Eutheros – racconto di Giulia Panza

Eutheros – racconto di Giulia Panza

Non ci sono mostri, nel regno di Navia.
E quindi non c’è malattia, nel regno di Navia.
Solo Eutheros, il grifone bianco, strepita ancora nel cielo, talvolta, perché è volontà del Re che il popolo ricordi.
Ma sono voli cerimoniali i suoi, tragedie dall’esito prefissato in cui lui recita in due ruoli, e ogni nuova replica potrebbe salvarlo dall’obbligo della successiva.
Basterebbe che il Re, nel ruolo dell’Eroe-non-ancora-Re, sbagliasse mira, ed Eutheros sarebbe inutile vittima della rappresentazione di un sacrificio già consumato. Non basta che il Re gli prometta misericordia, perché la lama che usa nell’arena è vera, e promette sangue.
Così gli stridii di Eutheros quando interpreta la parte del nemico che attacca sono in realtà già le urla isteriche della preda braccata.
Così ogni volta che il Re, vestito da Eroe, finge di raccogliere il coraggio per sfidare la belva, e si volta verso di lui ruggendo, quello non è il grido disperato di un morituro, ma l’esplosione trionfante di un vittorioso.
E quando sente quel suono, il grifone bianco sa che è tempo di passare al suo secondo ruolo: mostro prigioniero, memento vivente del trionfo, sacrifico boccheggiante sulla sabbia dell’arena tenuto in vita per la gloria del Re, avvolto dallo strepito della folla e da reti metalliche che gli strappano le piume.
Poi è trascinato nei sotterranei dell’arena, e da lì a quelli del palazzo, condotto nella sezione dei giardini reali riservatagli, e allora, per un gioco ipocrita che riconosce e a cui si presta, liberato dalle reti.
Lì trova carne, poca e frollata, indice della sua sconfitta, e carne di un altro tipo, sempre poca, ma giovane e calda. La sua ultima vittoria. La figlia del Re.
La sua finestra affaccia sul luogo favorito per i suoi pasti, e lei ricama mentre Eutheros si insozza la bocca con il sangue rappreso.
A volte non riesce nemmeno a ricamare, e allora Eutheros mangia con gioia.
Non ci sono mostri, nel regno di Navia. Tranne lui.
E quindi non c’è malattia, nel regno di Navia. Tranne che nel corpo della principessa.

