Strega PiccoloAlbero – racconto di Francesca Mattei
Redazione2024-03-28T06:55:11+01:00Ho avuto una figlia, anzi non l’ho avuta. Mi è morta nella pancia. Ma va bene, perché non la volevo. In verità la invidio perché volevo morire anch’io. Nella mia pancia. A partire dalla mia pancia.
Voglio morire perché è meglio di scappare e voglio scappare perché è meglio di venire catturata e torturata e violata e mai ammazzata. Loro vogliono prendermi, ma mi vogliono viva, perché sanno quanto valgono i miei capelli.
I miei capelli li taglio ogni giorno e sono calva. Durante la notte ricrescono. In inverno sono rami secchi, senza foglie né insetti. In estate sono fronde verdi oppure fiorite. Tutti al villaggio odiano la mia testa, quindi mi chiamano strega. Alle donne non piace perché ricorda loro che devono invecchiare – e morire. Agli uomini non piace perché sembro una cosa viva. Mi chiamano strega per questo. La strega PiccoloAlbero.
Vivo nel bosco dentro le grotte come i pipistrelli, dentro le tane come i conigli, dentro i tronchi degli alberi come le civette. Mi nascondo. Ogni tanto qualcuno mi trova. Se è una donna corre al villaggio per dare l’allarme, se è un uomo mi spoglia e mi mette una figlia dentro. Poi cerca di trascinarmi via, ma fino ad ora sono sempre riuscita a scappare. Sgattaiolando fuori dalla carrozza in corsa, o correndo, oppure arrampicandomi tra i rami di qualche albero. Molti di questi uomini mi hanno semplicemente lasciata andare. Erano soli e avevano avuto quello che volevano. A volte erano ubriachi o stanchi e non avevano voglia di lottare.
Ogni mattina c’è qualcosa di nuovo sulla mia testa. Nuovi rami o piante o cespugli. Cerco il mio riflesso nello stagno per capire come liberarmi di loro. A volte ci rinuncio, rimando al giorno dopo. Tanto ricresceranno ugualmente nella notte. O forse ancor prima.
Da qualche giorno vivo in una radura isolata, abbastanza difficile da raggiungere per i cacciatori o i raccoglitori di funghi. Mi sveglio taglio o non taglio i miei capelli. Mi procuro del cibo, se fa freddo accendo un fuoco e ci cuocio sopra qualcosa. Non so come sia la vita degli altri esseri umani, al villaggio, ma fino a quando sarò al riparo da loro sarò salva.
Una notte esco dall’incavo dell’albero che è la mia casa – al momento. La luna è piena e argentata. La luce fredda si riflette sulla superficie delle pozzanghere. È tutto buio e luminoso al tempo stesso. Il bosco ha un respiro sincopato che preannuncia qualcosa di strano. Mi accovaccio sotto le fronde di un arbusto. Ed è allora che scorgo la volpe.
La prima notte passa veloce senza neanche vedermi – o guardarmi.
La seconda notte annusa l’aria. Arriccia il naso nero girando il muso da una parte all’altra.
La terza notte fiuta le mie tracce.
La quarta notte si avvicina. Mi vede oppure mi sente. Fa scricchiolare le foglie ormai secche sotto i suoi passi.
La quinta notte mi porta una gallina morta. E attende.
Il mattino seguente, all’uscita della mia tana c’è un uomo addormentato. Ha capelli, barba e sopracciglia fulvi e un collo sottile macchiato di sangue rappreso. Stringe tra i denti una gallina bianca sporca del suo stesso sangue. Lo scavalco senza svegliarlo, per guardarlo dall’alto. Ha una corporatura nervosa, gli occhi, chiusi, hanno lo stesso taglio di quelli di un molossoide. È nudo, magrissimo, come un animale randagio. Dorme supino, come un morto. Mi nascondo per osservarlo da lontano. È bello in un modo in cui non ho mai pensato potesse essere bello un uomo. Quando si sveglia si mette a sedere. Rabbrividisce, si guarda intorno e non mi vede. Deposita la gallina davanti all’ingresso della tana, con la bocca. Si asciuga le labbra con dorso della mano, ma il sangue è secco e le mani sporche di polvere. Ora è solo un uomo sporco e nudo in mezzo a una foresta. La attraversa di corsa e si lascia tutto alle spalle. L’albero, il cadavere della gallina e, con loro, anche me.
Uomo torna ogni giorno. Mi fiuta, guardingo, come se fosse una volpe. Quando arriva di notte, Volpe mi cerca voglioso, come se fosse un uomo. Per un po’ ci guardiamo da lontano, seduti l’uno di fronte all’altra. Smetto di tagliare i capelli. Adesso quando c’è il sole indossa i vestiti. Sono larghi, sul suo corpo piccolo e lungo. Nonostante abbia occhi da uomo, non fissa mai i miei capelli, anche quando qualche piccola pigna mi cade dalla testa e rotola verso di lui, a dieci passi da me. Qualche volta ne raccoglie una e la mette nella sua bisaccia. Nonostante abbia occhi da animale, non cerca mai cibo tra le mie fronde. Passeggia avanti e indietro, infila il muso in qualche buca del terreno e poi si siede nello stesso punto che occupa di giorno. Quando il sole sta per sorgere, mi volta le spalle e se ne va in direzione del villaggio. Immagino che dopo tutto sia lì che vive.
