L’uomo della neve – racconto di Miriam Palombi
Redazione2024-10-21T07:34:07+02:00Il gelido contatto con la mota aveva preservato i corpicini pressoché intatti.
Avvicinandoli alle orecchie avrebbe potuto quasi sentirli miagolare; lo stesso lamento insistente e uggioso di quando, rosee appendici, erano sfuggiti dal ventre rigonfio della madre.
Subito dopo quel primo vagito, i micini erano stati sottratti, col cordone di carne che li prosciugava lentamente, e chiusi dentro a un sacco di iuta.
Un’altra madre, con mani arcaiche, aveva compiuto quel gesto crudele; le stesse di una mammana capace di far nascere, o morire, con le sue pratiche rozze. Donne che conoscevano il rito battesimale perché, se durante il parto il feto avesse rischiato di morire, avrebbero dovuto essere loro a battezzarlo, versandogli acqua santa sul capo.
Ebbene, sua madre Luciana non aveva fatto nulla di tutto ciò per quelle povere creaturine, se non seppellirle in una buca poco profonda nel campo gelato dietro la cascina.
Irene accarezzò i cuccioli con gentilezza.
Il pelo attaccato alla poca carne era rado. Gli occhi di ossidiana fissi nelle orbite.
A un primo sguardo potevano sembrare solo grumi di terra scura resa coriacea dal rigido inverno ma, a guardare bene, chiazze porpora emergevano dal bruno terreo, lì dove il sangue si era congelato.
«Non possiamo permetterci altre bocche da sfamare, ora che tuo padre ci ha abbandonato» aveva detto sua madre con uno strano disgusto che le piegava gli angoli delle labbra. «È colpa dell’inverno, e della carestia.» Aveva poi aggiunto, con una mescolanza di rimprovero e rassegnazione a graffiarle la voce.
Era vero. Quell’inverno infinito era il più rigido degli ultimi decenni, o almeno così dicevano i vecchi. Tanto rigido che i cavoli bitorzoluti annerivano nei campi, troppo in fretta per essere raccolti.
Così rigido da bruciare i germogli sui rami delle piante e prosciugare il latte nelle mammelle delle vacche. Anche il fiume ne aveva risentito, si era prima ingrossato per la neve caduta copiosa e, una volta strabordato dal suo alveo, si era ridotto a una lastra di ghiaccio.
A lei, invece, piaceva il freddo. Era una presenza silente che sembrava rendere tutto più reale, saldamente ancorato al suolo. Le piaceva frugarvi con le dita nude.
Il gelo rendeva pazienti, sopendo il dolore.
Rimise il fagotto, con il suo prezioso contenuto, all’interno della fossa.
Si allontanò dal campo pianeggiante, passando accanto a cespugli ghiacciati, lasciandosi alle spalle la casa, mentre la neve rafferma scricchiolava sotto gli stivali come friabili gusci di lumaca. I fossi erano divenuti viottoli appena accennati, e le assi delle staccionate orlate di bianco segnavano il percorso fino al fiume.
A un tratto le apparve la lunga linea continua che si perdeva all’orizzonte. Una vastità che si estendeva da una sponda all’altra.
C’era silenzio, come se lei fosse l’unica creatura vivente rimasta al mondo.
Si avvicinò e si fermò sull’argine, dove l’acqua meno profonda aveva creato una sottile patina di brina. Raccolse qualche sasso e iniziò a lanciarlo per scalfire il velo glaciale.
Mosse i primi passi crepitanti, fino a raggiungere il centro del sentiero levigato che una volta era stato un fiume impetuoso. La riva era oramai lontana e il freddo pungente pizzicava il petto a ogni respiro.
Guardò in basso, in quel punto era possibile scorgere l’acqua scura sotto lo strato esile di ghiaccio. Si chinò per vedere meglio.
«Tuo padre ci ha abbandonato.»
Ripensò a sua madre, con gli occhi avvizziti come insetti nella tana, mentre pronunciava quelle parole che sapevano di assenza.
«Vedrai, farà ritorno appena si scioglierà la neve», le aveva invece risposto fiduciosa.
Fissò l’abisso profondo sotto i suoi piedi.
Prima apparvero le dita, contratte e bianche. Poi il capo reclinato all’indietro, come a voler sbirciare la tenue luce del cielo. Indossava ancora i vecchi abiti, con i polsini bianchi e le pieghe rigide del pantalone. Il volto era calmo, le guance solo un po’ incavate.
Irene fece un cenno di saluto, e suo padre ricambiò con gli occhi che parevano di marmo umido.
Toc. Toc. Toc.
Irene iniziò a colpire la lastra di ghiaccio.
Toc. Toc. Toc.
Piccoli colpetti sordi delle dita intirizzite, come se con quel gesto temesse di distoglierlo dal sonno.
Toc. Toc. Toc.
E colpì ancora, finché uno scricchiolio delicato non incrinò il silenzio.
Miriam Palombi