Il posto – racconto di Valentina Ramacciotti

Il posto – racconto di Valentina Ramacciotti

«Quindi, una questione di temperatura?»
«Non essendoci attività cellulari la termogenesi cessa. Quando si raggiunge la temperatura esterna, nei mesi invernali, si è già a buon punto. Ma non deve preoccuparsi questo è solo l’aspetto fisico, il vero cambiamento avviene in un altro stato dell’esistenza».
Continuava a dargli del lei e questo produceva un certo distacco nella conversazione, un filtro, qualcosa che impediva un contatto diretto. In effetti non aveva alcuna intenzione di sfiorarla, sarebbe stato scortese, non era certo uno di quei cafoni che hanno l’ansia e la cultura del contatto fisico, soprattutto con le belle signore, come in questo caso. E poi non era affatto sicuro che la donna che gli sedeva accanto fosse di suo gusto, era ancora in fase di valutazione e ciò che percepiva era appunto una certa freddezza.
«Dunque, un raffreddamento? Tutto qui?»
«Sì, ma il calo della temperatura è solo l’inizio del viaggio.» Lo aveva guardato dritto negli occhi, come se quella frase contenesse un messaggio cifrato, un invito o roba del genere.
Non era immune al fascino di quella sconosciuta, se ne rendeva conto. Era qualcosa di magnetico, invisibile ma pungente. Da quando si era venuta a sedere accanto a lui, tra i tavolini deserti di fronte alla locanda, in un’ora serale imprecisata, sotto il vento dalmata che sferzava i suoi gelidi refoli, aveva avvertito un brivido interiore che si era sommato a quelli esterni prodotti dall’aria ghiacciata. E prima ancora la pelle gli si era già accapponata, quando le aveva rivolto il primo sguardo. Lei sembrava aspettare solo quell’invito. «Sa che ore sono?», gli aveva chiesto, alzando una manina in cenno di saluto.
Lui non aveva saputo rispondere perché il suo prezioso orologio da tasca era fermo, continuava ad agitarlo ma il meccanismo non dava segni di vita. La donna si era messa a ridere.
«Credo le sette, o poco più. Mi scusi, si è fermato…» glielo aveva mostrato da lontano, sollevando la mano in aria. «Ma la prego, si accomodi, è faticoso parlare a questa distanza», aveva proseguito con tono gioviale, invitandola a unirsi a lui e porgendole galantemente la sedia alla sua destra.
«La ringrazio, mi ritrovo insolitamente sola e non conosco la città. Un appuntamento mancato, cose che capitano…» parlava mentre si avvicinava barcamenandosi sui tacchi, poi una bella risata contagiosa, proprio quando si accomodava al tavolo con il bicchiere semivuoto in una mano.
La fierezza di una conquista spontanea e tardiva l’aveva rinvigorito, togliendogli sul momento la percezione del freddo che solo fino a poco prima lo stava convincendo a rientrare e a concludere la sua serata in solitaria.
«Posso offrirle qualcosa?» aveva proposto l’uomo indicando col suo il calice di lei.
«Che gentile», era stata la risposta della bella forestiera, sempre con quel sorriso candido e diretto.
«Mi sembra il minimo.»
«Oh, non è sempre così, le assicuro» gli aveva detto nascondendo la risata dietro la manina inguainata.
«Impossibile. Non le credo…» Il tintinnio dei cristalli aveva interrotto un silenzio dilatato e già carico di aspettative.
Vestiva in blu. Abito con scollo generoso e scialle con frange. Vistosi gioielli al collo e ai lobi. Labbra rosse lucenti. Età indefinibile. Una donna matura, ma ancora nel pieno dello splendore per un ometto come lui, ormai sulla soglia dei settanta.

«Dunque la temperatura…»
«È legata a fattori esterni, come l’umidità. Oppure interni, come la presenza o meno di grasso. In generale la temperatura tende a un equilibrio con quella dell’ambiente. Poniamo il caso di una bella giornata di sole estivo, si stupirebbe nel constatare quanto il corpo invece di raffreddarsi si riscaldi. Tuttavia di solito c’è un raffreddamento in concomitanza con l’evento. Esistono delle formule sui tempi e il raffreddamento, ma non sono troppo attendibili.»
«Formule?»
«Un corpo medio si raffredda più o meno di un grado centigrado ogni ora. In caso di infezioni, assunzione di sostanze chimiche, intensa attività fisica, il processo può subire variazioni.»
