Le figlie femmine – racconto di Giorgia Distefano

Le figlie femmine – racconto di Giorgia Distefano

Coi capelli incastrati sotto il fazzoletto scuro, lei s’era appassita in un unico bagliore. Si strofinò il naso con la manica di lana. Le nocche rosse delle mani sottili s’appigliavano al pizzicore come unico sentore di vita, o di anima.
Così si era avvicinata alla donna, con le ginocchia cedevoli.
I suoi occhi potevano trarla in inganno, Ines lo aveva ripetuto innumerevoli volte. Faticava a vedere la stessa bocca sempre stata aspra e vitale, ora ceduta alla resa. Pareva un sogno così corpulento, ma in una visione meno limpida che nel sonno. Tuttavia, ogni cosa era già decisa, percepibile sotto i polpastrelli, che si sarebbero intinti di polvere, di schegge, di saliva.

Toccò lo sterno sporgente della condannata, sentì le ossa deformi sotto la sottana bianca. Era la prima volta che la vedeva vestita come una donna.

«Dio avrà pietà di te, glielo chiederò io».
«Lascialo stare Dio, che ha ancora tanto da deluderti».

Ana si allontanò di un solo passo, lasciando scorrere tra le dita il lino della veste finché non le sfuggì.
Gli occhi del villaggio la sventravano fin alle ossa deboli, attraverso le vesti lanuginose. La tunica sporca di fanghiglia, precipitava come una lunga tenda logora. Il viso imbrattato di lacrime, che avevano corroso gli angoli degli occhi vacui.
Non c’era speranza di redenzione, Ines non avrebbe chiesto di Dio. Avrebbe desiderato la morte nel suo stesso corpo contuso e poi in fiamme.
Quando la trascinarono lungo la piazza a piedi nudi e sanguinanti sui ciottoli, lei era già morta.

Il legno della quercia aveva lasciato le sue sfumature dorate annichilirsi sotto il cielo plumbeo. I ceppi erano stati accatastati grossi e aridi, e Ines, spigolosa e brunita, era un fiammifero.
I suoi occhi si aprirono a una folata di vento secco e cattivo. Non erano chiari, non erano scuri. Lei era già morta.

***

Una mattina fredda che gelava i polpacci sotto la tunica, Ana se ne stava seduta sul prato umido, aveva i talloni lividi.
S’era sciolta il fazzoletto, e se l’era legato al polso. C’erano le vacche che camminavano lente sull’erba, non erano contente, ma non parevano tristi. I porci sbafavano coi musi immersi nelle mangiatoie quasi vuote, si poteva udire il loro terribile masticare scomposto, i nasi cartilaginosi contro il fondo di legno.
La ragazza teneva vicine le sue scarpe di cuoio, se mai suo padre si fosse avvicinato, le avrebbe infilate di corsa ai piedi. Ma quello ancora bestemmiava un po’ al fiume, un po’ al mulino. Dunque non si sarebbe spostata di lì. Allungò le braccia al cielo, come ad afferrare gli strascichi di quell’indigente sole che penetrava, a spilli sottili come capelli, le dense nuvole.
Lei, non voleva pensare a niente.

Quel giorno sarebbe passato un contadino a portare del frumento.
Era già tardo mattino, e il mugnaio aveva cominciato a macinare dell’orzo che gli avevano portato i suoi abbrutiti fratelli che lavoravano i campi.
Svogliato e sudato, strillava pure quando non ve ne era alcuna ragione.
Avendo a disposizione gli animali, ma soprattutto avendo ereditato il mulino, subire l’acre invidia dei suoi fratelli lo rendeva di umore peggiore del solito. A nulla serviva piagnucolare la fatica, il lavoro in solitudine, la disgrazia crudele di avere soltanto figlie femmine. Riusciva comunque a percepire la voglia di quegli irsuti e infangati uomini di vederlo sotto terra.
Avrebbe potuto restituire subito l’orzo macinato, che gli era stato consegnato in quantità irrisorie. Se ne sarebbe tenuto a malapena qualche pugno. Ma il solo sentire i loro occhi addosso, sembrava privarlo di salute un poco alla volta.
Quindi li cacciò via, spiegando che avrebbe impiegato la prima parte della mattina a badare alle vacche e alle galline, e che l’avrebbe macinato dopo l’orzo, molto più tardi. Quelli si sistemarono insieme il cappello in testa, come per trattenersi dal fare a pugni, e se ne andarono.

