Hamsa #1 – Étoile – racconto di Silvia Lenzini
Redazione2025-02-13T10:39:56+01:00“Hamsa” (in ebraico Hamesh, in arabo Hamsa, cinque: le cinque dita della mano). Le storie di Hamsa raccontano di epifanie, di trasformazioni, di metamorfosi. Hamsa ha a che fare con il lavoro delle mani, con le reliquie e con i frammenti. Hamsa racconta di ciò che il tempo consegna, di ciò che non si perde e non si lascia.
rubrica ideata e curata da Silvia Tebaldi
La novella e il racconto portano in sé un segreto. Sotto la trama visibile c’è una trama nascosta: nella novella, qualcosa che è già accaduto; nel racconto, qualcosa che accadrà.
Dare inizio a un’impresa fonde assieme passato e futuro. Nasce così Hamsa, che vuole raccontare il lavoro materiale e ciò che resta nel tempo, ciò che non si perde e non si lascia: l’opera delle mani, il suo imperduto, il suo inspiegato.
Étoile, di Silvia Lenzini, racconta fatti che avvennero nel passato ma porta in sé un passato anteriore, qualcosa accaduto ancora prima. Qualcosa di terribile e lucente, macchiato dall’iniquo del potere e venato dalla sete di giustizia: che accade, dunque, e non smette di accadere.
Silvia Tebaldi
Amelia sorseggia la minestra a piccoli cauti cucchiai. È buona la minestra di sua madre, profuma di patate e di pomodoro fresco – il piatto più adatto al suo palato, in tutti i sensi, non fosse così calda sulle labbra gonfie, pulsanti. Avvolgere le dita attorno al cucchiaio le provoca dolore. Ma ancora non basta: c’è questa distanza da percorrere, dal piatto alla bocca sollevando il braccio. Lenta, lunga.
Che tieni, a mamma? Pallidissima sei!
Amelia sente gli occhi di sua madre addosso. Si aspetta altre domande, la litania delle preoccupazioni che devono venire a galla.
Tiene lo sguardo fisso sul piatto ma con gli altri occhi, quelli di figlia, quelli che non hanno bisogno di guardare, vede le mani di lei tormentarsi sul ventre, come sempre quando ha da dire qualcosa che, già lo sa, non dovrebbe dire. E allora perché parli, mommy.
Rispunnimi cara, che tieni?
Shut up, madre cara, get off me. Per favore.
Non ho niente, ma’, it’s all right. È questa luce forte che scende sul tavolo a farmi pallida.
E in fondo non ha detto una bugia, perché anche il viso della madre, ora che si è girata a guardarla, ora che le ha piantato negli occhi la sua supplica (I’m so tired, ma’, don’t you see? Non capisci che voglio solo andarmene di là, al buio? Into the dark, madre, into the dark), ora le sembra bianco d’alabastro.
Bianca la pelle, nero lo sguardo che indugia sulle labbra della figlia, sulle occhiaie, si sofferma sulla mascella dove qualcosa non va, sull’asimmetria del collo. Le parole della madre escono esitanti, con un’intonazione dolce.
Figghia, da quando andasti a travagghiare diventasti brutta.
Che dici, ma’. Che dici.
Amelia si sfiora appena il volto. Scioglie con gesto rapido, preciso, i capelli neri stretti nella coda di cavallo, li lascia ricadere sulle spalle in onde morbide.
Guarda come sono bella, mamma. Guarda che figlia elegante che tieni. Che guadagno più soldi io in capo al mese di quanti ne guadagnava papà in un anno!
I soldi, i soldi… Che ci devi fare con tutti questi soldi, ah? Una passione sola tenevi, ed era la danza. Una stella, dovevi addiventare! Ora solo la fabbrica tieni nella testa. Io ti guardo, figghia mia, sempri ti guardo e te lo devo dicere: non si bedda, no. ‘Na crosta ri furmaggiu si diventata.
Amelia solleva un braccio per accarezzarle il viso, sosta sui segni della sua apprensione. Occhi negli occhi, finché le dita scivolano giù per la fatica. Sotto la luce impietosa, la sua mano piccola abbandonata sulla tovaglia è un mucchietto di panna montata sfuggito al cucchiaio in un servizio maldestro. Un candido errore.
Crede sempre di capire tutto, sua madre, di vedere anche l’invisibile, però l’invisibile non lo vede. Amelia trattiene il riso che preme dall’interno delle labbra tumefatte.
Dammi retta, smettila di travagghiare, che sei pallida come la luna, Ameli’. Questa cosa che devi sucari u pennello, si certa ca nun è pericolosa?
