Neanche il vulcano aveva smesso di vibrare, ricordava al mare che sull’isola c’era un solo padrone. Ginostra divenne una roccaforte solitaria, impossibile da raggiungere per chiunque venisse dall’esterno.
“Accuminciaru i riuturi d’austu12!”
Per qualche motivo, le Berte sembravano felici di quel tempaccio. Il secondo giorno di maestrale Cola le vide per la prima volta tutte insieme, erano circa una trentina. Si arrampicavano sopra i tetti a terrazzo delle case, con i corpi nudi e i capelli zuppi fino alle caviglie.
Streghe! pensò. Solo in seguito scoprì che sui terrazzi si faceva la raccolta dell’acqua piovana, lasciandola defluire attraverso canali sino a una cisterna sotto al bagghiu delle case. Le Berte la chiamavano “oro blu” e la centellinavano con cura sorprendente. All’alba del quarto giorno la pioggia cessò, ma le raffiche di vento non smisero di muggire. Le onde si rovesciavano le une sulle altre, schizzando spuma simile a zucchero filato.
Quella notte Cola sognò la vecchia, i lunghi capelli grigi le ricadevano sulle spalle ossute come centinaia di stelle filanti.
“Ho visto tuo padre morire” gli diceva “l’hai ucciso tu, ragazzo”. Alle sue spalle le lancette di un grande orologio vorticavano a tutta velocità.

 

[1] Bestemmiare, imprecare.
[2] Dal siciliano magàra: strega, maga. Nel dialetto dell’isola di Alicudi Mahare. Secondo la leggenda, le Mahare Arcudare erano delle streghe volanti che vagavano al calare del sole.
[3] Letteralmente: ruotava, girava.
[4] Asinelli.
[5] Salire, soprattutto riferito ad una scala o ad un pendio montuoso.
[6] Si alzò in piedi.
[7] Uscì.
[8] Proverbio siciliano. Letteralmente: il cane morde sempre il povero, ovvero i guai capitano a chi ne ha già abbastanza.
[9] Bisnonna, vecchia, vecchissima.
[10] Espressione di stupore: che salto che hai fatto!
[11] Proverbio siciliano: un monte non si avvicina mai ad un altro monte.
[12] Sono iniziati i temporali di fine agosto. La parola “riuturi” viene da “rivolture, stravolgimenti” e indica il momento in cui il clima cambia all’improvviso, passando dal sole ai nubifragi, dall’estate all’inverno.

Veronica Pennisi

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