Assunzione – racconto di Eleonora Daniel

Assunzione – racconto di Eleonora Daniel

La stanza puzza. È ancora inverno e la madonna sta male, aprire le finestre è fuori discussione. All’odore dei corpi vecchi si unisce l’acqua marcia dei fiori vecchi, e il profumo dei fiori nuovi che qualcuno accumula per provare a coprire i primi due. Le scale che portano alla stanza sanno di cucinato dalla mensa, burro alloro cipolla. Il camino acceso manda sbuffi di legno e di cenere. Il pavimento è stato lavato da poco. Il sudore freddo sotto le tonache. La nebbia fuori.
Sono ancora tutte ammassate all’ingresso; dal fondo le piccole bisbigliano, si dividono. Qualcuna, più coraggiosa, fende il gruppetto e scruta la sala con occhi d’acqua, le altre restano indietro finché la suora non le guarda, batte le mani e sono costrette (tutte: coraggiose e meno) a schierarsi. Passi svelti e posati da coreografia, ricordare chi c’è a destra e chi a sinistra, evitarsi, non sbandare. Quindici orfane magre in fila dalla più bassa alla più alta, sono uno xilofono di carne. Se qualcuno le battesse chissà che suoni uscirebbero dalle loro bocche, chissà quanto accordati.
La madonna scivola dal fondo nero su una sedia a rotelle, dietro di lei un’altra suora la spinge. Una delle ruote cigola ogni due giri (è la sinistra?). Le hanno lasciato i capelli sciolti, lunghi lisci grigio topo, le ricascano in grembo come un figlio. È la familiarità del suo viso a turbarle. Non tutte ci arrivano subito (forse è la madre che pensavano di non conoscere e che hanno invece inscritta nella calotta cranica), poi ricordano (chi è lei e dove sono loro): è davvero il quadro in sagrestia che s’è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. Le più piccole le notti successive avranno gli incubi, piangeranno, alcune tra le più grandi si sveglieranno e senza confessare oltre diranno Devo aver avuto un incubo.
È ancora bellissima, ma è troppo vecchia perché le bambine se ne accorgano. Ed entrambe le suore nella stanza sono più vecchie di lei, ma le bambine non hanno cognizione dell’età degli adulti: a parlare per la madonna è la sua immobilità. È ancorata alla sedia a rotelle, le braccia e le gambe avvizzite agganciate alla struttura, il torace e il collo e la testa tenuti fermi perché non si sciolgano. Senza sedia sarebbe la gelatina opaca che ricopre il paté di Natale, senza sedia sarebbe il paté stesso (lo guardano in tavola da lontano, ogni venticinque di dicembre. L’unica di loro che è riuscita ad assaggiarlo lo ha fatto di nascosto, lavando i piatti delle suore, e aveva ancora una patina untuosa di carne dietro i denti quando ha detto Sembra un burro un po’ alcolico, fa schifo). Senza sedia sarebbe una pozza inarticolata di ossa e di carne, invece è una polena, una cariatide. È rimasta impalata per tutta la vita, ¹ pensa qualcuna, anche noi saremo legate così. Chissà cosa si prova a sentirsi inchiodare al legno – le farfalle nei musei, le mani di Cristo.
La sedia si ferma a pochi passi da loro. È una scena che commenteranno presto, infreddolite e già in camicia da notte, nei bagni, o accucciate nell’orto, con le mani lerce, a scardinare da terra il radicchio rachitico che si ritrovano poi nei piatti all’ora di pranzo. Qualcuna dirà Ma l’hai vista la mosca, e le altre, in coro, Che schifo, sì, sì che schifo. L’insetto che si ferma, si sfrega le zampe pelose sul muso, le s’avventura quasi nella caverna appena schiusa della bocca; vola via non appena la suora che le ha accompagnate si avvicina e saluta la madonna, poi si affianca all’altra suora alle sue spalle.
Non sanno se e come guardarla. Chi non la guarda per non essere scelta, chi non la guarda perché spera che il suo sguardo assorto possa farla scegliere (e, anche qui: nel non sguardo rivolto a lei c’è chi si tiene le ciglia ai piedi, chi osserva il muro il caminetto le finestre, chi si perde nello spazio vuoto oltre i corpi che ha di fronte, chi si rivolge a una delle due suore, in cui confida); chi la guarda ma senza guardarla negli occhi, chi pensa che guardarla senza guardarla negli occhi sia offensivo e dunque si inchioda al suo viso; chi ne sostiene lo sguardo perché spera di scamparla (e ancora: esistono sguardi spaventati sguardi di sfida sguardi timorosi riverenti irriverenti ascetici inquieti), chi lo fa perché spera di diventare come lei.
Si aspettavano un discorso e invece nulla, non capiscono che hanno la stessa vita dell’ostia che la saliva scioglie loro sul palato durante la messa. Che la festa sarà il primo e il solo momento di tutta l’infanzia che potranno ricordare come il momento in cui sono state qualcuno – e, comunque, non loro stesse. Si diranno Io sono stata santa Teresa, Io santa Lucia, Io sant’Agata, Tu chi eri?, Io? Maddalena (sguardi di scherno), Io Elisabetta (sguardi pietosi), Io avevo la febbre, Io dovevo fare pipì, ho pensato alla pipì tutto il tempo, Io soffrivo di vertigini e alla fine non ce l’ho fatta, hanno messo una statua al mio posto. E tutte le madonnine delle processioni passate in un angolo a parte (ogni anno una nuova entrerà nel gruppo e ogni anno una diventata adulta le abbandonerà), a pensare Cosa ci avranno trovato in questa, Ecco di chi era la macchia sul vestito, a chiedere Ma voi non avevate paura?, No, ti pare, tu?, No, macché, era per sapere.
Gli occhi della madonna continuano a scavarle, poi prova a forzare il collo per voltarsi verso le suore che la incorniciano. Quelle capiscono, le si fanno davanti. Ha deciso. Il cigolio della sedia ogni due giri (è la sinistra). Quando arriva di fronte alla prescelta, emette un suono gutturale rauco che le inghiotte tutte.