Ana sentì dei goffi passi. Riconobbe subito la minuscola sorella Catalina. La bimba si muoveva lenta e affaticata, finì col tenero viso sul prato scuro. La ragazza scosse la testa, attendendo che la piccola si avvicinasse strisciando a terra. Le ripulì il viso dall’erba e dal terriccio, che lei stava già masticando nella bocca umida. Si sorrisero entrambe, Cata coi denti piccoli, puntellati dai grani bruni del suolo. La più grande rise, strofinando un dito sul paffuto muso sporco.

Il padre riprese a strillare, questa volta Ana capì di dovere raggiungerlo.
Cacciò la bambina, dicendole bruscamente di tornare dalla madre e di non importunare gli animali.

Camminando lungo la riva del fiume, che finalmente sentiva scrosciare più forte dei versi dei porci, Ana vide in lontananza un contadino. Portava dei grossi sacchi color tortora, alcuni sulle spalle, altri trascinandoli. Dietro di lui, procedeva a ginocchiate alte quello che pareva un ragazzino molto magro, carico di sacchi altrettanto grossi.

Allacciandosi disordinatamente il fazzoletto, osservò il padre cogli occhi socchiusi e stizziti.

«Devo trattare con questo zotico. Tu, sciagurata e inutile cosa che sei, vai a portare gli scarti ai porci».

Tenendosi la lunga gonna, tentò di recuperare il sacco sporco e scucito che il rozzo mugnaio aveva abbandonato a terra, di fronte al mulino.

Ormai il contadino Esteban era arrivato, assieme a quel ragazzetto strambo e sottile.
I due uomini abbronzati discussero animatamente, senza decidersi, sugli scambi e percentuali. Il contadino strinse le labbra, propose di offrire al mugnaio del pane preparato da sua sorella in cambio della macinatura. Ma il mugnaio non se la beveva, non sapeva di potersi fidare. Esteban rispose che erano in due ad avere la sciagura di fare solo figlie femmine. Almeno lui s’era trovato un ragazzino che l’aiutava, invece il grosso mugnaio doveva occuparsi di tutto da solo, con quelle sciagurate che nessuno si voleva maritare.
Il contadino restò zitto.

Ana non riusciva proprio a trascinare il sacco col mangime. Ci girava intorno, tentando di scoprire come avrebbe potuto trascinarlo senza rovesciarne il contenuto. Di sollevarlo, non se ne parlava. Pareva una bambina scoprendo che un ceppo d’albero non poteva spostarsi. Frustrata, ne prese un lembo e iniziò a strattonarlo. Prima che gli scarti potessero raggiungere il prato umido, quel ragazzetto corse a recuperare il sacco. Aveva un’espressione annoiata, infastidita da quella ragazza maldestra.

«Dimmi dove lo devo portare».

Ana guardò quel viso spigoloso, le ciglia lunghe. La voce limpida, acuta, scorreva col fiume e sembrava incresparsi lucida, come l’acqua gelida.

«Ma sei una donna».
«Che vuoi che ti dica?»

Il mugnaio restò impressionato, colto alla sprovvista.
Stava osservando la scena per accertarsi che quel ragazzetto non rovinasse la reputazione della sua pigra e sciocca, ma onesta figlia.
I due uomini non si dissero più nulla, si avviarono entrambi verso il mulino coi sacchi di frumento sulle spalle. In silenzio nella penombra, iniziarono a versare i cereali nella tramoggia.

