Hamsa #3 – Il canto del merlo – racconto di Diletta Rocca

Hamsa #3 – Il canto del merlo – racconto di Diletta Rocca

“Hamsa” (in ebraico Hamesh, in arabo Hamsa, cinque: le cinque dita della mano). Le storie di Hamsa raccontano di epifanie, di trasformazioni, di metamorfosi. Hamsa ha a che fare con il lavoro delle mani, con le reliquie e con i frammenti. Hamsa racconta di ciò che il tempo consegna, di ciò che non si perde e non si lascia.

rubrica ideata e curata da Silvia Tebaldi


Pensavo di scrivere sulla pazienza delle mani, di cui Elias Canetti scrisse in Massa e potere. O su Álvar Nuñez Cabeza de Vaca e i suoi compagni, da soldati a naufraghi nel Nuovo Mondo, da conquistadores a ignudi affamati e poi a guaritori degli indigeni. A ciò pensavo, per introdurre questo racconto.
Poi lo ho riletto un’altra volta. Racconta pochi istanti, forse un’ora, di quello che potrebbe essere un giorno qualunque – se solo un giorno potesse essere qualunque – pochi minuti della vita di una donna; gesti, pensieri, brevi dialoghi. Menziona alcuni nomi – Ida, Lisetta, Remo (I nomi sono parole inspiegabili, resistenti ai significati, ha scritto Cesare Viviani). Pochi minuti nella vita di una donna, di una guaritrice d’Appennino. E il canto del merlo, da cui il racconto prende il titolo.
Tutto questo in poche righe, con una scrittura che sembra quieta e piana. Ma, dopo la lettura, si scopre che la durata del narrato eccede il testo. Come se questo generasse un’eco, risonanze, infrasuoni. Nessun giorno, nessun istante è qualunque.
Formule, preghiere, parole dette a voce o recitate in silenzio, ma prima ancora e anzitutto le mani. Sulla medicina popolare, le sue pratiche, i rituali di cura tramandati da generazioni e dal passato remoto, più si scopre più l’essenza ci sfugge. È un luogo in cui collassano i legami consueti tra silenzio e voce, tra discorso e corpo, tra cause ed effetti. Tra il quotidiano e l’inspiegabile. Tra l’ordinario e lo stupefacente.
E tutte, tutti, noi discendiamo dalle guaritrici.

La forma più essenziale di preghiera è stata l’“invocazione del Nome”. La pronuncia dei nomi è sempre invocazione e preghiera. I nomi sono parole inspiegabili, resistenti ai significati. In poesia le parole acquistano l’autonomia dei nomi. In poesia ogni parola è un nome.
– Cesare Viviani, Preghiera del nome, Milano, Mondadori, 1990.

Silvia Tebaldi


Quando Ida sentì il richiamo del merlo vibrare tra gli alberi fermò la mano a mezz’aria e smise di pettinarsi. Trattenne il fiato, la ragnatela di capelli sospesa tra il cranio e la spazzola a mo’ di tenda socchiusa sul mondo.

Eccolo, un’altra volta.

Espirò l’aria trattenuta e stirò la ciocca di capelli neri fino alla vita, poi li raccolse in una treccia e se la arrotolò sul capo, come una corona.

Si lavò con cura il collo, le braccia, le ascelle e poi il viso. Baciò il crocifisso al collo e si passò un lieve strato di vasellina sulle labbra rotte. Avevano sanguinato durante la notte.

Annusò la pasta trasparente. Sapeva di agrumi. Che bello il lusso!, pensò con ironia. Sorrise a denti scoperti, con un lieve soffio da gattino spaventato. Con grande cura chiuse il coperchietto, pulendo bene gli angoli dai residui e lo appoggiò vicino al comodino, dove c’era il libro di preghiere. Avrebbe potuto recitarne qualcuna prima di scendere.

No.

Sentiva che il silenzio era migliore.

Lo prese lo stesso perché tenerlo tra le mani le dava conforto e si sedette sul letto, col viso rivolto verso la luce del mattino. Un timido raggio di luce invernale le si acciambellò in grembo, con una luce che le scaldò subito la pelle.

Il cuore le batteva forte nel petto. Di guardare fuori non se ne parlava perché l’avrebbe visto arrivare e sentiva che si sarebbe agitata ancora di più. Non sapendo dove guardare si concentrò sulle proprie mani che erano illuminate come un attore su un palcoscenico buio in inverno.

