La trave – racconto di Marina Ciangoli

La trave – racconto di Marina Ciangoli

«Da bambino mia madre mi diceva che la nebbia persiste di tre giorni in tre giorni. Domani è il nono, se non va via arriveremo almeno al dodicesimo.»
«Antonio, lascia stare queste superstizioni. Aspettami qui. Chiudo la chiesa e torniamo a casa. Lucia ci ha preparato la pecora alla callara.»
«Don Nicola… non mi piace la nebbia di questo paese. Sembra viva.»
Il parroco lo sgridò con lo sguardo e si avviò per la salita che lo portava alla Chiesa di Santa Maria. Il funerale si era concluso da mezz’ora, ma Don Nicola e il sacrestano erano soliti trattenersi fuori dal cimitero, in attesa che i parenti e gli amici del morto si dileguassero.
Tra il cimitero e la chiesa benedettina si incuneava una strada stretta, un corridoio ostinatamente ombreggiato e illuminato di rado dalla luna, per via di quel bosco che da lì impellicciava l’intera montagna.
Tra gli alberi si mosse rapido un vapore bianco. Tra la nebbia indugiò pigro un sibilo.
«La nebbia qui è strana.» Antonio strinse le mani l’una all’altra per fermare il tremore e si sincerò che Don Nicola stesse tornando.
A terra comparve la scia luminosa proiettata dalla luna. «È presto perché sia già sorta a quest’ora.» Antonio fece dei passi indietro. Una luna estranea alla sua conoscenza agganciò la sua attenzione. Era come scesa giù in paese, più grande del sole. Il vapore bianco si sdraiò lungo la strada, lento come chi è preso dal sonno.
Don Nicola tardava. Il vapore era scomparso e al suo posto apparve una trave che ostruiva la strada.
Antonio si precipitò in chiesa. «Don Nicola, c’è una trave in strada che prima non c’era. Venite a vedere.»
«Sarà un ramo caduto. Perché sei spaventato?»
«C’è qualcosa stasera. La luna… è gigante. La nebbia è…»
«Antonio, non devo portarti più ai funerali?»
«Venite!»
Don Nicola discese il viale e fiancheggiò la strada della chiesa fino ad arrivare agli alti muri del cimitero, dove la strada conduceva fuori dal paese.
«Ecco, non c’è niente, nemmeno un rametto spezzato… Cos’è?» Si voltò. Dove il bosco nasceva, la terra era smossa ad S per un lungo e largo tratto. Un sibilo echeggiò.

La madre di Antonio aveva ragione. Passarono altri tre giorni, un altro funerale era stato celebrato e la nebbia era rimasta agganciata al suolo del paese. Non voleva avere la forza necessaria per dissolversi verso il cielo o recarsi altrove per attanagliare l’animo di qualcun altro, a loro distante.
Lucia mise in tavola due ciotole di sagne e fagioli, accompagnate da un vassoio di calcionetti e una brocca di vino paesano. «Padre, se non vi dispiace, vorrei tornare a casa prima stasera. Mia nipote non sta bene e tutti noi temiamo dobbiate venire voi stesso a breve…» Tacque perché le si spezzò la voce. Si asciugò gli occhi con il grembiule, più per prendere tempo che per lasciarsi andare al pianto.
«Che succede, Lucia?»
«Non lo sappiamo.» Si schiarì la voce e tentò di riprendere il controllo, ma restava tremante. «È caduta in una specie di sonno profondo da un paio di giorni. Era tornata dai campi molto stanca… le faceva male qualcosa, diceva… e poi, niente. È rimasta addormentata.»
Antonio si alzò in piedi, poggiò la mano sulla spalla di Lucia e la strinse. «Ci penserò io qui, prima di tornare a casa.»
«Grazie, signor sacrestano… siete molto caro.» Lucia si fece seria e gli occhi tradirono un velo di paura. «Non dovrei dirlo davanti a Don Nicola… ma questa nebbia… è quella nebbia. Si sentono i sibili quando scende la luna. Penso…penso, che mia nipote sia venuta a prenderla…»
Don Nicola si alzò in piedi strappando via il tovagliolo dal colletto. «Lucia, per l’amor di Dio, non metterti anche tu con queste favole!»
«Perdonatemi padre.»
«Chi?» Nello sguardo e nella voce di Antonio calò un’ombra di inquietudine. «Di chi parlate?»
Don Nicola afferrò spazientito Lucia per un braccio e, come se volesse spintonare un’intrusa, l’accompagnò fino all’uscio. Poi, con tono calmo aggiunse: «Pregherò per tua nipote.»

