L’ultimo giorno di Adamo – racconto di Edoardo Cenciarelli
Redazione2024-12-02T10:12:23+01:00Con rabbia calava quel sole. Quel sole vecchio di secoli, più vecchio di lui di un giorno, guardingo tratteneva l’esile trama della sera cercando di darle la forma ideale di una vigilia, cauto nel non lasciarla sfilacciare sulla piana brulicante di rossore, quella piana più vecchia del sole di un giorno. E domattina sarai un altro giorno? Perché sei arrabbiato con me? Perché diffidi del mio occhio, perché ti ci specchi e non ti riconosci, nella luce che ancora conserva del giorno che s’aprì su di te, quella luce mia sorella maggiore di una settimana? Questo pensava e non chiedeva, perché sapeva la risposta. Ché non può riconoscerti chi sempre ti ha conosciuto. Lui per sette ore conobbe tutto, una volta sola. Sette ore sono sufficienti perché non basti poi una vita a scordarle. Quasi un millennio è oramai questa vita, troppo breve per scordarsi ciò che mai si è saputo. Uno iato di coscienza questa vita, troppo lungo per non chiedersi se la domanda per ciò che si sa sia giusta. Troppo lungo perché non sia protratto in eterno, e allora è tutto ciò che hai questa vita, in eterno questa vita fino al suo ultimo giorno, e ogni giorno è troppo lungo perché prima che finisca non ci si possa domandare se è l’ultimo.
Ovunque andava cercando la domanda: nell’ululare dei palmizi, prostrati ad accoglierlo dal vento sulle alture del Sinai, nell’ultimo singulto di linfa estirpato dal legno ormai smunto, nel crepitio del calore sperso fra le dissonanze gelide del firmamento; nell’occhio inerte del vitello che posava sommesso il musetto nel suo palmo, nel belato lamentoso chiuso nel suo pugno, nel vibrare del gemito su per il suo braccio, nel tremare del suo corpo; nel tremare di tutta la terra deserta.
Sempre lui portava la domanda per tutta la terra deserta. In verità anche altri vagavano per la terra deserta, ma non portavano domande né risposte, e lui non pensava più a loro da tanti anni, e la terra deserta non pensava a loro, e loro mai pensarono a loro stessi, e la terra popolosa non lo sa ma li ricorda, perché furono forse gli unici uomini felici. Sulla terra tonda si trovano angoli dove sopravvive un soffio di suono; di lì la terra deserta si riempiva di musica, e lì gli armenti condividevano il sonno degli uomini al focolare. E a lui capitava talvolta, peregrino, di udire questa musica per la terra deserta, e immediatamente si allontanava, perché non era voce di uomo che voleva sentire.
Con paura calava quel sole. Perché mi rifuggi? Scendeva inavvertito, e lo fissava immobile nel diuturno sottrarsi di tempo, ingenuamente raggiante, troppo ingenuamente per defilarsi dimenticato per troppa evidenza, come una parola ripetuta fino a che perda ogni significato. Sei tu? mi temi forse? perché strisci via in cielo come serpe tra i sassi? Padre, guardami almeno, per Dio!… scusami, scusami… Padre, sei tu? sei tu quella striscia rossa? cercami tu, padre, io non posso cercarti anche se ti trovassi papà cercami cercami e posso essere trovato papà ma devi papà se non mi cerchi come so se mi hai trovato papà…
Era andato a cercarlo nel luogo dove sapeva di trovarlo, e per questo mai seppe se lo aveva trovato, ma solo che aveva trovato quello che cercava. Domattina sarai finalmente ieri?
Era tornato a Oriente, e riconosceva a ogni passo il lago che in notti di tempesta gli aveva fatto dono di copiosi rovesci della sua prole, e dalle cui acque il mattino seguente usciva avido, portandogli via i figli più preziosi; lo riconosceva nel rigagnolo boccheggiante che cercava riparo dall’arsura fra il pietrame sotto i suoi piedi. A ogni passo, i mammiferi che avevano svernato le fronde dormienti col loro sbadiglio a ogni ritrarsi d’ombre dal fiume; li riconosceva nella pelle con cui si scrostava la fronte dalla sabbia e dal sudore. A ogni passo, i rettili nati poche ore prima di lui, padroni di terra e orizzonte; li riconosceva nell’altura ossifera di antichissima morte, da cui spaziava la terra e l’orizzonte.