«Davvero interessante. E dopo? Mi racconti del dopo…»
«Siete tutti così impazienti…», ancora una delle sue risate. Uno sguardo insistente e civettuolo.
La trovava seducente, adesso non aveva più dubbi, l’avrebbe seguita ovunque quella sera, sapeva alternare la giusta dose di leggerezza e curiosità, inoltre si era rivelata sorprendentemente preparata su fatti che l’avevano sempre affascinato e solo negli ultimi tempi anche intimorito.
«Ebbene», aveva proseguito lei abbassando il tono della voce, dopo aver tirato la sedia più sotto al tavolo, come se avesse dovuto rivelargli confidenze troppo intime anche per quella locanda disabitata, «il dopo è una questione personale, dipende dalla disposizione d’animo, dall’indole o dalla paura, da quanto si è disposti a rinunciare per godere a pieno dell’esperienza unica e irripetibile di cui stiamo parlando. C’è chi non è affatto pronto. Non sa quante volte mi capita di perdere tempo in lunghe spiegazioni, ci possono volere anche giorni per convincere i più restii, ma alla fine mi creda, quando si abbandonano il risultato è garantito.»
«E cosa si prova?»
«Questo non posso dirglielo.»
Si era data una ravviata ai lunghi capelli chiari che splendevano sotto la luce lunare come se fossero fili di platino elettrizzati e magnetici. Rivolgeva il profilo alla luna e lui ne ammirava le linee perfette, date dall’incastro di un piccolo naso che terminava in due morbide labbra da baciare. Ecco adesso provava persino un’attrazione carnale per quella sconosciuta che gli sedeva accanto da una mezz’ora promettendogli un epilogo speciale. La sua pelle era così sottile e levigata, pure senza trucco possedeva un contrasto perfetto.
La penombra non metteva in evidenza i difetti di un’età non troppo giovane, e l’esperienza intellettuale bilanciava il tutto in una magica alchimia.
«Dipende da come si reagisce all’evento. Chi è preparato, chi ha avuto un preavviso, un biglietto da visita, una malattia, o chi se lo va a cercare personalmente -con un accanimento, mi lasci dire, alle volte davvero maniacale- riesce a goderne a pieno, allora tutto è disteso, pacifico. Direi perfetto.»
Le sue mani avevano cominciato a spogliarsi dei guanti scuri secondo un rituale puntuale e piacevole. Con il pollice e l’indice si pizzicava le punte delle dita. Prima della mano destra, poi della sinistra. La guardava con un silenzio ghiotto nello sguardo, non voleva perdersi un secondo di quello spettacolo privato che andava in scena al suo tavolo, all’insaputa di tutti. Il più affascinante spettacolo di una vita, certamente degli ultimi tempi da anziano stanco e disilluso, che però non perdeva l’abitudine di un bicchierino serale, con la Bora o col sereno, con la pioggia o con la nebbia, sempre a quel tavolo: l’ultimo a destra, prima della strada. Gli aveva sempre portato fortuna. Era un abitudinario, non un superstizioso, sia chiaro, ma a certi istinti ci credeva e quest’incontro magico ne era la prova.
L’ospite si era accomodata coi gomiti sulla tavola e il mento adagiato sulle dita intrecciate. Il suo volto rivelava adesso una diafana magrezza a cui prima lui non aveva badato. Erano soprattutto le occhiaie a colpirlo, di un tono violaceo non troppo salubre, ma per il resto era di una bellezza sconvolgente, e il fatto che fosse lì solo per lui, ad adularlo coi suoi racconti e i suoi aneddoti da piccola strega, lo coinvolgeva moltissimo.
«Si capisce, ma poi?»
«Mh, vedo che l’impazienza cresce, allora perché non provare direttamente?»
«Mi piacerebbe conoscere ancora qualche dettaglio…»
«Ma certo, è più che naturale voler sapere il fine, la destinazione, le sensazioni immagino…»
«Sì, ecco!, mi parli delle sensazioni.»
«Oh, le sensazioni», aveva buttato gli occhi al cielo, «argomento affascinante, vero? Si è mai visto qualcuno che ne sia immune?» Adesso il suo sorriso aveva dichiarato delle incongruità nella dentizione, qualche angolo oscuro, ma non era un problema, anche lui aveva le sue magagne nascoste in bocca, a causa dell’età e del tabacco. Avevano già una cosa in comune, pensò, mentre le guance pallide gli si velavano di rosso.