Stavolta era morto un bambino. Antonio si era messo in disparte e dal muretto di Santa Maria osservava con sguardo assente i tanti abitanti che si intrattenevano fuori dal cimitero. Antonio li osservava ingollati dalla nebbia cocciuta e si chiedeva se non fossero le ombre di un sogno interminabile. Don Nicola consolava quanto poteva.
La gente del paese non andava via, come se aspettasse il ritorno del piccolo. A venire fuori fu la luna, che sorgendo si avvicinava al suolo, anziché alzarsi in cielo. Voleva farsi notare tra la nebbia che tentava di oscurarla? Questo si chiedeva Antonio con la bocca spalancata e il cuore che gli scuoteva le costole. Seguendo un riflesso, puntò gli occhi verso lo stretto viale tra il bosco e il fianco delle alte mura del cimitero. Tra la nebbia scorse una massa in formazione: la trave era comparsa di nuovo.
Si precipitò giù per strada, il fiato freddo e rapido gli irritò la gola. Corse verso la trave e ora vide un enorme serpente che si muoveva mellifluo.
La nebbia sembrava attaccarlo. Si addensava spingendosi dentro gli occhi di Antonio, ma riuscì lo stesso a vedere come il serpente, tra sibili stridenti, si sfilacciò in una miriade di rami sottili che presero a muoversi e strisciare. Serpenti… c’erano decine di serpenti che inondavano a frotte lo stretto viale in direzione del paese.
Sfilavano rapidi, ammattiti dalla foga di arrivare a qualche destinazione. Alcuni abitanti iniziarono a urlare, correre, inciampare. Altri rimasero immobili coprendosi il capo. Altri ancora cercarono di affrontarli. Molti vennero morsi nella corsa furiosa.
Una melodia imperiosa svettò tra le urla e i sibili. I serpenti rallentarono e tornarono verso il viale, per poi svanire nella nebbia.
Don Nicola, rimasto accovacciato durante l’assalto, alzò lo sguardo al suono dei passi che si avvicinavano a lui. Uno zampognaro gli tese una mano e dietro di lui si affacciò Lucia scapigliata e sudata, ma con aria vincente. «Favole, Don Nicola?»