Vedeva da lassù un’isola verde, e udiva dietro la coltre arborea il canto degli uccelli imboscati. Fermo nell’eco di suoni, li sentiva piluccare nel profondo la cavità buia del suo cuore mentre le sue vene pulsavano nella terra sommersa. E sapeva d’intravedere, dietro il fogliame, il fico, che altissimo e muto si ergeva nelle giacenze del sogno che andava cercando da tutta la vita. O forse, il fico esisteva nel sogno perché esisteva sulla terra, e non viceversa – il fico che s’imbianca nel vento, come i fichi su tutti i crinali e in tutte le gole di tutta la terra. Appena la valle cominciava a imbiancarsi, lisciata come pelo di asino dalle prime sferzate lunari, si volgeva su un fianco e chiudeva gli occhi fino a mattino inoltrato. Sapeva che avrebbe potuto vedere lame di fuoco e piume nella notte: allora non ci sarebbe stato motivo per non rassegnarsi per sempre a una vita non sua. Dal giardino paterno era stato scacciato, e il giardino era in terra, e la terra tutta l’aveva adottato, e lo allattava dalle sue mammelle e lo carezzava dai prati in fiore. Ma il cipiglio del padre gravava ovunque sulle sue spalle, e la terra lo accudiva con pietosa rassegnazione di madre ad amare un figlio non più suo. Lui trafiggeva la terra e sentiva spezzarsi la vita dell’uccello che andava a beccare nella sua mano, perché sapeva che avrebbe avuto una vita per farlo: e la terra sapeva di sangue e odorava di morte, gli avvoltoi volteggiavano in carole lamentose e tutto ciò si vedeva. Sapeva, lassù, che era tutto ciò che avrebbe visto.
Accadde poi una sera che vide qualcosa che non sapeva avrebbe visto. Il cielo era nuvoloso e, nel buio della valle, intravide i contorni di un’ombra a oriente del giardino. L’ombra guardava qualcosa ai suoi piedi. Quando il suo sguardo si fu abituato al buio, riuscì a scorgere una piccola figura che ammonticchiava sassi ai piedi dell’ombra. A un tratto, come un lupo che si rizza al primo sentore di un agnello, l’ombra alzò il capo dalla terra e lo girò nella sua direzione, e così immobile stava avvolta dal buio. Uno squarcio di luna s’aprì tra le nubi, e vide al centro della fronte l’illuminarsi di una cicatrice. Un fremito si scosse in lui dalla terra. Quello restò così immobile, con la testa rivolta a lui, anche dopo che la luna scomparve di nuovo. Finalmente la figura riabbassò il capo a terra. Il bambino non fu mai distolto dalla sua opera. Lui scese. Tornò dalla moglie, che nulla gli chiese. Della figura che aveva visto, le tacque: perché sapeva che avrebbe voluto andare a riconoscerlo; ma era tanto tempo che la terra lo riconosceva come lei non poteva riconoscerlo.
Eva avvizziva in silenzio. Non le parlava, perché la riconosceva viziosa di gemiti e animalesca di calori. Il terreno fiorito a sangue del secondogenito di Eva era secco, e la passiflora avvizziva. Accadde poi su quel terreno che, in uno degli attimi in cui si conoscevano da sempre, il ventre di Eva fece frutto. La sua pelle era florida di nuovo. Il bimbo cresceva e i piedini pestavano la terra al battere delle mani di Eva. Lui lo teneva lontano dai dirupi. Eva si lasciava educare dal ragazzo alle vie del Signore. Lui camminava per la terra deserta. Eva accudiva Set, e a questi nasceva Enos, ed Enos veniva sulla terra con versi lamentosi. Eva vi distinse il nome di Dio. La terra iniziava a riconoscere il nome di Dio, e Adamo si allontanava e aspettava nel silenzio di Dio, perché la terra parlava e cresceva solo per bocca di uomini.
Con tristezza, il sole era scomparso dietro il monte. L’indomani, gli uomini avrebbero trovato proprio il mondo che, si sarebbero poi detti, stavano cercando; perché non sapevano che cosa cercare. Adamo, con antica memoria, chiudeva l’occhio sulla terra buia.
Edoardo Cenciarelli