A pranzo con le sante – racconto di Chantal Salvinelli

A pranzo con le sante – racconto di Chantal Salvinelli

(…) a fare di te amica di terra
creatura di fango
lasciata a seccare al bordo
della notte. Sì lasciati incrinare
piano piano argilla di paura
e sputo di mano esperta
che dalla crepa entra il soffio
e ti chiama viva.

Chandra Livia Candiani

 

La pallina di fango si arcua pesante nell’aria e si schiaccia contro l’affresco delle Tre Sante sbiadito nella lunetta.


Chi colpisce gli occhi della santa vince lo zuccherino!


Passi trotterellati rotolano sotto il colonnato ingombro di reti per il pollame, le stanghe di legno per far essiccare le foglie di tabacco, i marmi degli antichi sarcofagi appartenuti alle Matrone. Le sorelle si girano per osservare le scarpette consunte voltare l’angolo ma i passi sono perduti.
L’inverno è freddo quest’anno e i fiati si fanno nuvole sparse entro il giardinetto secco del chiostro. Le biciclette di legno, le baracche dei maiali, gli affumicatoi appaiono tutti derelitti, gli appartamenti degli sfollati ai piani alti, dove usavano stare le celle delle monache di clausura, sono tutti murati. Gli ultimi eredi di quella povera gente hanno lasciato il monastero da pochi giorni, e con loro, come le nuvole dei fiati, li hanno accompagnati i fantasmi e i doppi dei fantasmi che stavano lì ai tempi dei bombardamenti. Ora solo i tetti dell’ala ovest sono crollati, ma per un terremoto, e la maggior parte delle entrate dell’anno se ne andranno per recuperare quelle pietre.
I sarcofagi delle Matrone sono accatastati nell’ala est. Alle sorelle, già da parecchi anni, era sembrato che i passi, il tonfo dei fanghi sul dipinto delle Tre Sante, gli ultimi spiriti ritardatari dai piani alti, tutto si esasperasse quando gli antichi sepolcri venivano visitati e spolverati. Così da tanti inverni è stato deciso di rinchiudere le Matrone, le loro pietre preziose a volte ancora dipinte, coi leoni dai manti rossi e i cavallucci terrestri, le statue dai bei pepli sparsi sulle cosce accoppiate con teste ricce ma sbagliate, i bracciali d’ottone e le spille di rame buttati alla meglio nelle fosse sottili delle tombe, e di non aprirne più le porte. Le suore preferiscono abitare l’ala ovest, pur con tutto il crollo, che quella parte così affollata di chiostro.


È tornata. Ho l’impressione che non sia rimasta che una sola faccia di quella Sante.


Sarà questa funesta umidità a farla apparire, sorella.


Sarà.


Sedute alla tavola di spesso faggio, con le scodelle di zuppa che ticchettano sul legno come rispondendo a un messaggio da sottoterra, le sorelle scrutano le Sante che nei giorni appaiono tra loro. La più antica tra loro, morta vecchissima, bassa, forte, calva, non mangiava mai assolutamente nulla finché le altre a tavola non avessero finito. Il viso rosa si faceva color sangue se qualcuno osava negare l’offerta del giorno. Non riusciva né intendeva in alcun modo porre il primo morso al piatto finché la domanda d’assaggiare non fosse stata posta a ogni commensale, in senso orario o antiorario. I più giovani al tavolo, quando capitavano, avevano l’assoluta precedenza. La santa calva parla sottovoce in questa giornata umida, la luce grigia che entra dalle finestre fumose la fa apparire come una pentola borbottante, ha la posa delle spalle grandi curva, pesante di un pensiero, giocherella con il cucchiaio inesistente e rimesta zuppa vuota e si guarda le mani, che le dolgono. Tutto nel corpo duole alla santa calva, in effetti, e tutte le suore del monastero la rivedono ogni tanto, in qualche antica cella o in qualche stanza che ora è coperta da muri, guarire qualcuno da qualche malanno.
La santa calva aveva perso ogni singolo capello prendendo su di sé il dolore di tutte le creature del mondo, che erano passate proprio dal monastero. I capelli biondi si conservavano sull’affresco, in cui era dipinta come la più imponente, con i cerchi rossi sulle guance e due trecce spesse come tronchi. Gli ultimi di quei fili gialli li aveva persi con le trincee che s’erano scavate nelle campagne intorno infestate da morti e Matrone, da cui i soldati arrivavano nei lenzuoli infilzati e varcavano gli archi in cerca di sollievo.
La zia, come usava essere chiamata, aveva guarito per primo uno storpio della città, che di fronte a lei, prendendole le mani larghe e leggermente tremanti, s’era alzato dalla carrozzina e, da ultima, l’ultima sopravvissuta al popolo dei dolenti – perfino di tutti i cagnolini dei boschi intorno che aveva salvato dai cinghiali, delle trote nei torrenti sui monti più a est che venivano infilzate dagli orsi, del pollame nelle reti che ogni tanto s’ammalava di una febbre letale che la zia tratteneva tra le mani, la sua stessa madre. Quella donna sempre dolorante, più che centenaria, seduta al centro di una cella non più esistente, s’era anche scordata di morire e si sente cantilenare mai malata nelle notti immote, mentre la zia perdeva gli ultimi capelli, scomparsi come le erano nati uno a uno da neonata, e si fondeva con le mura del monastero, mezza edera guarente, mezzo effluvio balsamico che tuttora tengono in vita sua madre.