Trascorsero altri tre giorni e di funerali non se ne contavano più. Ne erano morti tre alla volta ogni ora, nei giorni addietro. Tra la folla piangente c’erano decine di zampognari.
Un unico funerale collettivo era terminato e Don Nicola, con Antonio, Lucia e gli zampognari si diressero verso il viale.
Antonio si era posizionato davanti al gruppo. Guardava il cielo in attesa che la luna sorgesse, si facesse spazio tra la nebbia e piombasse verso il paese. Sul limitare del bosco si intravide un vapore bianco più denso e luminoso della nebbia. I sibili echeggiarono e la luna gigante beffò la gravità ancora una volta.
Puntuale, apparve la trave divorando la nebbia intorno. Antonio fece un passo avanti, urlò verso la trave e poi il bosco: «Cosa vuoi da noi?»
All’urlo, la trave si contorse battendo sulla strada, facendo tremare il suolo a ogni colpo. Divenne un unico enorme serpente che si rizzò per metà della lunghezza e soffiò feroce.
Lucia alzò il braccio e gli zampognari suonarono una melodia quieta e arcaica che fece infuriare ancora di più il serpente. Balzò in avanti e imprigionò Don Nicola tra le spire. Antonio corse per liberarlo quando un vapore bianco si interpose fra lui e il serpente. Dopo un bagliore, apparve una donna con un abito imperiale bianco e un manto di pelle di serpente. Toccò la bestia che si addolcì all’istante lasciando cadere il prete a terra. Gli zampognari intonarono un motivo in onore della divinità dei boschi.
La dea Angizia si adagiò sul collo del serpente e accarezzò il capo con grazia. «Quello che le mie creature vogliono,» iniziò con una voce che sibilava in un sussurro atavico, «è che paghiate il prezzo per aver usurpato il bosco a me sacro. Da prima che l’uomo comparisse, questi boschi sono stati creati per onorare la mia essenza immortale. Le serpi sono i guardiani del bosco. I vostri antenati erano stati avvisati da lui,» si chinò per baciare il serpente, «che ci sarebbero state conseguenze quando iniziarono a tagliare gli alberi, a prendere sempre più spazio. Avete dimenticato il legame sacro che legava l’uomo alla natura.»
Fece un gesto vago verso il paese. «Ogni quindici anni i miei guardiani tornano per vendicare il legame spezzato. Il grande serpente appare sotto forma di trave a colui che è disposto a credere e ascoltare le mie richieste. La nebbia che vi avvolge sfida la vostra capacità di guardare oltre i vostri desideri terreni.»
Antonio si avvicinò, chinandosi su un ginocchio, la voce risoluta nonostante il timore reverenziale. «Dea Angizia, come possiamo rimediare a un torto così profondo? Come possiamo salvare i nostri abitanti da questa maledizione?»
Angizia lo fissò negli occhi, come se volesse incantarlo, e le sue parole divennero un fischio inebriante. «Posso guarirli dal morso, sì. Posso fare di più. Le ferite si rimargineranno, i morti torneranno e i ricordi di questi giorni svaniranno con la nebbia. Ma…il paese rimarrà imprigionato in questa maledizione. Le mie serpi torneranno quando la luna cadrà nuovamente su queste terre e la nebbia fitta getterà un velo d’impotenza sui vostri pensieri. Torneranno a esigere il loro tributo, a ricordarvi la vostra insolenza.»
Antonio intuì che c’era dell’altro, rivelato dalla presenza stessa della dea. «Oppure?» chiese, la voce tradiva una flebile speranza.
La dea si alzò e si avvicinò ad Antonio, un sorriso ambiguo si manifestò sul volto. «Oppure… potete lasciare che operino la loro vendetta senza ostacoli, fino al ventunesimo giorno di nebbia. Solo allora il patto si rinnoverà, fino alla fine dell’era degli uomini.»
Lucia, che aveva ascoltato in silenzio, strinse le falde del cappotto in un pianto sommesso.
Il respiro della dea risuonò in un’eco che si propagò nel bosco, e aggiunse: «La scelta sta a voi. Sacrificio o prigionia eterna.» La dea risalì il bosco seguita dal serpente docile. Poi si dissolsero nel vapore bianco.

Il solstizio d’inverno sarebbe arrivato a giorni, ma quella fu una domenica mattina che prese le sembianze di una giornata di maggio. Antonio uscì dalla chiesa di Santa Maria e sorrise tra la folla quando vide Lucia con sua nipote sedute sul muretto, che prendevano il sole.
«Buongiorno, signore», disse quando le raggiunse.
Lucia strinse le mani di Antonio con gratitudine. «È un ottimo giorno.»
«Una giornata così bella e festosa,» aggiunse la giovane portando le mani a coppa sulle orecchie, «che mi sembra di sentire il suono di una zampogna, di tanto in tanto.»
Antonio e Lucia, senza dirsi nulla, si voltarono a controllare il viale stretto. Poi, si scambiarono uno sguardo inquieto, destinato a durare quindici anni.

Marina Ciangoli

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