——

L’Altezza Reale Antea non partecipa ai festeggiamenti per l’anniversario dell’incoronazione del padre.
Il contatto con persone estranee potrebbe esserle fatale, dice sempre l’archiatra. Nessuno le ha spiegato cosa significhi quella parola, nonostante le sue ripetute domande, ma le reazioni della bambinaia e di sua madre la Regina sono sufficienti. Niente persone nuove nella sua stanza, e personale ridotto al minimo.
Era troppo piccola quando è successo, e non ricorda il trambusto che pure doveva aver accompagnato il suo trasferimento nell’ala del castello in cui vive ora. Sa, gliel’hanno detto, che è un’ala meno frequentata, più isolata. Dà su una zona quasi rinselvatichita dei giardini, al confine con il parco dei cervi. Anche questo gliel’hanno detto. Antea non ha mai visto un cervo.
Antea vede solo la bambinaia e tre serve, sempre le stesse. E il mostro. Il grifone bianco.
All’inizio le faceva paura. Nei suoi ricordi di bambina, il grifone attacca le guardie quasi ogni volta che le vede, e occorrono diversi uomini per intrappolarlo di nuovo. Poi gli attacchi si sono diradati, e la bestia deve essersi abituata alla cattività, ma ogni volta che lo avvicinano Antea vede sangue grondare sul prato in fiore.
Salgono ai suoi appartamenti vaghi echi della musica che anima i saloni. Il mostro tornerà a breve, deduce. Lo portano sempre via la sera prima dell’anniversario, e lo riconducono ai giardini quando iniziano i festeggiamenti. Accenna a seguire il ritmo della musica con la testa, che oggi le duole meno di ieri.
Talvolta pensa che sarebbe piacevole ascoltare le canzoni più da vicino, ma conosce bene le proprie limitazioni. Le scale le sono interdette, troppo ripide perché possa scenderle con agio, troppo strette perché possa essere accompagnata.
Non vuole più leggere, allora fa cenno alla cameriera che la aiuti a compiere il breve tragitto fino alla poltrona che troneggia davanti alla bifora che dà sul giardino, e che le porti il tombolo a cui si sta dedicando in queste settimane, nei giorni in cui le dita e i polsi tremano meno. Oggi non tremano quasi per nulla.
Ha puntato pochi spilli quando un rumore di ghiaia smossa la avverte dell’arrivo dei soldati e, come fa sempre, interrompe la propria attività per osservare la loro. Sono in otto, e trascinano un groviglio di reti metalliche che scintillano al sole. Non serve che le sciolgano perché Antea veda cosa nasconde. Ha osservato il grifone bianco così a lungo che potrebbe tracciarne il contorno a occhi chiusi, così a lungo che indovina il suo contorcersi come le se reti fossero invisibili. Sa figurarsi il suo ringhio, il suo becco dalla punta color ossidiana che tenta di spezzare la sua prigione, i suoi artigli che arpionano le maglie.
Trattiene il respiro mentre due soldati lo liberano dalle reti, gli altri appostati a distanza, le lance in pugno.
Neanche oggi li aggredisce. Rotola fuori dalla sua prigione temporanea e, come sempre, ancora prima di alzarsi le punta addosso i suoi occhi crudeli da predatore.
Le fa paura. Così paura che non può fare a meno di guardarlo.
Anche i soldati lo fissano per il medesimo motivo, e le sembrano un disegno di quelli che accompagnano i poemi epici sui cavalieri antichi, con l’eroe e i nemici che lo attorniano, e lui che trae coraggio e forza dallo sguardo della sua bella, la regina del torneo.
Si allontanano, piano, sempre rivolti verso di lui, finché il grifone non si avvicina alla carne preparata per il suo pasto, e mentre affonda il becco in quell’ammasso rosso e biancastro non somiglia più a un cavaliere,
D’altra parte, Antea non somiglia a una regina del torneo. Sa di non essere una fanciulla al pari delle altre. Le altre passeggiano nei giardini, sotto gli alberi da frutto, lei li guarda dall’alto godendo solo del profumo. Le altre saltano a ritmo di musica, lei fa ondeggiare appena il capo. Le altre non sono figlie malate del Re. Non sono l’ultimo difetto del regno.
Se le venisse chiesto, lei stessa rifuggirebbe dall’apparire in occasioni ufficiali, non saprebbe come comportarsi davanti a degli sconosciuti. Il mostro è stato il suo ultimo sconosciuto, e non ricorda da quanti anni condividono lo stesso frammento di cielo, chiuso tra il castello e la cinta muraria.
Perciò si accontenta di guardare il grifone, e aspetta il giorno in cui attaccherà di nuovo le guardie, con un qualcosa che non sa nominare che le si agita nel petto.

——

La principessa lo sta aspettando, come sempre. I suoi occhi su di sé, punte di lancia dall’alto. La principessa ha gli occhi scuri, vista dal giardino, ma Eutheros non fatica a figurarseli giallo slavato, di quella sfumatura che assumevano le iridi dei vecchi del suo stormo.
Non vede molto del resto del suo corpo, nascosto dietro il davanzale, ma deve essere quello esile di un cucciolo. È vecchia e giovane insieme, un bocciolo avvizzito.
Se avesse un muso morbido come gli umani, sogghignerebbe. Se il Re non avrà altri figli nel prossimo futuro, il regno potrà dire addio alla sua casata. Nessuno vuole sposare l’ultima invalida mai nata.
Quando era diventata donna, Eutheros aveva temuto l’avrebbero trasferita, ma dopo un viavai di pochi giorni dovevano aver deciso che sarebbe rimasta lì, nella sua stanza di bambina, a condividere i pasti con il prigioniero del Re suo padre.