La donna si era avvicinata ancora, abbassandosi lievemente sul tavolo e cercando confidenzialmente l’attenzione dell’uomo per un’altra delle sue rivelazioni. Sussurrava dolcemente. Da vicino rivelava scorci inediti e segreti, una rughetta sopra gli occhi, una macchia sulla pelle, una sottile peluria chiara oltre lo zigomo, adesso persino una zaffata di stantio, di cibo non ben digerito, come un’esalazione dal terreno subito dopo un acquazzone. Le mani bianche, curate e levigate, sotto la luna rivelavano la loro ossuta magrezza.
Ecco che gli sembrava di percepirla ancora, quella musica lontana, uno stralcio di canti, una manciata di note sparpagliate di cui era impossibile ricostruire l’intreccio o la melodia, ma insieme risultavano così convincenti, così invitanti… Gli era già sembrato di udirne l’eco poco prima di fare la conoscenza con la signora, proprio mentre cercava di ricaricare il suo orologio a cipolla. La sua mente allora aveva acceso l’immagine di un coro di voci bianche nascosto in una delle tante chiese e cappelle private che si affacciavano sulla piazza dove loro, raminghi e solitari, gustavano un calice prima di abbandonarsi alla notte.
Non era sicuro sull’origine di quel suono, l’alcol cominciava a scorrere smaccatamente nelle sue vene, obnubilando i sensi e la coscienza, eppure alle volte la musica riaffiorava, introducendo le parole o il raccordo visivo con la donna al suo fianco, proprio come una bella sirena che incanta i marinai di un veliero in tempesta. Era onorato di essere il passeggero di quella nave senza una meta e senza un capitano, in balia delle tenebre e del mistero di quella notte, del vento di caduta che spirava ora con un’intensità violenta, tanto da strappare le tovaglie dai tavoli, e muovere i lunghi capelli della sua compagna fino a solleticargli la faccia. Si era tolto quei tentacoli sottili dal viso, la raffica aveva esaurito il suo vigore. Era rabbrividito ancora. Sarebbe stato meglio correre ai ripari, prevenire l’infuriata dal cielo, lo scatenarsi di trombe d’aria e temporali, ma la quiete della donna, la sua impassibilità lo inducevano a resistere, ad aspettare, a godere ancora di quella piacevole e insperata compagnia.
Lo invitò a incamminarsi porgendogli la mano e lui l’afferrò, era gelida. Si scottò come ci si può scottare col ghiaccio. Quella mano, curata e smaltata, era così magra da sembrare al tatto senza pelle, ma poi osservandola meglio si rincuorò alla vista di una così bella manina, dalla presa energica e decisa, e si lasciò guidare chissà dove…

La notte li attraversava con le sue nubi e le correnti avverse.
«Dopo la questione termodinamica e l’arresto di ogni impulso, funzione e pensiero, ecco le sensazioni…»
«La sete, la bocca impastata» aveva proseguito l’uomo con un filo di voce.
«Bravissimo!», aveva aggiunto lei, girandosi e interrompendo il suo cammino per un instante. Un istante magnifico, con un sorriso da brivido. «La disidratazione è esattamente il passo successivo», confermava la donna con una voce soave.
«Formicolio alle estremità», continuava l’uomo.
«Cos’altro?», chiedeva l’altra appena un po’ più indifferente rispetto all’entusiasmo iniziale, mentre camminavano per mano nella direzione che solo lei sapeva.
«Il rilassamento dei muscoli e poi un’improvvisa rigidità, soprattutto nel volto, alla mascella…sì, anche adesso ho difficoltà a parlare».
«Giusto, lei è davvero perspicace! La contrattura interessa tutti i muscoli, ma inizia a livello mandibolare e facciale, perché la rigidità è tanto più accelerata quanto più il muscolo è utilizzato. Ma lei è ancora troppo avvinghiato al corpo, cerchi di andare oltre, di fare quel maledetto salto!»
«Il respiro…», si era fermato portandosi una mano al petto «è come un’oppressione qui».
Lei lo guardava molto amorevolmente, stupita della risposta dell’uomo, della facilità con cui sapeva trovare le parole giuste.