Così, quella stramba ragazza che portava le braghe e coi capelli tranciati alla nuca, portò il sacco di mangime fino ai porci. Lo rovesciò persino nella mangiatoia.
Catalina osservò la scena coi grossi occhi scuri spalancati. Ana la rimproverò, spingendola via in direzione della casa, imbarazzata e con le mani che tremavano nervose.

«Te la sei fatta addosso?» chiese divertita la ragazza, osservando la gonna bagnata e lercia dell’altra.
Ana arrossì, afferrando un lembo della tunica per guardarlo da sé.
«Mi son seduta a terra».
Non ascoltò la giustificazione timida di Ana, si mise ad accarezzare il muso di una vacca.
«Il sacco vuoto lo sai portare indietro, o lo devo restituire io a tuo padre?»
Teneva sulla bocca un ghigno, più di una cosa da uomo, che intimorì la figlia del mugnaio. Seguendo pochi pensieri e pure confusi, Ana decise di non rispondere. Tenne le labbra imbronciate di fronte a quella donna che non capiva, coi capelli sfilettati al collo e che si mantenevano a malapena incastrati dietro le orecchie, cadendo sulla fronte e gli occhi.

«Perché non sei maritata?»
«Non so».

La sconosciuta alzò gli occhi. Non erano chiari, conservavano un grigiastro torbido.
Strofinò le mani tra loro, per ripulirle dalla polvere. Si incamminò verso la riva del fiume, e Ana la seguì, saltellando come se volesse affrettarsi a chiederle qualche cosa.
L’acqua scorreva scura, colava sinuosa tra i grossi sassi. La ragazza aspra si piegò sulle ginocchia, si lavò le mani, i polsi, e poi il viso.

«Il tuo nome, qual è?»
«Ines».

***

Ines si avvicinò a quella vacca che pareva tanto starle simpatica. Annunciò a voce alta che da quel momento, l’avrebbe chiamata Isabel. Ana le spiegò che ogni volta che passava dal prato, stava accarezzando una vacca diversa, che quindi almeno cinque vacche avrebbero dovuto chiamarsi Isabel. Si fecero entrambe una grossa risata e si misero a sedere alla riva del fiume.

«Vieni alla messa, questa domenica?»
«No. Io non vado alla messa, ho di meglio da fare».
«E che fai?»
«Qualcosa la farò».

Mentre rispondeva, Ines masticava il gambo di un fiore.

***

Uscendo dalla funzione, Ana teneva in braccio sua sorella neonata Beatriz.
Ines le andò incontro, schivando un mendicante che pareva un mucchio di ossa accozzate sotto una coperta impolverata.

«Che ci fai qui?»
«Ho finito di lavorare. Finalmente ti sei cambiata i vestiti».
«Tu invece no».
«Io lavoro, mica attendo che Dio mi chiami per far la suora».

Camminando fianco a fianco, Ines porse un pugno di more alla ragazza coi vestiti profumati, e nel frattempo se ne portò una alle labbra.
Ana porse il piccolo frutto bitorzoluto alla bambina, che iniziò a giocarci tra le mani paffute ammorbidendolo tra le gengive, macchiandosi la pelle di blu.

«Sai, ho visto dei vestiti bellissimi, con delle pietre cucite sul colletto».

Stava sorridendo, amareggiata. Sistemò la bambina tra le braccia e una spalla. Le spostò i capelli fini con le dita. Mentre camminava, la piccola si agitava assieme ai passi veloci e scomposti sull’acciottolato.

L’aria tirava fredda, il cielo era incupito già da molto, e sembrava omologarsi alle slavate case grigie al centro del villaggio. Arrivavano nubi di profumi di carne cotta e mele.
Né Ana né Ines mangiavano carne, neanche la domenica.

Ines portò una mora davanti al colletto della tunica nuova di Ana.

«Così?»

Ana sorrise.

