Hamsa #5 – Compimento – racconto di Elisabetta Carbone

Hamsa #5 – Compimento – racconto di Elisabetta Carbone

“Hamsa” (in ebraico Hamesh, in arabo Hamsa, cinque: le cinque dita della mano). Le storie di Hamsa raccontano di epifanie, di trasformazioni, di metamorfosi. Hamsa ha a che fare con il lavoro delle mani, con le reliquie e con i frammenti. Hamsa racconta di ciò che il tempo consegna, di ciò che non si perde e non si lascia.

rubrica ideata e curata da Silvia Tebaldi


Nel tempo ordinario, nel minuscolo periplo feriale, orti e cucina stanno come icone, come cicli di affreschi o cattedrali: come perfette fonti di contemplazione. Come guardare il cielo, il costante mutare. Le foglie che inverdiscono, i tuorli delle uova nella ciotola, il lievito che cresce, tutto appare quando si lascia scorrere, quando si allenta il nodo del pensiero. È come una ricetta che trasforma zucchero, uova e mais in un semplice dolce, epifania di una grazia feriale. E in questa apparizione c’è un sigillo, il segno della nostra argilla – l’opera delle mani.

Qui si conclude il periplo di Hamsa: cinque racconti attorno a quel talismano – l’imperduto, ciò che non si perde e non si lascia – fatto e disfatto dalle nostre mani. L’iniquo del dominio, la lucente illusione e il lavoro che uccide, in Étoile di Silvia Lenzini; di Martina Maccianti Il mio corpo di cenere, racconto della cura e del rinascere; nel Canto del merlo, di Diletta Rocca, la voce e il gesto di una guaritrice d’Appennino; la forma tracciata a mano, in Fede è sustanza di Maria Giovanna Fadiga, che tende un arco tra la stasi e il volo.
Compimento, di Elisabetta Carbone, svela quel talismano in una ricetta. Nei gesti con cui si prepara un dolce, nella materia pura che si trasforma, ecco che appare l’imperduto alchemico, che è cibo per il giorno e per la festa.
È dunque con un dolce che si compie, che si conclude il periplo di Hamsa.

Silvia Tebaldi


Compimento

Alle mani che cucinano per me

Il guscio delle uova si rompe con uno scricchiolio frastagliato, le dita accolgono il tuorlo lasciando andare la trasparente collosità dell’albume. Uno, due, tre e l’ultimo tuorlo traballano sul fondo di una ciotola, vicini. In un’altra, gli albumi si mescolano, prima di essere montati. La posizione delle dita è precisa: il pollice tiene fermo il manico, le altre quattro dita lo afferrano, solo così la testa della frusta si immerge e può ruotare. Aria e forza agitano la fluidità lattiginosa e scatenano il ciclone: la schiuma a pelo del composto, prima a bolle grandi, poi sempre più piccole e fitte, ispessisce e gonfia e il muscolo nell’avambraccio irrigidisce. Il movimento aumenta a poco a poco di intensità e il braccio si fa prolungamento della frusta, come una forza superiore che ha deciso di chiudere dolcemente i conti facendo espandere il bocciolo in fiore. Poi si placa con un movimento rotatorio finale, all’improvviso più lento, con un’energia più carezzevole, e la frusta fa emergere un ciuffo di un bianco compatto, che riporta la nobiltà di una struttura, di una verticalità, e culmina in un uncino vezzoso, alla sommità di una torre finalmente irrobustita d’aria.
Nell’altra ciotola i tuorli, lucidi, sommersi dell’immacolata brillantezza dello zucchero. La mano afferra la spatola con una forma di indulgenza, e con la sua testa piatta schiaccia quei bottoni budinosi uno a uno, fino a renderli un fluido che sbuca sotto la coltre scintillante e la impregna. Poi la colata dello yogurt si appoggia sul giallo e se ne colora assorbendolo a volute, una striscia dopo l’altra, prima larghe poi sempre più strette, fino a diventare inesistenti.
La polvere dell’amido di mais è così fine che produce un lieve attrito fra le dita. Il setaccio si scuote picchiato con grazia dal palmo e a ogni colpo lascia cadere quel talco nel giallo granuloso, come un silenzio di calma. Poi la sinistra afferra la ciotola e la destra impugna la frusta e amalgama, senza scuotere, e il giallo si opacizza in una luce morbida, uniforme.
Compimento.

Il calore coagulerà il composto e il composto passerà di stato, e lo stato a un altro, fino al nuovo dolce.

Elisabetta Carbone

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