Il giorno seguente per Eutheros è il capodanno della noia. Pochissimi animali osano avvicinarsi al suo territorio, e il Re non lo convocherà prima dell’equinozio di primavera successivo. Raramente porta ospiti – nobili stranieri, suppone, da impressionare con il suo prigioniero più temibile – in una sala dalle grandi finestre, poco lontano dalla stanza della principessa. Eutheros si diverte a non farsi vedere, in quelle occasioni. Sa che perderà i pasti successivi, e patirà la fame per alcuni giorni, ma vuole ricordare al Re che non è un suo suddito.
Anche quando si mostra di sfuggita, non vola mai. Si umilia troppo nel giorno del ricordo per donare lo splendore del suo volo alla corte in altre occasioni, così ora lo guardano solo la luna e le stelle. È attento a non volare troppo in alto, al di là della cortina protettiva degli alberi, e ride e piange per quanto in basso è caduto con le sue magnifiche ali. Le più possenti dello stormo, enuncia sempre il Re nel suo discorso di celebrazione; le più vistose e lucide, pensa Eutheros, a lode e maggior gloria del Tuo nome, per il bene del popolo e di tutto il Tuo vasto regno.
Avrebbe dovuto strapparsi le penne tempo fa. Avrebbe dovuto perlomeno nascondersi meglio, rotolarsi nel fango prima di gettarsi tra le rocce dove l’hanno circondato. Ma checché ne dica il Re, Eutheros è orgoglioso, non audace. È una scultura, un quadro, un monumento che non ha la forza di deturparsi. Forse non odia abbastanza il Re, forse è convinto che vedere la propria figlia avvizzire sia punizione sufficiente. Forse la vanità è un peccato che accomuna i due avversari nell’amore per delle piume color perla.
Scintillano sotto il sole mattutino, e lui tiene le ali aperte, tese, come fossero code di pavoni, mentre passeggia nel suo dominio-prigione. Non sa quando la principessa si sporgerà a guardarlo; alcuni giorni non accade, ma non vuole essere colto di sorpresa. Lei è l’unica il cui sguardo non gli dispiaccia.
La mattina passa senza che nulla accada.
Quando il sole è al suo picco, l’impensato: la porta del balcone si apre, e la principessa viene scortata fuori da due ancelle.