«L’aria si ferma, una bolla nel petto che resta ferma e non va né su né giù. Un po’ d’affanno e poi…uno strappo. Ecco, sì, è proprio uno strappo.» Gli occhi chiusi, il respiro rotto, ma via via più regolare sotto le mani riunite al petto, la testa all’indietro, una piccola rotazione prima verso destra, poi verso sinistra «e dopo…», la fronte dell’uomo si era corrugata, una vaga espressione di sofferenza «sono disorientato, leggero, troppo leggero.»
«Ecco che succede mio caro, lei ha fatto il salto! L’estrusione, o la sublimazione, la chiami un po’ come vuole, ci sono tante leggende a proposito, ma ora sa più di chiunque altro di cosa si tratta, non è vero?»
Lei adesso lo osservava più seria, inflessibile, persino severa, ma ciononostante materna, come una suora nera sul letto di un malato in agonia, con quella solida distanza che rincuora e spaventa. La vedeva in controluce, di fronte a una luna piena spolverata dalle correnti d’aria, gli sembrava di contemplarne le forme in trasparenza, con i margini bruciacchiati come in uno spettacolo di lanterne magiche. Ancora un lampo, il bagliore della struttura ossea oltre i curiosi vestiti, che solo ora capiva quanto fossero espliciti. Sembravano stare in piedi da soli, e il corpo della donna sparirci dentro, come se fosse in grado di smaterializzarsi, eppure era lì, a momenti alterni la vedeva nitidamente.
Un leggero panico lo attraversò: una scarica lungo la spina dorsale, il palpitare aritmico del muscolo nel petto. Le gambe deboli e disobbedienti lo lasciarono annaspare nell’incertezza. Si guardò attorno, la città dormiva. Era già notte? Non c’era anima viva. Eppure non mancava niente: le solite strade con i portoni antichi, luci che vibravano dietro finestre minuscole e lontane. Il parco cittadino con i suoi giganti testimoni dalle braccia cadenti, piegate dal freddo e dalle intemperie. Le pietre antiche del selciato sotto i suoi piedi. Il ritorno lontano di qualche nota, voce o bisbiglio. La pioggerella che cominciava a cadere leggera e inconsistente sulla sua pelle indurita, dove il gelo non provocava più brividi e rossore.
La nebbia saliva e avvolgeva premurosa i contorni di palazzi e cancellate, panchine e lampioni.
Tutto era attutito, percepito come dal fondo di uno stagno. Si sforzava di mettere a fuoco, ma aveva lo sguardo appannato.
Le luci fioche della città gli scivolavano addosso, congelandoli in una sequenza di immagini rallentate, scandite dal ticchettio dei loro stessi passi.
Si sentiva come un invertebrato che attraversa le profondità di una città sommersa. La signora continuava a camminare oltre, lungo il grande viale lucidato dalla pioggia, con le serrande chiuse, spopolato dal traffico di tutte le notti, da venditori erranti e ubriaconi, baldracche e avventurieri. La vedeva ormai solo di spalle. Non si voltava più a confortarlo, lasciava che l’esperienza prendesse il sopravvento sulla vanità delle parole. E lui si sentiva leggero. Ogni passo dietro a quella donna lo sgravava di un carico prezioso e indefinito, gli toglieva qualcosa dentro: un brandello di pelle, un pezzo di carne, un rene, il fegato, una vena periferica… Si era voltato d’istinto per vedere se davvero i suoi passi lasciassero una scia di sangue e detriti interiori, ma non aveva visto niente, neppure la sua ombra.
La signora procedeva rapida, e lui aveva paura di perderla, di perdersi in quella città deserta e buia che adesso non riconosceva più.
La musica andava e veniva, i canti iniziavano le loro suppliche per abbandonarlo sul più bello nel silenzio assoluto.
«Le sensazioni…», aveva detto lei con una voce dura che si era sciolta in una risata «quelle fanno parte della vita. Hai provato le ultime, intense e tenaci, e adesso dovrai farne a meno, vivere di ricordi. Adesso è l’Assoluto. Soltanto quello, col suo silenzio ingombrante e i suoi canti interrotti, le reminiscenze di un passato feroce e pulsante.»
L’uomo aveva accelerato il passo per non perdere la sua guida ossuta e arcigna che aveva perso il fascino terreno per costruirsene uno più asciutto ed essenziale. Era comunque una bella signora elegante, come non se ne vedevano in giro, di questo bisognava dargliene atto, e poi era l’unica presenza da quelle parti e non se la voleva far scappare, solo che la distanza tra loro cresceva sempre più. Era così rapida, non sembrava nemmeno camminare, ma scivolare su una sostanza unta e viscida spalmata sul terreno.