Le scodelle vengono poste al lavaggio e oltre la finestrella della cucina si vede passeggiare nel chiostro interno la dama vestita con l’abito di sole croci d’oro. È lei che ogni tanto ruba il cavalluccio terrestre, antico sigillo trovato nei boschi d’intorno con l’aspetto di un cavalluccio marino ma dal tocco terraneo, argilloso, con simboli di foglie e corteccia al posto delle squame. Sempre lei ogni tanto appare vestita coi pepli rosa, rubati chissà dove. Viene dall’ala est, dove soggiorna quasi sempre, anche se le leggende dicono che la seconda santa, quella con le guance rosa e i capelli scurissimi ai lati della fronte, sia stata sepolta nella caverna tumulo della necropoli vicina. È l’unica che ama vagabondare nei dintorni, fare dentro e fuori, perfino quando piove, quando il suo pregiatissimo abito di sole croci tintinna e scintilla e guida la via ai viandanti, come usava fare coi soldati che calavano dal cielo attaccati alle mongolfiere.


Era arrivata nel chiostro compiendo un miracolo familiare, liberando il marito dal lavoro. Ricoverato in una cella per una grave forma di febbre, lei l’aveva assistito e s’era data da fare per sdebitare il soggiorno, in verità cercando soldi che non avevano più per essersi venduti le proprietà e fuggire alla guerra. Aveva aperto la porta delle Matrone e s’era accucciata vicino al sarcofago dei leoni, trovato il sigillo del cavalluccio terrestre, toccato l’ocra ancora vivo e ci si era colorata le labbra. Sistemati un poco i capelli scuri, da quel giorno la sua divisa era divenuta un peplo rosa simile a quello delle statue e un grande grembiule blu da infermiera. Aveva coltivato l’orto del chiostro interno, immerso le mani nelle terre dei dintorni, cercato radici e tuberi che sminuzzava, tagliuzzava, sobbolliva e distribuiva ai soldati.
Per i primi tempi leniva se stessa con gli impacchi caldi e le creme analgesiche, cercando di rimettersi dalle sprangate del marito. Poi ci guarì la febbre di lui, che però non riuscì mai a rimettersi in piedi. La si vedeva sempre sul vialone d’ingresso al monastero col suo grembiule, circondato da floridi alberi che nelle primavere aveva ravvivato. La si vedeva anche la notte passeggiare per il chiostro interno col peplo rosa. Sola, cantilenava anche lei, si riposava dal duro lavoro di infermiera, si sedeva a tavola con le poche suore del tempo e anche lei non toccava piatto finché gli altri non mangiavano prima di lei. Sminuzzava la carne, quando c’era, in bocconi veloci, la risputava, ci andava a imboccare il marito. Si sedeva sul letto di legno, gli infilava i bocconi in bocca, e quello, giorno dopo giorno, assunse anche lui i segni del sigillo della dama: le gambe rannicchiate, aveva assunto la postura del cavalluccio terrestre, e qualche piccola fogliolina gli era nata sulla pelle screpolata con le squame morte del tegumento che s’erano irrigidite, facendosi simile a corteccia. Non più capace di percuoterla, si limitava a guardarla e masticare, preda di un qualche tipo di paralisi derivatogli dalla febbre che la dama non era riuscita a guarire.
Quando si fece tutto tronco, un alberello spesso e torto con ancora un’espressione cattiva, la dama si liberò del grembiule blu, lo piantò sullo stradone d’ingresso al monastero, unico tronco morto nel viale alberato, seppellendolo col suo cavalluccio terrestre, si ridipinse le labbra con l’ocra delle Matrone e, vestita con le sue croci preziose, smise infine di lavorare. Alcuni tombaroli la trovarono all’improvviso nella caverna tumulo della necropoli vicina. S’era trasformata in un’alta statua dal peplo dorato e bellissimi capelli ricci folti, incoronati di croci. Leggenda vuole che fosse stata l’unica Matrona sopravvissuta ai predoni, e integra, sebbene separata della testa, era giunta all’ala est.