***

Ines gettò la buccia di uno spicchio di mela nella mangiatoia, porse la pallida fetta del frutto ad Ana. Lei la morse distratta e imbronciata, guardava un grosso maiale bruno avvicinarsi a passi pesanti al recinto. Si era legata il fazzoletto verde al polso, e i suoi capelli liberi da poco da un paio di trecce erano campi di terra arati.
La ragazza con le braghe le chiese se ci fosse qualcosa, un impegno, che si sarebbe mai presa. Ana sembrava essersi convinta di volere entrare in convento, ma i suoi occhi bruni restavano appesi per l’aria mentre lo sussurrava.
Lei non voleva pensare a nulla.

Col grezzo coltello che si trovava in mano, imbrattato di succo e grumi di polpa di mela, Ines tranciò di scatto una lunga ciocca di capelli di Ana.
Quella guardò la secca mano callosa avvolta intorno al fascio bruno.
Se la sentì al cuore, la lama che sfilettava capello per capello. Lo strattonare delle dita salde svanire repentino dallo scalpo, e infine, il solleticare delle nuove punte pagliose sulla guancia. Non disse nulla.

«Se vai in convento, ti tagliano i capelli. Ti ho solo fatto capire che succede».

Fu sorpresa Ines, quando Ana iniziò a intrecciare quella ciocca. Ne annodò la fine con una delle tre estremità, torcendola più volte finché non fu ben rigida.

«Questa la terrai tu, così ti ricorderai che sono esistita anche prima di maritarmi a Dio».
«Che significa?»
«Che dopo potrei perdermi, mancare di umiltà, pensare di essere favorita a Dio. E allora devi ricordarmi che sono stata separata da Dio».

Ines restò con le labbra schiuse e aride, mezza mela sul grembo che si era ossidata su tutta la superficie esposta. Conservò la treccia dentro la tunica, toccandosi lo sterno deforme, perché sentiva un tale calore al petto che pensava si fosse aggiustato. Invece l’osso era ancora solido e sporgente. Si sistemò la tunica al petto, allargandola. Mentre si ripassava le cuciture del colletto, notò Ana mordersi l’interno di una guancia, segno che stava per domandarle qualcosa.

«Pensi che riuscirò ad arrivare a Gerusalemme?»

Ines sbuffò un ghigno.

«Non ce la faresti neanche ad arrivare a Santiago de Compostela».
«Mi ci porteresti a Santiago?»
«Certo. Col cavallo».
«Sai andare a cavallo?»
«No».
«E allora?»
«Che noi andiamo a piedi e il cavallo ci fa strada».

Ana si stese sul prato a ridere. Santiago era vicina, poche ore verso Nord a cavallo. Ma in quel momento poteva restare dov’era.

***

Il mugnaio si strofinò le mani sudate sulle braghe e poi sul viso, s’era chinato sulle sue stesse ginocchia disperato, e sentiva le lacrime salirgli agli occhi molto più del sangue al cervello.
Le vacche morivano come mosche, emanavano lezzo di carcasse dall’alito caldo e umido, s’erano ammalate. Avevano gli occhi iniettati di sangue, chiazze di pelo mancanti, non mangiavano più e si accasciavano al suolo come colte da calci alle zampe. Le lingue secche toccavano i fili d’erba per l’ultima volta.
Il prato si tinse di sangue e fluidi vari.

Il pensiero dell’uomo andò subito alla figlia stramba del contadino Esteban.
Girava voce che il terreno arato da lei, con quel suo impeto da maschio, fosse diventato completamente infertile, scuro e sottile come cenere. Raccogliendone un pugno, era così secco che non macchiava le mani, si era reso sabbia inospitale a qualsiasi coltura. Aveva pure piovuto, ma si diceva che l’acqua se n’era subito scivolata via come a non sentirne ragione, indispettita.
Inoltre, una figlia più grande, data in sposa al cugino falegname, aveva perduto il bambino subito dopo che quella screanzata s’era permessa di toccare la pancia alla sorella incinta. Girava pure voce che il bambino fosse blu, che gli mancassero alcuni arti, e che di altri ne avesse il doppio del necessario. Si disse che era caduto giù coi denti già cresciuti e i capelli rossi.