Le dita erano affusolate e lunghe, piene e morbide. Le nocche erano screpolate e arrossate ma la pelle dei palmi era abbastanza liscia, anche se la legna aveva indurito i suoi polpastrelli e una scheggia le tormentava il dito medio. Sua cugina Lisetta, che sapeva leggere la mano, le aveva detto che il dito medio è quello che cura le persone impulsive.

– Se ci metti un anello, ad esempio, vuol dire che sei una che sta correggendo il suo modo di fare e che dai molta importanza alla ‘meditazione’.

– Mai sentita questa ‘meditazione’. – Lisetta aveva scrollato le spalle con fare da saputella e le aveva detto, prendendole la mano tra le sue: – Ecco, vedi. Ogni segno è importante in una mano. Tipo, tu adesso hai una scheggia… ma, se te la togliessi…? – e le aveva strizzato il polpastrello con le dita al che Ida aveva gridato: – Ahi! Mi fai male! Ci vuole un ago e dell’olio, scema.

– Sìsì, scusa, ma il fatto è che una scheggia nel dito medio vuol dire che hai problemi con la mediazione! Scusa, ‘meditazione’. Non ti sai decidere! Fai solo stupidate. – Ida aveva divincolato la mano dalla sua e aveva riso forte, replicando: – La mediazione, dici! La meditazione è un’altra cosa, brutta scema!

– Cos’è?

– Non ne ho idea.

E giù a ridere come cascatelle di montagna. Poi era arrivata la Cesira con una gallina a testa in giù e Ida aveva dovuto accettare il regalo e Lisetta era uscita con la scusa di svuotare la cenere della stufa, imbarazzata.

Tese le dita e tenne in equilibrio il libro di preghiere sulle ginocchia, mettendo le mani al sole. Sentì il calore della luce e chiuse gli occhi, deliziata dal tepore. Quando li aprì e guardò fuori vide che il cielo si era coperto e che si stava alzando il vento.

– Ida, è qui. -Sobbalzò sentendo la voce di sua madre da dietro la porta. Annuì tra sé e con voce roca rispose: – Arrivo. -Si mise le scarpe e lo scialle e uscì dalla sua stanza.

Quella era la terza mattina e l’ultima in cui avrebbe segnato Remo Biagini.

Mentre scendeva le scale con attenzione, perché i gradini erano alternati, uno pieno a destra e uno vuoto a sinistra e viceversa, sentì che tutto sarebbe andato bene. Non aveva paura.

Entrò in cucina. Lui era già lì, vicino al fuoco, seduto sullo sgabello per i piedi. Quando la vide si alzò e arrossendo fino alle orecchie disse: – Sono a digiuno e ho pregato. La faccia va meglio, non ho quasi più segni. Mi sento bene. -Abbassò lo sguardo perché si sentiva un po’ impaurito a guardarla a lungo negli occhi e riprese: – Ho portato delle uova. -Tossì e tremò dicendo: – Ho solo quelle. -Ida sorrise e si avvicinò a lui, mettendogli le mani sulle spalle e facendolo sedere sullo sgabellino. Aveva spalle larghe e sentiva il calore proveniente dalla pelle sotto la sua camicia, che aveva già aperto sul petto. Anche oggi aveva il vestito della domenica. Dall’odore e dal colore era lo stesso di dieci anni fa, quando l’aveva incontrato la prima volta. Lo guardò e lui ricambiò il suo sguardo, con paura. Poi Ida chiuse gli occhi, sollevò la mano e con il dito medio gli fece il segno della croce, sfiorandogli la pelle arrossata del petto e recitò le parole dentro di sé.

Riaprì gli occhi, sorrise e disse: – Ecco fatto, Remo. Va’ in pace. -E si alzò. Lui la imitò e Ida guardandolo capì che sarebbe guarito dal fuoco sacro.

– Grazie per le uova. Vuoi un caffè?

– No, grazie. Ora vado. -Si vestì e mentre stava uscendo domandò senza chiedere: – Tua madre…

– Di là.

– Andiamo fuori?

Ida annuì e si strinse nello scialle precedendo Remo. Il vento era cambiato, l’aria era secca e si sentiva odore di neve. Entro sera avrebbe nevicato. Fecero qualche passo poi Remo si fermò, le prese la mano che lo aveva guarito e la guardò negli occhi. Un velo di paura precedette le sue parole che furono: – Ida, ti voglio sposare. -Lei guardò la mano che teneva la sua e vide che la scheggia nel suo dito medio non c’era più.

Un merlo gridò. Per la terza volta.

Gli sorrise.

– Grazie, Remo. No. Ciao.

Diletta Rocca

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