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¹La storia della madonna è storia nota in paese. L’avevano depositata all’orfanotrofio che era già grande (i genitori erano morti, i genitori avevano troppi figli e non riuscivano a sfamarla, i genitori l’avevano abbandonata durante un viaggio perché cattiva, i genitori erano scomparsi al primo ciclo perché non potevano darle una dote: non si sa). Era stata scelta perché somigliava alla Madonna affrescata in sagrestia. L’avevano legata come legavano tutte – Sono cose che capitano, ogni tanto qualcuna viene giù, Che tragedia, Non ci si può far nulla, Già. Lei in cima a fare da punta, alta alta con le mani tese verso il cielo, e tutte le altre sotto. E la folla a cantare e il prete a benedire. Poi dal nulla lo schianto secco del palo che si rompe (nella memoria di tutti solo il legno che scoppia e che nessuno può realisticamente aver sentito; i suoni reali: il chiasso della processione e dei canti, il grido della madonnina, delle bimbe e della folla, l’impatto, gli squarci, il silenzio, i corpi che si infrangono, altre urla ancora). Prima di toccare terra ha colpito tre sante – una) costole incrinate; una seconda) clavicola rotta; la terza) morta probabilmente per l’impatto, ancora più morta per colpa del carro che non riesce a fermarsi in tempo e le passa sopra. Mentre lei resta in terra tutta torta. E il paese intero che prega la Madonna e lei che sopravvive, Figlia mia sei un miracolo. Così era rimasta per sempre all’orfanotrofio, accudita dalle suore. E col tempo era diventata la madonna. La gente le si prostrava ai piedi pregandola di curare i coniugi malati, di far tornare i figli dalle guerre, di sanare di risollevare di salvare di portare ricchezza di portare amore di dispensare coraggio di colmare i miserrimi vuoti qualsiasi nelle vite di tutti. Offerte, doni, pianti vari. E la madonna a guardarli in silenzio (come tutti i miracoli, tra lei e il mondo: un muro). E alla fine dell’inverno il compito di scegliere chi in agosto potesse, per un giorno e mai più, prendere il suo posto. E ogni anno da quarant’anni, passando in rassegna quei visi scemi alla ricerca del suo, sperare solo di vederlo morire.

Eleonora Daniel

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