Il pomeriggio è scivolato plumbeo, le preghiere del pomeriggio sono state sbrigate, le stoviglie del pranzo si sono asciugate con le ultime gocce cadute nel lavabo, si sente l’antica madre della zia cantilenare, la dama passeggiare preziosa nel chiostro interno, qualche spirito dei piani alti che litiga e ogni tanto appare dal cielo un soldato appeso a un lenzuolo, intrappolato nel suo ciclo eterno di guarigione. Il vento è freddo e forte, il tramonto sembra non esserci stato e la notte sembra solo aver infittito il suo viola.
La sorella si siede al tavolo insonne, accende la grande lampada verde, studia per un po’. Ad un’ora tarda, quando neanche la cena è stata rispettata dalle sorelle insonnolite e disperse nelle stanze, sente di nuovo il fango atterrare sull’affresco delle Tre Sante. Tra tutti gli spiriti è quello che le infesta di più. Tutte loro pregano solo per quella bambinetta e i suoi passi che svaniscono nelle notti. Alle volte, nei giorni belli, col sole che secca gli affreschi sulle lunette del colonnato e le piante nel giardino medicale, la si vede alla guida della sua bicicletta di legno.


La madre non solo non mangia mai finché gli altri non hanno finito, ma non mangia praticamente più. Compare solo in quell’ora della notte, completamente non vista, quando anche la dama torna alla sua caverna. Lontana dalla cena, dall’alba, dal giorno. Mette su il latte e si sente il pentolino caldo emanare il profumo dolciastro e accogliente.
La sorella mette giù gli occhialetti proprio quando la madre accende il fuoco in cucina. Quando il latte è bollente, appare il vagito. Compaiono i bambini. Decenni su decenni c’erano voluti a sostituire con la loro piccola ma persistente vita la morte che aleggiava nelle ali dei soldati. Arrivavano per essere abbandonati, per essere nascosti, diseredati, mai conosciuti, mai esistiti, ma con lei tornavano alla vita.


Li aveva allattati tutti, per prima sua figlia. La più giovane tra le tre sante, la madre era rimasta incinta giovanissima, a quindici anni, aveva partorito al monastero in gran segreto e aveva avuto l’impressione di non sapersi mai riconoscere in quella sua bambina. Questa piangeva, piangeva, era suo il vagito dell’ora più oscura della notte. Pensava di averla allattata per un tempo infinito, aveva pensato che non sarebbe mai stata sazia di lei. Così aveva preso ad allattare tutti i figli perduti che arrivavano in segreto nel colonnato. Più allattava loro, più sentiva di dover nutrire sua figlia, che non cresceva mai. Più allattava sua figlia, e i suoi piccoli seni duri rimpicciolivano, più aveva l’impressione di non riconoscerla. Alla fine degli anni, con quel latte inesaurito, aveva preso a riconoscere qualche dettaglio in lei. I capelli dapprima castani s’erano fatti rossi, come i suoi, com’erano dipinti nella terza santa dell’affresco, la più piccolina, con le guance aranciate e i ricci rossi. Le sembrava che gli occhi blu si facessero scuri goccia di latte dopo goccia di latte. E più cresceva più la riconosceva, ma non come sua figlia, ma come la sé di qualche anno prima.
Finita l’estrema goccia di latte, con tutti i neonati perduti svezzati e le pratiche di abbandono clandestine frenate dal governo, il miracolo s’era compiuto e la madre s’era rifatta bambinetta. Si era guardata negli occhi con la figlia uguale a lei, entrambe coi capelli rossi e gli occhi scuri, ed era svanita nel colonnato. Aveva cominciato a trotterellare inverno dopo inverno, le scarpette consumate riapparivano nella breve corsa nella stessa ora della notte in cui aveva riassunto le sue sembianze, e aveva cominciato il gioco. Circondata dai bambini svezzati che aveva salvato, appallottolava il fango del giardino e mirava al dipinto delle Tre Sante, intendendo cancellare i loro miracoli. L’affresco stava andando perduto ed erano settant’anni che l’umidità ne scoloriva i contorni. Sarà questa funesta umidità a farla apparire, si dicevano le sorelle. Sopravvivevano solo i capelli rossi e neri e le guance rosse di tutte loro, che mai toccavano il cibo prima che fosse stato offerto a ogni commensale del tavolo, in senso orario o antiorario.


Chi colpisce gli occhi della santa vince lo zuccherino! Era il gioco, e gli occhi delle sante erano stati i primi a sbiadire. La sorella rimette gli occhialetti sul naso e stropiccia i suoi. Si alza per prendere il libro contabile. Mancano alcune ore all’alba, tanto le vale avvantaggiarsi per trovare una soluzione al crollo dell’ala ovest, dove gli antichi soldati vengono inzuppati dalle piogge di questo freddo inverno.

Chantal Salvinelli

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