La Frana, Salgemma e Cinabro – racconto di Giacomo Bencistà

La Frana, Salgemma e Cinabro – racconto di Giacomo Bencistà

Il Dipartimento imperiale dei lavori pubblici spedì Cinabro nella Marca orientale, una terra ricca di miniere di alluminio, cobalto e rame. Nella valle dove sorgevano i più importanti impianti estrattivi, ai piedi della montagna che era lo scrigno dell’Impero, incidenti e tragedie ostacolavano la produzione mineraria. Si trattava di eventi naturali – frane, smottamenti, bradisismi, scosse di terremoto, voragini affamate di corpi e di edifici, improvvise liquefazioni del terreno – ma la loro frequenza faceva pensare più a una cospirazione che alle meccaniche della natura. Per altro i rapporti che arrivavano dai funzionari in loco minimizzavano i fatti e escludevano sia il dolo sia la negligenza. Dopo i primi incidenti, quando si era ormai delineata l’eccezionalità dei fenomeni, l’Amministrazione aveva inviato nella valle Salgemma, ingegnera specialista di fondazioni e moglie di Cinabro, perché aiutasse gli abitanti a approntare le contromisure più efficaci. Pochi mesi dopo il suo arrivo, mentre studiava un costone della montagna, la donna era stata travolta da una frana: incapaci di ritrovarne il corpo, i valligiani l’avevano data per morta.
Scacciati i pensieri luttuosi, Cinabro partì insieme ai figli Ghiaietto, Breccetta, Ghiaino e Brecciolino e raggiunse la valle. Qua fu accolto con poche parole e gesti trattenuti: gli abitanti non nascosero la loro perplessità per quella che giudicavano un’intromissione in una faccenda del tutto sotto controllo.
Cinabro iscrisse i figli alla scuola della valle e impiegò i mesi successivi a preparare una ricognizione geologica della montagna. Una sera, mentre Cinabro compiva l’ennesimo tentativo di ricondurre la serie di grandi e piccole catastrofi alla struttura del tutto ordinaria dei suoli, i figli si fecero avanti e Breccetta gli rivolse la parola.
– Babbo, noi lo sappiamo perché la montagna aggredisce i valligiani.
Il padre, che aveva educato i figli alla discrezione e alla ragionevolezza, prestò ascolto con stupore alle parole.
– È colpa della Frana, la ninfa della montagna, che anni fa si è tramutata in una strega. Da allora si accanisce sugli abitanti.
Breccetta era una ragazzina seria e Cinabro conosceva bene, per gli studi fatti, l’influenza delle ninfe sul territorio; sapeva anche, però, che quelle creature si erano ritirate da secoli in regioni molto lontane dagli insediamenti umani. Del resto, le stesse prospezioni che non avevano fornito una spiegazione degli incidenti non gli avevano neanche rivelato presenze ipernaturali all’opera nella montagna.
– Ma figliola, non c’è traccia di ninfe nelle rocce.
– Perché la Frana è diventata una strega, te l’ho detto, e sta usando la montagna come strumento per colpire i valligiani.
– Perché farebbe questo?
– Tra i ragazzi si dicono cose strane…
– Che cosa dicono?
Fu Ghiaietto a rispondere.
– Parlano di una vendetta, babbo. Però non lo fanno volentieri. Sono solo mezze parole, allusioni. Con noi, poi, si sbottonano a malincuore: non ci hanno mai accettati e a mala pena ci tollerano; e quando parlano di te, scuotono la testa.
Cinabro raccomandò ai figli di tenere occhi e orecchi aperti e nei giorni successivi chiese a altri funzionari, ai dirigenti della miniera e ai comuni valligiani se sapessero nulla di una ninfa insediata nella montagna. L’unico risultato della piccola inchiesta furono sguardi sorpresi e l’invito esplicito a non preoccuparsi di cose fuori dal mondo.
Un giorno festivo i piccoli Ghiaino e Brecciolino si misero a giocare ai margini del bosco: procuratisi bastoni ben dritti, si divertivano con quelli a decapitare le felci mozzandone le foglie sommitali, ancora arrotolate e simili a dita di un bambino. D’un tratto il terreno si spaccò sotto di loro e Brecciolino fu inghiottito. Ghiaino corse a casa e avvertì il padre, il fratello, la sorella. Tutti insieme corsero sul luogo dell’incidente. Qua trovarono il crepaccio spalancato e nient’altro, ma dal fondo dell’abisso uscì la voce di Brecciolino.
— Venite, venite! C’è una sorpresa bellissima! Vieni, babbo! Venite tutti, svelti!