Intanto la città lasciava il passo a una selva via via più intricata. Sentiva la carezza di rami nudi sulla faccia, il crepitio di foglie secche trascinate dai suoi passi incerti.
Ripensava all’ultimo respiro esalato poco prima, forse alla locanda, che importava ormai… adesso era in transito e non poteva certo mettersi a questionare su quali fossero l’esatto momento e l’esatto posto della sua fine, l’importante era non perdersi, non restare intrappolato in quel bosco oscuro.
«Determinare quando sia avvenuta una cessazione permanente di tutte le funzioni vitali non è facile, visto che la vita -e conseguentemente la morte- è un fenomeno emergente da una struttura che è l’organismo stesso.» Pareva che gli avesse letto nella mente, nella maglia contorta e sfrangiata dei suoi pensieri in affanno. Parlava al vuoto di fronte a sé, la bella signora ossuta, senza l’incomodo di voltarsi, senza l’impiccio di un’intesa di sguardi, sicura che il peso delle sue parole fosse raccolto dietro da un residuo d’udito ancora funzionale, e che non ci fosse bisogno dell’enfasi di un gesto o della mimica facciale per quel tipo di discorso, così si limitava a cadenzare il passo con frasi solenni e impietose.
«Per spiegare la cosa con un esempio semplice, riferibile a un animale superiore quale sei tu, esistono categorie di morte cerebrale che precedono la cessazione del battito cardiaco, e a cascata tutta una serie di arresti di processi biochimici conducenti alla morte e alla necrosi di tutte le cellule costituenti l’organismo.»
«Quindi un ictus? Un’emorragia cerebrale?» Ripeteva lui tastandosi la testa.
«La definizione del trapasso si è evoluta nel tempo, insieme ai cambiamenti culturali, religiosi e scientifici.»
«Continuo a non capire quando e perché?»
«Siete sempre così ostinatamente attaccati ai dettagli. I dettagli non cambiano un destino, non deviano un percorso. Tu ed io ci siamo incontrati. Tutto qui.»
Era passata al tu, come se durante il trapasso tutto perdesse peso e importanza, anche la grammatica della conversazione, la buona educazione o il fascino di un incontro misterioso. Tutto era ridotto di peso e di misura, il superfluo era tagliato via, come le sensazioni umane e tutti gli altri inganni.
«Ma perché proprio io?» aveva esclamato lui in uno sbotto di rabbia infantile.
«C’è stato un invito esplicito, o sbaglio?»
«Bè, ma sono un tipo educato e non resisto al fascino femminile. E poco fa alla locanda, insomma, il tuo aspetto era davvero notevole. Mentre adesso non mi sembra si possa dire ancora la stessa cosa, e poi non ci vedo bene con questa penombra…»
«Bè, c’è poco da fare e da dire, se non rassegnarsi all’evidenza. La morte è un processo, la conclusione delle funzioni vitali di un organismo vivente, ovvero la dissoluzione dell’organismo stesso. Questo processo è ormai iniziato. È inutile piangere sul latte versato.»
«Quindi io mi starei dissolvendo?»
«Il tuo corpo.»
«Ma qual è il senso della vita?»
«Se c’è un senso, non sta a me dirlo, io sentenzio il processo avverso.»
«E potrei avere una diagnosi più precisa della mia morte, l’orario e il luogo specifico?
«Inutili dettagli».
«Mi aiuterebbero a capire.»
«Non c’è niente da capire, nulla da evitare, quando il momento arriva è già troppo tardi per ogni speculazione filosofica a ritroso. Mi spiace deluderti ma non c’è nessuna prova sufficiente ed esaustiva di morte, qualcosa che possa farla sentenziare senza dubbio o sorprese. Esiste solo la certezza della decomposizione chimica. Il rigor mortis e tutto il suo noto corredo…dove questo non accade si parla di pausa, sospensione, coma, è la terra di mezzo: la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo, una nuova definizione di morte. E qui i confini si allargano, ma noi non siamo a un corso di anatomia patologica, giusto? Dunque proseguiamo.»
«Stai dicendo che potrei essere in coma?»
«Non illuderti, sei più di là che di qua, ormai».
