Vita della contessa di *** e della piccola ruga vicino al suo occhio sinistro – racconto di Letizia Rigotto

"Il martirio di Santa Caterina", Joachim Patinir, 1515.

Vita della contessa di *** e della piccola ruga vicino al suo occhio sinistro – racconto di Letizia Rigotto

Avvenne un giorno che nacque la contessa di ***. Morta la madre in giovane età ed essendo ormai il conte troppo vecchio e addolorato per risposarsi, rimasto solo con quell’unica figlia, questi la crebbe fra tutti gli sfarzi che la sua rendita rendeva possibile: non c’era nessun vestito che quella, appena fatto desiderio di averlo, non trovasse nell’armadio la sera stessa; nessun anello, orecchino, collana o diadema che non possedesse; nessun animale, comune o esotico, che non fosse allevato nella tenuta paterna e con il quale non potesse intrattenersi per un paio di giorni prima di chiederne a gran voce un altro.
Ad un solo schiocco di dita servitori e cameriere abbandonavano ogni mansione, importante o secondaria, per accontentare i desideri della piccola contessa: e li si vedeva correre al mercato a implorare i fruttivendoli perché trovassero delle pesche a gennaio e delle zucche ad agosto; fare la fila dal sarto per restituire delle preziose stoffe comprate la mattina, ma che già al pomeriggio erano state liquidate come «vecchie e fuori moda»; sradicare le aiuole e abbattere le querce per ripiantare le orchidee e i salici che erano stati fatti togliere un mese prima.
Luoghi e persone, nella vita della piccola contessa, seguivano i tempi dei suoi desideri, si adattavano al cambiare veloce dei suoi gusti, delle sue convinzioni e del suo carattere.
Circondata da vizi, dotata di quel tanto di intelletto che le permetteva di comandare gli altri, la contessa crebbe nell’adorazione propria ed altrui, passando il tempo senz’altra preoccupazione che quella del proprio aspetto: e trascorreva le sue mattinate davanti allo specchio, senz’altro desiderio che quello di guardarsi, e anche durante tutta la giornata portava sempre con sé uno specchietto per potersi, di tanto in tanto, ammirare.
Centinaia furono i re, principi e i cavalieri che si buttarono alle sue ginocchia imploranti, rinunciando ad averi e titoli fra le lacrime, solo per un sorriso della contessa. Arrivati in alta uniforme su carrozze cariche di oro, scortati da carri straripanti di diamanti e rubini, li si vedeva ripercorrere la strada a piedi, senza nemmeno un abito addosso.
Al mercato e nelle mercerie, nelle piazze e nei porti, in ogni bettola della città si sussurravano le gesta dei pretendenti per conquistare la contessa: del duca di Wittelsbach di Baviera che le aveva fatto dono del tesoro sepolto di Atlantide e che, presentatosi al porto con trenta navi cariche di zaffiri, era stato bombardato e cacciato; dell’imperatore della Cina che, saputo il desiderio della contessa di visitare il paese, ma avendo troppo a noia il camminare nel fango, fece costruire una passeggiata in marmo che percorreva il suo intero regno da ovest ad est, la quale non vide mai nemmeno l’ombra del piede della dama che lamentava essere «troppo fredda, mi prenderei una polmonite»; dello zar di Russia che una sera, ad un ricevimento, si portò un punteruolo per il ghiaccio alla gola, dicendosi disposto a uccidersi in cambio di un guanto della contessa. Questa, invitandolo con un sorriso, si era sfilata il guanto, porgendoglielo, salvo poi riprenderselo appena lo zar si era accasciato a terra, affermando che «sarebbe proprio un gran peccato sprecare un così bel guanto per un uomo morto».
Per quando la contessa aveva vent’anni, non c’era casata d’Europa, d’Asia, d’Africa, d’America e d’Oceania che non avesse mandato le sue più grandi ricchezze insieme al proprio erede più promettente col compito di conquistarla.
Il conte, dal canto suo, poco poteva, voleva e riusciva contro la voluttà della figlia che, così simile alla moglie, eppure totalmente diversa, lo costringeva ad abbassare lo sguardo al suo passaggio, per non incorrere in pensieri di cui temeva di far parola anche al suo più fidato consigliere, e che col passare del tempo erano diventati così insopportabili che, pieno di vergogna, si era risolto a partire lasciando il comando e le ricchezze tutte a libero uso della figlia.
La contessa, nemmeno accortasi della partenza del padre, continuò la sua vita come aveva sempre fatto: misurava le stagioni in base agli alberi che decideva di far piantare in giardino, abeti d’inverno, ciliegi in primavera, palme d’estate e castagni d’autunno, e le settimane in base agli animali che in questo decideva di far pascolare, prima leoni, poi pinguini, poi pavoni, poi elefanti.
Accadde però un giorno che, mentre questa si guardava allo specchio, dopo due ore trascorse a ammirarsi lo zigomo destro, fra esclamazioni di stupore e meraviglia, che nemmeno lei poteva credere d’essere così bella, passando al sinistro scorse una piccola ruga vicino all’occhio.
Fece allora chiamare i migliori dottori, medici e chirurghi del mondo, ordinando loro di far sparire quel piccolo segno, e questi consigliavano e prescrivevano creme e unguenti, e tentavano operazioni e riti i quali, chi prima chi dopo, si dimostravano tutti inefficaci, così che quell’anno ci furono talmente tante condanne a morte che dovettero essere abbattuti tutti gli alberi della contea e impiegati per costruire forche.
Da parte sua la contessa, notando con orrore che la piccola ruga non solo non spariva, ma che a quella se ne aggiungevano altre, giorno dopo giorno, vicino alla bocca, intorno agli occhi, perfino sul collo e sulle mani, prese ad indossare quantità di trucco tali che ad ogni settimana era necessario spedire una flotta in India, una in Francia e una in Giappone per ricomprare i prodotti.
