Al buio bianco – racconto di Gian Marco Ferone

Al buio bianco – racconto di Gian Marco Ferone

Certo, piangeva al pensiero delle cetonie capovolte, e non riusciva a stare seduta se d’inverno restava insepolto un passerotto nel giardino di casa; ma in realtà era malata, sempre presa a parlare alle cose invisibili che si mostrano nei posti in alto – soprattutto le cime degli armadi, cosa di cui ci si accorge quando in punto di morte le persone annuiscono guardandovi – e da lì comunicano con canzoncine cose perverse che lei ripeteva ridacchiando. Un giorno, aveva sedici anni, l’avevano trovata a gesticolare davanti a un’altra ragazza, che stesa dietro una tenda le si mostrava nuda dalla pancia ai piedi. Strappatala da là, le avevano chiesto cosa stesse facendo e lei aveva risposto che stava convincendo il teschio con l’occhio senza pelle a farle bere la sua urina, per liberare l’altra, che altrimenti non sarebbe riuscita a farla uscire e le diceva ho tanto male ahi ho tanto male là. Dopo quel giorno, non si era più vista.
Quell’estate, la malinconia della montagna, dove le cose finiscono prima e iniziano molto più tardi, aveva preso già ad agosto un pallore satellitare: le foglie non si tingevano neppure di rosso ma sbiancavano, e le campane risuonavano lentissime doooooonnnn… doooooooooonnn… dooooooooonnnnn… era una pace strana. All’alba, anche il cielo si faceva bianco e pioveva. Questo autunno nato presto era già inverno quel mattino di ottobre: aveva visto qualcuno salutare da lontano, sulle prime aveva pensato a una semplice somiglianza, ma più vicino, l’aveva riconosciuta.
– Qua ci sono animali?
– Ci sono le pecore, le mucche. Ma dove abiti adesso?
– No, animali selvatici.
– Penso volpi, ci sono i cinghiali.
– Non ci sono i gufi?
– Non li ho visti.
– Ma la notte non si sente niente?
– Ma dici di animali?
– I gufi. I gufi si sentono?
– Non vicino le case.
– Vai a caccia, è vero? Hai mai ucciso un barbagianni?
– No.
– Qui non ci sono i gufi. – si era portata una mano alla bocca, infilando fra i denti la prima falange.
– Nel bosco sicuramente, immagino.
– Allora non li hai mai ammazzati.
– Non sono animali che si prendono a caccia.
Avevano camminato insieme per un’ora o due, durante le quali si era voltato spesso a guardarla. Le strade erano marroni e grigie e verdi di alberi, fredde per la pioggia, dopo-tre-mesi-di-tempesta-bizzarre.
Aveva ripreso a piovere. Casa sua non era in condizione da ospitare altra gente, ma pioveva pioveva pioveva, e allora aveva lasciato che entrasse. Avevano acceso il camino col legno d’olmo, e si erano stesi sul divano impolverato, pieno di macchie coi bordi scuri, sotto una sola coperta di lana ruvida color rame.
– Stasera andiamo a vedere le volpi.
– Non le troviamo.
– Dobbiamo ammazzarle.
– ?
– E i cervi, i cerbiatti.
– Perché dobbiamo ammazzarli?
– Quelli sono come gli angeli e i topi. Sanno tutto e a noi non ce lo fanno sapere. A me mi tormentano, mi fanno impazzire. Dimmi se è vero che vai a caccia.
– Ti ho detto di sì.
– Giuralo. Ci vai a caccia? È vero che uccidi gli animali? Ci vai – agitava le mani vicino le orecchie, girava veloce la testa, allargava gli occhi, mordeva le labbra.
– Ci vado sì ci vado!
Con calma, allora, si era tolta i pantaloni e le mutande, e gli era salita addosso. Dopo, per fare uscire l’odore aveva aperto tutte le finestre al vento inquietante. Il lampadario aveva preso a oscillare, le candele lasciavano una scia nera e il tavolo faceva un’ombra ovoidale che si allargava e restringeva e allargava, fuori ondeggiava un gigantesco faggio, le nuvole rapide… un maleficio, una fascinazione: si era alzato per chiudere.
– Non si può chiudere –, provava a chiudere le finestre, – La casa –
– Senti –
– La casa ora è piena di una presenza e non si possono più fare domande.
Al buio erano usciti, avevano camminato fino al ponte che varcava un torrente gelato; esplorando la superficie con una lanterna, avevano visto i cani annegati sotto il ghiaccio. Nel bosco, Facciapallida per un momento ingialliva fra i rami, una nuvola tornava a coprirla, poi una diagonale di pelo trasparente, vaporea: che strana livrea stranissima aveva messo la luna dopo l’estate. La strada aveva iniziato a salire, gli alberi a diradarsi, e si erano trovati in una radura avviolata. Un’altra occhiata di Pupuladuplex aveva mostrato i ragni, i fairies e tutte le altre cose su cui la lucefemmina può fare scivolare una lingua, una falce, poi le nuvole si erano addensate, le nuvole rapidissime… tuonava.
– Io sono una bambina.
– ?
– Io sono una bambina non te ne sei ancora accorto?
– …
Lei aveva riso col naso, e il suono era un frinito.
– Tu – e aveva inspirato, guardandolo mentre scuoteva la testa.
Ma si erano visti alla luce di un fulmine, anche se appenappena, i suoi piedi fra l’erba alta e piante striscianti: mica palmati, mica rotondi, ma anche puntuti sul collo, dove le vene facevano un piccolo rilievo; e le sue ginocchia e i fianchi…
– Non è vero.
Lei aveva avuto un fremito, gli aveva stretto forte il braccio. Un altro frinito, ma non ridacchiava.
Un altro fulmine: c’era, su un ramo, un animale con il volto come la sezione di una mela, occhi giapponesi e non piume ma piume a forma di squame-a-forma-di-piume, trasparenti come l’amido e brulicanti come una coalescenza di processionarie rivoltanti. Ruotava la testa, si dondolava, si acconciava meglio sulle zampe.
– Aaa… a… amma… a… –, muoveva le mani vicino le orecchie, se le mordeva, girava su se stessa.
Il barbagianni si era voltato verso di loro e li fissava.

Gian Marco Ferone

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