Così si mobilitarono gli uomini del villaggio, e si confidarono al prete, che smosse avvocati, consultori, qualificatori e segretari, fin agli inquisitori.

Quando Esteban fu chiamato fuori casa sua dagli avvocati per testimoniare, alzò le spalle, seppure qualche cosa gli stesse muovendo lo stomaco. Se ne andò dietro la bettola a vomitare verdure mal masticate.

Ines venne colta riposare di lato ai campi. Fu sollevata per un braccio ossuto e abbronzato con uno strattone, la portarono via facendola camminare sulle ginocchia. Tentava di recuperare il passo, di mettersi sui piedi, ma quelli credevano stesse cercando di sfuggire alla presa, e con un solo gesto, fecero schioccare d’un rumore atroce la sua spalla.

«Voi siete una strega, e dovete confessarlo».

Ma lei non confessò. Si fece trascinare via, percuotere, bastonare e prendere a calci sullo stomaco. Forse le avrebbero sistemato l’osso sporgente, finalmente.
Iniziò a tossire sangue, allora capì d’essere già morta.
L’odore acre del dolore, risaliva fino in fronte. Mangiò terra fino a sentirne i grani tumefarle le labbra e grattarle la gola.
Le mostrarono la lunga treccia di Ana, la riconobbe tra le macchie di colore pallide e annacquate. Sentiva il viso umido di lacrime e di sangue, avrebbe voluto sciacquarsi al fiume.

«Avete rubato parti di corpo umano per farci favori al demonio, e dovete confessarlo».

Chiuse gli occhi, pareva un bozzolo impolverato.
L’unica cosa che ricordava, era quel velo liscio che doveva avvolgere la sua amica novizia, ma che lei portava disordinato, le poche volte che lo indossava. Le ciocche ondeggianti che saltavano fuori da ogni parte, e le sue labbra che incespicavano tra le preghiere in latino, con la lingua sotto gli incisivi bianchi.

«Amen».

E Ines lo ripeteva, col gambo di un fiore e un ghigno in bocca.
Ma ormai, sentiva solo il sapore ferroso e vischioso del suo sangue. Lei era già morta.

***

La sentenza venne letta a voce alta, per far sì che tutti sentissero e provassero piacere e paura.
Quella donna dai capelli corti e il volto spigoloso era una strega, e si poteva essere contenti di qualcosa di atroce come la sua morte, per cavare felicità da qualsiasi angusto anfratto di questa vita di lacrime e sudore. La parte dolciastra dell’odore del cadavere si rivelava nel brivido d’interesse e attenzione che scatenava gli occhi scuri del villaggio. Erano tutti vispi davanti al tizzone ardente. Una vibrazione sola aleggiava per tutta la folla, raggrumata tra i palazzi grigi e bruni. Si festeggiava la vittoria della giustizia, della protezione, l’eliminazione del nemico. Si gioiva il calore che tutto poteva purificare, il fumo che raggiungeva il cielo. Partendo nero, si dissolveva in trasparente nebbia sempre più alta, e Dio non l’avrebbe mai vista, perché la polvere malvagia sarebbe precipitata direttamente in pasto ad altre fiamme.

La veste bianca prese fuoco.
La pira divampò.
Le fiamme si alzarono dai talloni insanguinati alla punta appuntita del suo naso.
Nella folla che s’azzardava a malapena a respirare, solo urla di dolore atroci, e una disordinata preghiera sommessa in latino, dalla pronuncia stentata, con la lingua sotto gli incisivi.

Ana gettò la testa sotto il fiume, i palmi delle mani imbrattati di cenere. Una sola ciocca di capelli tranciata all’altezza del mento, madida, appiccicata alla sua bocca socchiusa. Il fazzoletto verde era legato al polso.

Giorgia Distefano

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