——

Pranzerà all’aperto, o non pranzerà affatto. Vuole vedere il mostro da più vicino possibile.
Il desco le viene preparato sul balcone. Mangia selvaggina mentre la bestia divora carne allevata gettatagli da una distanza di sicurezza, e ride di lui. E di sé, un poco. Ha dovuto discutere tutta la mattina con delle serve per ottenere di sedersi quattro passi più in là del muro, come se non fossero obbligate a obbedirla.
Il mostro finisce prima di lei, e le punta nuovamente gli occhi addosso. Antea trattiene il respiro, se non si muove non la attacca, un pensiero sciocco risalito dalle viscere. Un pensiero che contiene verità, a quanto pare, perché il grifone non spiega le ali, non fa forza sulle zampe, non si libra all’altezza del balcone.
La guarda, e basta.
Lo guarda anche lei.
Un altro pensiero sciocco, stavolta sceso dalla testa, la invita a presentarsi. Non crede il mostro capirebbe la sua lingua, e in ogni caso non emetterebbe altro che stridii in risposta. Eppure, mentre mangia distratta il dolce, qualcosa di morbido e fresco facile da inghiottire, si scopre a sporgersi oltre il balcone. Non può dire di essergli vicina, ma è più vicina del solito, e non c’è il vetro delle finestre a separarli.
Pensava fosse di un bianco uniforme, ma scopre che porta il suo stesso intrico di cicatrici, linee d’argento sottili che infrangono il candore della pelle e del manto. Ogni spina metallica delle reti, ogni tocco delle armi reali ha lasciato un segno sul mostro, ma a rovinare la sua pelle morbida sono bastati gli strumenti della cura. Aghi, lacci, quando era più piccola fasce per tenerla ferma perché non si alzasse dalla sedia e non si facesse male, e altri aghi. Aghi per prelevare e dichiararla carente in qualche aspetto, eccessiva in qualche altro, aghi per iniettare medicinali che sono sempre sembrati veleno a lei e al suo stomaco delicato, e poi per prelevare di nuovo, in altri punti, e vedere quanto fossero peggiorati i suoi polmoni deboli o migliorato il suo fegato recalcitrante.
Le dicono che senza mostri il regno è in pace, prospero e sano. Non le dicono, ma lo immagina, che è lei l’unico difetto del regno.
Lei e il mostro, in effetti. Quella bestia che insozza il prato e la ghiaia argentea con il sangue dei suoi pasti, che costringe gli uomini del Re suo padre a introdurre armi nel giardino, che mantiene viva, a corte e nelle campagne, la paura che un giorno esseri pari a lui possano tornare a devastare la terra e a oscurare i cieli, che lui stesso possa decidere di liberarsi dalla sua prigionia e ribellarsi contro il Re.
Deve odiarlo. Senz’altro lo odia.
Eppure, senza il mostro a guardarla sarebbe sola all’ultimo piano di quella torre da cui non può scendere. Senza di lei a guardarlo, il mostro sarebbe solo in quell’angolo di giardino a cui nessuno accede.
Nessuno di loro due ha scelto di essere lì, di vivere una vita a mezzo. Ha deciso il Re per entrambi. Due serve, una volta, si erano fermate a chiacchierare a mezza voce fuori dalla sua porta, e Antea aveva mostrato di non aver sentito. Dicevano che è colpa del Re, se la principessa è così malata, che se lui fosse un buon padre ammazzerebbe il mostro che causa la malattia di sua figlia.
Non ci aveva creduto. Sì, forse era colpa del mostro, e per un po’ l’aveva odiato con ardore sincero, ma lui sembrava innocuo, nel giardino a passeggiare, e a poco a poco si era dimenticata la sua rabbia. Ma non poteva certo essere colpa del Re suo padre, di un così probo sovrano.
Eppure, vedendo quelle cicatrici gemelle sul proprio corpo e su quello della bestia, sa che è vero. Che il Re suo padre avrebbe dovuto uccidere il mostro per avere una figlia sana, o uccidere lei per far morire lui. Lo sa nelle sue carni deboli, lo sa nella sua pelle ferita, così uguale a quello che in fondo è suo fratello.
Fratello, compagno di prigionia, osa sperare compagno di liberazione, forse, se riesce a comunicare, a convincerlo a volare sul suo balcone e a portarla via, lontano da lì, verso ovunque, verso il deserto o il mare o non importa, verso un posto dove morire dopo aver toccato la terra con i piedi e visto il mondo da vicino.
Inventerà un mal di capo, un’insofferenza per il lieve russare della serva che dorme ai piedi del suo letto, e la caccerà fuori. Poi uscirà sul balcone, e spera che il grifone la senta.