Si era scrutato le mani e le braccia oltre la fitta nebbia che stavano attraversando, apparivano insolitamente scure, ma pur sempre piene e carnose.
«Pensa che una volta inserivano delle campanelle nelle bare, perché i risvegli dei morti erano frequenti, avrebbero dovuto allertare i guardiani dei cimiteri. Talvolta optavano per scelte radicali, come la mutilazione dei cadaveri, la pratica di ferite profonde, per essere certi che i defunti non si ridestassero. Persino l’imbalsamazione!» aveva aggiunto una risata divertita.
L’uomo si era distratto dalle affabulazioni della megera, perché adesso gli sembrava che questa procedesse nella selva scura completamente nuda. Quando si era spogliata? Come aveva potuto non accorgersene? Era veramente nuda o si trattava di un gioco di luci e ombre, un effetto silhouette?
Si sforzava di metterla a fuoco, ma gli occhi gli facevano difetto. E dire che non si era accorto di quanto fosse vecchia e avvizzita. Camminava svelta con le gambine da insetto, sembrava ne avesse parecchie…aveva perso ogni fascino maliardo. Una vecchia fattucchiera con i capelli irrimediabilmente bianchi e unti. Magra, con la pelle incartapecorita, le tette a calzino e il culo ridotto a un sacchetto vuoto. Camminando pareva perdere turgore, forma, strati di materia, riducendosi in una larva raggrinzita, con l’unico obiettivo di condurlo in qualche luogo segreto. Non si voltava più, continuava a parlare di cose via via più astratte e incomprensibili.

Percorsero un sentiero tortuoso, interrotto da lastre di marmo spezzate e scivolose, lamiere arrugginite, detriti e sacchi di sabbia. Superata una parete di ferro vecchio, si ritrovarono in una fabbrica malandata, con vetrate rotte e ragnatele che calavano come bozzoli carichi di polvere. Odore acre di vecchi solventi e muffa. Un capannone dismesso da secoli, ingombro di rottami, barili e attrezzi in disuso. La vecchia camminava lungo la parete, armeggiava con dei pannelli di legno gonfi di umidità e sollevava un pulviscolo insopportabile, sembrava cercare qualcosa, forse un meccanismo o un passaggio nascosto. Alla fine aveva trovato una misera porticina, pareva quella di uno sgabuzzino. Dopo qualche tentativo, il battente di metallo si era aperto liberando uno sbuffo d’esalazioni irritanti, fetore di zolfo e nafta. L’ingresso era ostruito da pile di scatoloni e barattoli di vetro colmi di poltiglie scure, giacevano nella polvere, coperti di sedimenti terrosi ed escrementi d’insetti.
La donna si era girata, con i capelli insozzati di quella stessa polvere bianca che le cadeva addosso come una pioggia acida e sottile. Gli mostrava senza pudore la sua nuda e scheletrica bellezza, il pube infossato tra le anche sporgenti e il ragno ossuto del torace con attaccati i seni penduli.
«Non perdiamo altro tempo. Spogliati!», gli aveva ordinato bruscamente.
Lui si era guardato attorno in cerca di una risposta o qualcosa che facesse chiarezza su quelle parole sin troppo esplicite. Era rabbrividito. Cosa significava? Che volesse accoppiarsi lì dentro, all’improvviso? In quella specie di magazzino ammuffito? In quel modo imperioso e brutale? Quando lui ormai non la voleva più?
Aveva nascosto l’imbarazzo in un colpo di tosse non troppo spontaneo. «Dovrei togliermi i vestiti? Qui? Adesso?»
«Dove andremo non ti serviranno».
Sotto uno sguardo insistente e impassibile, fatto di sasso o di un altro minerale che non si può scalfire né turbare, aveva iniziato a sbottonarsi la giacca e la camicia per non farla spazientire oltre. Si era sfilato scarpe, calze, cintura e pantaloni. Frattanto si domandava cosa diavolo avesse in mente la megera che seguiva guardinga ogni suo movimento per accertarsi che obbedisse a quel ridicolo comando.
Aveva fatto dei suoi abiti un mucchietto a terra, ma quella lo guardava ancora come si si aspettasse qualcosa di più. L’uomo tergiversava, col piede aveva spostato il monticello di cenci per liberarsi il passo. Allora lei aveva allungato un dito verso la parte meridionale del corpo che le stava di fronte e che ondeggiava sui talloni e sperando di scomparire nel buio. «E quelle?»