Amelia si passa piano la lingua sui denti, alcuni tentennano. Ha dovuto dire a sua madre che ha la bocca infiammata, così ha ottenuto le minestrine invece della carne da masticare. Deve stare attenta anche quando usa il cucchiaio, evitare di colpire l’arcata: se le cadessero gli incisivi allora sì che sarebbe brutta. A Mary è successo, due denti le sono caduti. Ma il medico della ditta ha detto che è colpa sua, che si è presa la sifilide, che a fare la zoccola con gli operai succede. Sicché Amelia se ne sta zitta, non ne parla a nessuno dei suoi denti. Tanto il pennello lo deve succhiare per forza, solo con la punta fatta sottile riesce a dipingere le lancette come si deve.
Ma no ma’, tranquilla. E ora lasciami andare, ti prego. Time to bed.
Ecco, capisci chiddu ca intendo? Non viri u momentu di andartene a letto. Io a vent’anni u sai chi facevo a quest’ora? Me ne fuìvo dalla finestra e andavo a ncuntrari to’ patri, autru chi coricarmi!
Mammà, te la devi scordare la Sicilia. Dammi un bacio, dai, e vai a dormire anche tu.
‘Notte, figghia.
‘Night, mommy.
Amelia si ritira. Finalmente.
Un’occhiata allo specchio – la ragazza che si spoglia le sorride.
Non sei brutta, what is she ranting about? You are so beautiful, she can’t even image your star-like beauty.
Nuda, va a spengere la luce.
Nell’oscurità di pece si muove sicura. Si sposta verso il centro della stanza, sa cosa fare.
Here you are!
La ragazza nello specchio diffonde bagliori di luce. Brillano i capelli, le labbra. Brillano più di tutto le mani piccole. È attraverso di loro che la bellezza si propaga.
Amelia muove le mani, le lascia ondeggiare davanti al viso. Nello specchio due serpenti luminosi si intrecciano, si avvinghiano.
Stasera risplende l’intero busto, risplende meravigliosamente il pelo morbido dell’inguine. Le gambe per ora scintillano a chiazze e puntini, ma tra non molto saranno tutte lucenti. Amelia lo sa, conosce il tempo di propagazione del fulgore, per questo ogni sera smania di ritirarsi. Manca poco alla trasformazione completa – forse poche ore, forse domani.
Si muove nel buio, fa due passi di danza. Che dice sua madre, che lei ha smesso di ballare? Alza le braccia, unisce sopra la testa la grazia delle dita lucenti. Pollice contro medio, stringe i denti per la fatica.
Un grand jeté en tournant. I movimenti sono strie lucenti.
If you could see me now, mom.
Si mette in quinta, spinge sul pavimento. E plié.
Le dita all’altezza del naso, la stretta dell’addome che arriva a spingere il braccio.
E relevé.
E passé.
Una sfera di luce vortica nella stanza.
Coraggio, Amelia, don’t stop! Look the light in the mirror! The light!
Nell’istante in cui l’anca esplode e si frantuma in briciole di splendore, il pulviscolo dorato disegna una parabola lucente sulla superficie dello specchio. A shooting star into the dark.
Amelia (Molly) Maggia, figlia di emigrati siciliani in America, operaia specializzata nella produzione di orologi dal quadrante luminescente per la United States Radio Corporation, morì a 24 anni per gli effetti dell’esposizione al radio. Non fu una morte indolore: prima divenne anemica, poi le caddero i denti; l’osso mandibolare perse consistenza e infine si frantumò; le si spezzò un’anca; in ultimo, si dissanguò per una emorragia diffusa. Era il 12 settembre 1922: in quella fabbrica, Amelia fu la prima delle lavoratrici (da allora indicate con l’appellativo di Radium Girls) decedute a causa della radioattività. Il certificato redatto dal medico dell’azienda inizialmente riportava la sifilide come causa di morte.
Fu necessario un decesso maschile, avvenuto nel 1925, perché un medico indipendente (il dottor H. Martland) dimostrasse sperimentalmente il nesso tra le morti e l’esposizione al radio.
A quel punto quattro delle operaie della Radio Corporation, sebbene già gravemente malate, decisero di fare causa alla fabbrica. Impiegarono due anni per trovare un avvocato disposto a rappresentarle. Il processo iniziò nel 1927. Alcune testimoni morirono prima di deporre. Ma le Radium Girls vinsero. A loro dobbiamo il riconoscimento delle malattie professionali.
Silvia Lenzini