——

Quel fantasma in bianco e oro svanisce dopo aver mangiato cervo, ginepro, e qualcosa di zuccherino che deve avere origini lontane, poiché Eutheros non lo sa riconoscere.
Si aspettava odio nel suo sguardo, da degna figlia del Re, o paura, la stessa che legge negli occhi delle guardie e del pubblico. Invece vi ha trovato curiosità, interesse, finché un confuso, inspiegabile, sentore di gioia l’ha circondata ed è arrivato a lui.
Poi se n’era andata, tanto leggera che neanche il suo udito finissimo aveva distinto i suoi passi.
Il pomeriggio scivola tra le fronde senza che lui si alzi dal posto in cui si è sdraiato. Forse volerà, quella notte. Le sue ali senza esercizio si sono fatte deboli, e dovrebbe averne più cura.
Poi scivola anche il sole, e senza che Eutheros se ne sia accorto è l’ora delle candele, di quella nuvola di cera che ogni sera assalta il suo naso, persino a una tale distanza.
Quelle più vicine si spengono presto, e la stanza della principessa diventa una porzione di notte in terra.
Pare però che sia una notte agitata, poiché poco dopo ecco che una candela si accende di nuovo, poi sparisce.
Sono passate ore quando compare di nuovo, e tutte le altre si sono spente da tempo.
Sta ferma a lungo, poi ondeggia come uno degli spiriti del bosco tanto comuni quando Eutheros era un cucciolo. Sparisce e ricompare, e non è uno spiritello, ma un fantasma che apre la porta del balcone e che si accascia contro la balaustra, come se quei pochi passi fossero troppi da percorrere da sola.
La candela deve essere caduta a terra, poiché si è spenta d’improvviso.
«Mostro».
Snuda gli artigli prima ancora che la parola sia finita.
Il Re almeno lo chiama per nome.
Poi la principessa si mette a parlare di voli sotto la luna, di fuga, di morire del deserto e di sentire l’erba sotto i piedi, del fatto che sono entrambi prigionieri del Re.
Ah! Come se fossero due prigioni identiche. Come se la principessa potesse essere in grado di sopravvivere al di fuori di una reggia.
Lei continua, lui è come un cavaliere delle fiabe, lei venderebbe i propri gioielli per trovare una sistemazione e cibo per entrambi, lui potrebbe persino abbandonarla, non le importerebbe, purché la porti lontano da Navia.
La principessa è pazza.
«Ti prego».
Su queste parole la sua voce è rotta dal pianto. Da quanto tempo Eutheros non viene pregato di risparmiare qualcuno? Gli hanno tolto anche il piacere della caccia, e le sue vittime arrivano già macellate, senza neanche un sentore di quel terrore che provavano quando era lui a occuparsi del proprio cibo.
Lei invece… terrorizzata e speranzosa insieme, e piena di lacrime di cui lui vuole sentire il sapore.
Non sarebbe anche quella libertà? Non sarebbe una libertà migliore di volare via su ali deboli, con un’umana in groppa che lo tratta come cavalcatura? Non sarebbe la libertà massima, uccidere e mangiare e morire, e il suo corpo in pasto alla terra dopo un ultimo volo?
Sta continuando a balbettare, ma Eutheros non la ascolta più, mentre distende le ali e piega le zampe, e prega di essere ancora abbastanza forte da librarsi fino al balcone, che non è mai sembrato così alto come questa notte.
I muscoli disabituati al gesto non lo tradiscono, ma le articolazioni strepitano quando atterra davanti alla principessa.
Lei è in ginocchio davanti a lui, e sorride come dovrebbe fare una fanciulla a un ragazzo che le abbia chiesto di ballare, e non fa in tempo a cambiare espressione prima che lui affondi il becco nella sua gola, e gli artigli anteriori nella pancia.
È dolce, morbida. Ha un sapore meno intenso rispetto a suo padre, quella volta che Eutheros aveva assaggiato il suo sangue troppi anni fa, il suo sangue è più leggero e spumoso, e gli piace, gli piace da impazzire.
Lei lo guarda con l’espressione di chi non ha capito, e i suoi rantoli non sono più pesanti di un sussurro.
Con la zampa le strappa un pezzo di fegato grasso, e poi affonda di nuovo il becco, stavolta nella coscia della principessa, finalmente carne viva, pulsante, quasi zuccherina da tanto è tenera.
Non c’è malattia nel regno di Navia, ed Eutheros sa che quando lei morirà sarà la fine anche per lui.
Perciò ha cura di non ucciderla subito; vuole godersi il suo ultimo pasto fino all’alba.

Giulia Panza

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