«Preferisco tenerle, non si sa mai…», intanto si stringeva in vita il cordoncino delle braghe.
La donna, o quel che era, aveva alzato le spalle, mentre con uno scatto stizzito procedeva oltre e gli comandava di seguirlo in un intrico di assi di legno, tubi, scope di saggina, sacchi e materassi sudici addossati alle pareti.
Dopo qualche passo si ritrovarono in un buio assoluto.
Non sapeva dove stessero andando ma evitava di domandare perché le sue sembravano sempre domande ingenue o retoriche, quindi continuava ad avanzare più che per la curiosità per il timore di perdere la sua unica guida e ritrovarsi intrappolato in quello che aveva l’aria d’essere un labirinto senza uscita. Procedeva a tentoni nel cunicolo ampio poco meno di un metro, tra viscosità di residui filanti. Ragnatele? Il timore di incorrere nei loro proprietari a otto zampe lo disgustava e intimoriva. Allora accelerava il passo.
Mentre procedeva in quel buio fitto ebbe la netta sensazione di aver strusciato contro qualcosa di più morbido delle pareti contro cui in più occasioni si era graffiato le braccia. La massa che aveva urtato con la spalla era tiepida e in movimento, pensò che non poteva trattarsi della vecchia, perché, a orecchio, si trovava circa un metro davanti a lui, inoltre il suo aspetto poco prima di varcare la soglia era molto più scheletrico della carne compatta contro cui si era appena scontrato. Aveva proseguito in un silenzio meditabondo, cercando di concentrarsi sul rumore secco dei passi della donna, ormai più simili a zampe di cane su un selciato che non agli eleganti piedini spiati sotto al tavolo della locanda. E poi era successo ancora, ma prima c’era stata un’introduzione acustica, una sorta di scalpiccio disordinato, come di tanti piedi nudi, e in un attimo si era ritrovato a strusciare tra altri corpi, alcuni seguivano la sua stessa direzione, altri erano fermi, forse persi agli incroci di quel tunnel scuro, altri ancora gli venivano contro. Poteva sentire la pelle nuda e sudata di alcuni, il tocco soffice dei lunghi capelli di qualcun altro. A parte qualche gemito, nessuno fiatava, ma c’era un bel transito e lui ce la metteva tutta pur di non perdere la sua guida che distingueva solo per il passo graffiante.
Faceva caldo, l’umidità cominciava a bagnargli le membra. C’era un odore insopportabile, di cattiva digestione, di sudore rancido e di salame, d’ammoniaca, o piscio di cane?
Superato l’odioso restringimento e il traffico di copri che lo intasava come in un imbuto, scivolarono giù per un tempo imprecisato, senza dolore o attrito, attraverso uno dirupo o un tubo di scarico. Con un plof atterrarono uno dietro l’altro in una specie d’acquitrino melmoso, l’eco di uno sgocciolio lo induceva a pensare di trovarsi ancora dentro una grande tubazione, un condotto fognario o qualcosa di simile, ma il buio denso non forniva risposte convincenti.
La voce gracchiante della signora riecheggiava, un mormorio di frasi sconnesse, distorte dagli anfratti cavernosi che attraversavano.
E lui procedeva ancora a orecchio, alle volte cadeva nel rigagnolo, inciampando di protuberanze mollicce sulla cui natura non voleva troppo indagare, la voce lo esortava a non distrarsi, a mantenere un passo adeguato a una marcia di rapida marzo. «Il ritmo standard è di centosedici battiti al minuto», comandava ora più decisa, «con un passo da trenta pollici. Per citare un esempio, il ritmo proposto da un comandante di fanteria britannica è marzo rapido a centoquaranta battiti al minuto…la tua in confronto è una marcetta funebre», gracchiava la vecchia strega «roba da bambini, da principianti. Uno, due tre, march…muoversi o di questo passo arriveremo domani!» Era diventata una brontolona, sempre meno disposta a chiarimenti e più incline a un sarcasmo corrosivo… La voce non era più un canto soave e grazioso ma il raschio stridulo di una cornacchia.
«Ma dov’è questo posto?» aveva osato chiedere alla sua accompagnatrice.
«Il problema non è dove si trova il posto, il problema sei tu.»
«Voglio dire: sai dove stiamo andando?»
«No.»
«Come dici?»