Quella che la contessa credeva essere la soluzione divenne però il problema maggiore, poiché la sua pelle, prima candida e liscia come un vaso di porcellana, sotto la pesante mole di trucco divenne sempre più secca e rattrappita, così che invece che ringiovanire, la contessa sembrava invecchiare ancora più velocemente, e a trent’anni dimostrava più del doppio della sua età.
E non passò molto tempo prima che ai commenti di ammirazione si sostituissero risa di scherno, perché certo la contessa, così conciata, faceva dubitare di essere mai stata bella, e così quando camminava per le strade le donne che prima la invidiavano le sorridevano perfide e gli uomini che prima la ammiravano giravano lo sguardo disgustati.
Anche quei re, principi e cavalieri che prima si erano spinti alle azioni più folli e grandiose per attirare un solo sguardo della contessa, all’arrivo delle buste con gli inviti ai suoi ricevimenti, che una volta erano soliti aspettare per mesi, sotto la pioggia o sotto il sole, negavano contriti di averci mai avuto a che fare e mandavano i servitori a riferire che non fossero mai più spediti.
Rimasta dunque sola, ma ancora molto ricca, la contessa, il cui passatempo preferito era divenuto il più grande dolore, fece allora chiamare i più rinomati pittori olandesi e ordinò loro che la ritraessero com’era da giovane su ogni specchio, posata, vetro e finestra, così che ogniqualvolta questa avesse voluto vedere il suo volto non ne sarebbe rimasta inorridita.
Per mesi allora si videro intorno al palazzo, appesi sui tetti e fin dentro le cucine, artisti che, ricoperti di pittura fin sulla cima delle orecchie, dipingevano il ritratto della giovane contessa su qualsiasi cosa potesse riflettere la sua immagine, dai pavimenti in marmo fino ai cucchiai in argento, così che quando il lavoro fu terminato nell’intero castello non c’era una superficie dove non apparisse il volto della contessa.
Tuttavia, anche questa soluzione divenne dopo poco tempo un problema perché la contessa, all’inizio grata di rivedere quel bel volto che non aveva risparmiato nessun uomo sulla terra, ben sapeva che oramai il suo aspetto non era più quello da molto tempo, e se all’inizio si fermava davanti a quelle immagini ammirante, dopo un po’ non poté più sopportarne la vista, che sembravano di stanza in stanza, di cassetto in cassetto, sbeffeggiarla.
Coperti dunque i ritratti, la contessa rimase rinchiusa nel suo palazzo per talmente tanto tempo che in città si iniziò a pensare che fosse morta, finché un giorno la si vide, «tutta gobba e piena di cenci, che pare una mendicante», dirigersi verso l’abitazione di tale uomo, la cui fama voleva che avesse aiutato un giovane figlio di fabbro, povero e non bello, a conquistare tramite un filtro una principessa di così alto rango che ora era diventato re di Svezia.
A questi, appena entrata nella sua casa, ordinò di darle una pozione che le restituisse il suo aspetto di quando aveva vent’anni. L’uomo, che mai nulla aveva negato a nessuno, ma che mai nulla a nessuno aveva dato gratuitamente, eseguì l’ordine e preparò il filtro. Recatosi dunque al palazzo della contessa, raggiuntala nella camera dove lo aspettava seduta in poltrona col volto coperto, le allungò la boccetta col rimedio e, vedendo la mano di lei che, rugosa e svelta, usciva dalla lunga manica per afferrarla, le disse: «Bevendo questo filtro, mia contessa, tornerete bella come eravate da giovane, e mai una ruga apparirà sul vostro bellissimo volto». Poi aggiunse: «Badate però che nessun occhio, né vostro né altrui, vi veda mai, altrimenti a nulla servirà questo mio rimedio e invecchierete di cent’anni in pochi giorni».
La contessa, che non aveva ben capito cosa le si chiedesse in cambio, accecata dall’idea di poter tornare bella come una volta, bevve in un sorso solo il filtro e cadde in un sonno profondo. Quando si risvegliò, subito volle vedersi allo specchio ma, non avendone più nessuno in casa, che tutti avevano ancora dipinto sopra il suo ritratto, si aggirò per tutto il palazzo cercando una superficie che potesse permetterle di vedersi. Per giorni vagò, di stanza in stanza, avvicinando il volto ai pavimenti, cercando di intravedere che aspetto avesse, finché si ricordò delle parole che l’uomo le aveva detto. Colta dal terrore di poter invecchiare di nuovo, si allontanò dalle pareti e si coprì gli occhi con le mani, che per nessuna ragione al mondo voleva tornare ad avere quell’aspetto. Visse così per mesi, nel timore di poter cogliere per sbaglio un suo riflesso da qualche parte, fino a quando lo stesso timore la spinse, una mattina, a prendere uno dei cucchiai su cui era dipinta la sua faccia e cavarcisi gli occhi, così che mai avrebbe potuto neanche lontanamente rischiare di cogliere anche solo un centimetro della sua candida pelle.
Da quel giorno così se ne sta la figlia del conte di *** nel suo palazzo, a vagare a tentoni per le stanze ormai vuote, poiché certo anche gli ultimi servitori se n’erano andati, toccando le pareti per capire dove si trovasse, sedendosi qua e là a riposarsi e, di tanto in tanto, passandosi le dita sugli zigomi, così lisci e morbidi al tatto, che non poteva fare a meno di sorridere e meravigliarsi, che da tutta la città, affinando bene l’udito, la si poteva sentir dire: «Oh, ma che bellezza!»

Letizia Rigotto

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