Cinabro vide che lungo la parete della fenditura si snodava un sentiero tagliato nella roccia. Si chiese se non fosse il caso di lasciare i figli dietro di sé e scendere da solo, ma considerò che le forze all’opera non permettevano a nessuno di essere al sicuro; fece quindi segno a Ghiaietto, Breccetta e Ghiaino di seguirlo.
La discesa durò pochi minuti: gli strilli di Brecciolino li accolsero in una vasta caverna piena di luce e di aria fresca.
— C’è la mamma! C’è la mamma!
Infatti Salgemma era lì, col figlio più piccolo abbracciato alle gambe.
Risero e piansero, come era prevedibile, poi vennero le spiegazioni. Ma prima emerse dalle rocce la Frana, simile a un’infiorescenza di cristalli, grigi e violacei, alta più di due uomini. La ninfa attese che a parlare fosse Salgemma.
L’ingegnera spiegò che cinque anni prima, quando i valligiani avevano cinto d’assedio la montagna al fine di impadronirsi delle sue ricchezze, la ninfa aveva stretto un patto con loro. Dalle viscere della terra avrebbero potuto estrarre ciò che volevano, ma a due condizioni: in primo luogo, la raffinazione del minerale doveva avvenire ai piedi della montagna, di modo che la ninfa potesse godere dell’opera di attuazione dei germi tellurici, così come altrove e in altri tempi altre oreadi avevano gioito della cottura dei calcari o del taglio dei cristalli; in secondo e più importante luogo, i valligiani non dovevano neanche azzardarsi a contaminare il dominio della Frana con greggi, coltivazioni, discariche di liquami corporei e altre tracce dello sfacelo vivente: perché un’oreade, è noto, tollera poco le forme animate e non tollera affatto la loro moltiplicazione. Dopo neppure un anno gli abitanti della valle avevano violato il patto: pecore e bovini formicolavano sui fianchi erbosi meno scoscesi; quelli più ripidi erano stati gravati di terrazze per la coltura di viti e di olivi; i cuccioli umani sciamavano ovunque. La Frana aveva manifestato la propria collera prima con brontolii del sottosuolo, poi con scosse sempre più violente, infine con gli atti di distruzione che avevano condotto nella valle Salgemma e Cinabro. La ninfa si era impadronita dell’ingegnera perché aveva riconosciuto in lei una presenza estranea alla contesa e sperato di farne un’alleata o almeno un’avvocata di fronte all’imperatore; poi, però, la sfiducia aveva minato la sua intenzione e la prigioniera era diventata una dama di compagnia. Salgemma non aveva perso occasione di parlare alla Frana del marito, il massimo geologo imperiale, che presto, a suo dire, sarebbe stato inviato nella valle per investigare sui fenomeni sismici.
— Noi possiamo aiutarti — disse Cinabro, dopo una breve riflessione.
Il silenzio della ninfa lo spinse a proseguire.
— I motivi della tua collera sono giusti, però devi dare una prova definitiva della tua potenza, altrimenti nessuno ti prenderà in considerazione; né darà ascolto a noi se esporremo le tue ragioni.
La Frana si rattrappì, fino a scomparire nella parete.
— Ci ha provato — disse Salgemma. — Ha provato a rovesciare l’intera montagna addosso ai valligiani, ma non ce la fa. La struttura è stata troppo alterata e non si raccapezza più.
— Io conosco i tracciati delle perforazioni e delle gallerie… — disse Cinabro.
— … quindi possiamo ricostruire lo schema statico della montagna — disse Salgemma — e determinare che cosa la tiene su e che cosa potrebbe farla crollare.
La Frana, tornata visibile, parlò.
— Lo fareste?
Salgemma e Cinabro si scambiarono uno sguardo, poi la donna si rivolse ai figli.
— Dobbiamo aiutarla?
— Hanno stretto un patto e loro l’hanno violato — disse Breccetta.
— Non vedo perché dovremmo preoccuparci di gente così egoista — disse Ghiaietto.
Ghiaino e Brecciolino corsero a abbracciare il padre e la madre, passando dall’uno all’altra.
Nei giorni seguenti Cinabro tornò in superficie e raccolse mappe, studi e prontuari; con quelli e l’aiuto di Salgemma spiegò alla Frana dove premere, dove tirare, dove liquefare e infine dove colpire.
Abbandonarono la valle che era ancora notte, così che nessuno potesse insospettirsi del ritorno di Salgemma. Mentre salivano al passo non volsero mai gli occhi indietro, neppure quando il lampo rosso dell’esplosione disegnò le loro ombre sulla strada e udirono il boato che li aggrediva alle spalle, li abbracciava e oltrepassava, indicava loro la via di fuga.

Giacomo Bencistà

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