«Il fatto è che il posto non è sempre nello stesso luogo, dipende da te. Continui a spostarlo, sei troppo insicuro, fino a che non deciderai di rilassarti, di abbandonarti al flusso trans-migratorio, il posto continuerà a spostarsi, e noi a cercarlo…»
Sembrava davvero arabo, non riusciva più a interagire e a conversare con la bella signora che lo aveva adescato sotto al pergolato della locanda e che adesso era un ammasso di ossa con una parrucca sudicia e polverosa.
Sicché era arrivato al capolinea. Si sarebbe aspettato qualcosa di meglio, di più esplosivo e simultaneo per il suo trasferimento nell’aldilà, invece si trovava a bisticciare con una donnetta burbera e incomprensibile. Che ne sapeva lui? Destinazione, sublimazione, trans migrazione, marcia a centosedici battiti? Era la sua prima volta e anche l’ultima probabilmente.
«Eccoci, adesso lo vedo».
«Cosa?»
«Il posto».
L’uomo aveva buttato lo sguardo il più lontano possibile davanti a sé, ma non vedeva nulla, a parte un sottile lucore all’orizzonte, che però non rischiarava un bel niente, segnava piuttosto una linea di confine a quell’ombra sterminata che li ingoiava da qualche ora.
Lei non gli aveva dato il tempo di raccapezzarsi, e inesorabile lo conduceva oltre. Un buio appena più tenue, dove non si distingueva ancora niente, solo qualche macchia in rapido movimento ai margini del campo visivo. Ragni, o altri esseri dotati di zampette multiple.
La vecchia gli aveva allungato un osso spolpato, forse un braccio, e con quello l’aveva aiutato a salire su una zolla dura di terra compatta. Avevano proseguito il cammino in un luogo asciutto e riparato. Una valle, un grande prato lambito da dolci e lontani pendii, con una brezza tiepida e confortante. Assenza di suoni e odori, di panico e ansia.
La distanza tra i due aumentava. L’uomo non faceva che distrarsi a rimirare il nuovo panorama più vasto, ma ancora fosco. D’un tratto la vecchia si era fermata, e girata a braccia conserte l’aspettava per proseguire assieme. Una volta raggiunta lui aveva stentato a riconoscerla: del suo volto non era rimasto niente, solo qualche lembo di pelle sugli zigomi, i bulbi oculari erano ancora nelle orbite ma senza palpebre sembravano due palle venate di rosso, le labbra erano scarnificate con le mucose mezzo staccate e qualche filamento chiaro che cercava di tenerle assieme, sotto si affacciavano una sfilza di denti canini accavallati e storti, mangiati dal tartaro.

Continuarono a camminare nell’erba alta, verso un capanno. Somigliava a quello di cui l’uomo si era servito tante volte nella stagione della caccia alle anatre, quando ancora aveva energia e voglia di misurarsi con altre forze della natura. Ne vedeva diversi, lontani, persi nella luce fioca di un mattino che non arrivava mai.
La donna aprì la porta con una chiave che lui non aveva visto prima, introducendolo in una piccola stanza vuota, con pareti e soffitto di legno. Ogni suono, come quello prodotto dalla brezza perenne che alitava sull’erba alta conferendogli quel movimento fluido da moto ondoso, era sospeso in un silenzio laconico. Solo le assi del pavimento scricchiolavano sotto i suoi passi nudi, facendolo sentire ancora un organismo dotato di massa, di sensi e di spirito critico.
«Tutto qui?» domandò lui con la mascella abbandonata in una smorfia di delusione «mi aspettavo qualcosa di meglio…»
«È quello che hai pensato, no?»
«Vuoi dire che se pensavo a un castello, avrei trovato una camera di lusso col letto a baldacchino?»
«Può darsi…»
La vecchia megera gli indicò un materasso consumato e macchiato: «siediti qui, forse un giorno qualcuno verrà a svegliarti». Lui obbedì quieto. È un buon posto per riposare, pensava. Aveva camminato così tanto, doveva recuperare le forze. E poi che penombra rilassante e che silenzio!, continuava a pensare, o forse a parlare, le due cose stranamente coincidevano. Almeno così gli pareva.
Il freddo non lo sentiva più, anzi, c’era del tepore, un’aria asciutta e pulita. Solo un pisolino, pensava, mentre socchiudeva gli occhi nell’alba mai nata.

Valentina Ramacciotti

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