Dopo tredici notti parlo a Volpe.
Ehilà, dico. E Volpe non si muove. Flette soltanto un po’ l’orecchio all’indietro e inclina la testa in modo quasi impercettibile. Allungo una mano sopra il capo e stacco una foglia dal sambuco che lo ricopre.
Tieni, è un regalo. È tutto quello che ho.
Volpe non si avvicina, ma scatta in piedi e così resta. Per ore. La notte avanza e la luna scompare. È piccola adesso. E nascosta. Al buio non vedo più niente, solo la sua sagoma immobile. E nera.
Uomo è il primo uomo di cui non ho paura. Forse perché la prima volta che l’ho visto dormiva. Aveva un cadavere tra i denti e la faccia coperta di sangue, ma almeno non era il mio. Tutti gli uomini che ho incontrato prima di lui hanno provato a catturarmi, a portarmi al villaggio. Se sono arrivati di notte, è stato per scoprire cosa si prova a infilarsi nel giaciglio di una strega. L’ultimo uomo che mi è entrato dentro era molto giovane, forse appena un ragazzo. Aveva la barba a chiazze, corta e chiara. Si è introdotto con una torcia dentro la grotta nella quale dormivo e mi ha svegliata nel cuore della notte.
Adesso vediamo se sei un’erbaccia resistente, ha detto.
E poi ha tirato l’edera che ricadeva dalla mia testa lungo il collo e le spalle, ma più la strappava, più ricresceva. Si avvinghiava alla nuca, mi ricopriva. L’ha usata per legarmi. La torcia si era spenta, era buio e freddo e lui si muoveva sopra di me. Quando se ne è andato sono scappata, perché sapevo che il giorno dopo sarebbe tornato con i suoi compagni per stanarmi. Fanno tutti così. Anche lui mi ha messo dentro una figlia, che per fortuna è morta prima di nascere una mattina d’inverno. All’improvviso sotto e dietro di me c’era sangue, sopra la neve.
Il ragazzo giovane l’ho rivisto una volta aggirarsi per i boschi con il suo fucile. Non cercava me, come preda, ma forse qualche lepre o uccello da arrostire. Alla luce del giorno sembrava ancora più piccolo. Un bambino. L’ho guardato dalle fronde dell’albero con il quale mi mimetizzavo. Avrei potuto colpirlo alle spalle con un masso. Il suo cranio minuscolo si sarebbe spaccato come un filo d’erba. Ma poi con il suo corpo non ci avrei fatto niente di niente. Si è allontanato, calpestando il muschio senza fare rumore, con degli scarponi enormi per la sua statura. Chissà quale animale ha ammazzato, quel giorno.
Una notte Volpe si avvicina. Mi annusa le mani e il viso. Si distende a fianco a me, ma è diverso da tutte le volte che qualcuno è entrato dentro di me. Le parlo lentamente, come potrei parlare solo a un animale. Ha il pelo umido, ma non accendo il fuoco perché siamo troppo in vista ed è quasi mattino. Prima che il sole sorga, Volpe si alza e se ne va. Quando Uomo torna, io sono in riva al lago. I miei capelli sono una pianta di giunco a spirale.
Si avvicina e io non scappo. Si accovaccia a un palmo da me. Puzza di fumo e di sudore, forse mi ha cercata a lungo e nell’attesa ha allestito un falò. Dalla borsa consumata estrae le mie pigne e la foglia di sambuco. Spiana il terreno melmoso e le dispone di fronte a sé. Una ad una le lancia nel lago. Prima di gettare una nuova pigna, aspetta che i cerchi creati dalla precedente si richiudano. Non mi guarda mai e invece io lo guardo sempre. Per ultima lascia la foglia. Da lontano arriva il rumore di passi e poi qualche sparo. Sono i cacciatori. Sussulto e scappo, mi nascondo in una tana che ho costruito la notte scorsa. Il sole diventa rosso e poi tramonta e anche quando è tutto scuro non mi muovo. La tana odora di urina. Mia e di altri animali. Quando a notte fonda torno sulla sponda del lago, né Uomo né Volpe sono nei paraggi. Chissà che ne ha fatto della foglia di sambuco.
Da quel giorno Uomo prende a parlarmi. Mi porta delle provviste, anche. Castagne, cacciagione cruda o cotta, frutta coltivata a valle. Mi racconta del villaggio. A volte i paesani mi cercano, a volte hanno altro a cui pensare, come una festa di paese, le nozze del questore, oppure una nuova strega da bruciare. Inizia a interessarsi ai miei capelli a poco a poco, come se li notasse per la prima volta. Quando sono pini sempreverdi li annusa. Quando sono piante infestanti le pota.
All’ora del tramonto si allontana. La sua schiena stretta si fa sempre più piccola. Un uomo che torna nel mondo degli uomini. Poco prima dell’alba arriva Volpe. Giacciamo insieme e appena il cielo si fa chiaro corre via. Quando Uomo scopre che tutte le figlie che mi hanno messo dentro sono morte senza mai uscire dalla mia pancia, si fa pallido.
È la cosa migliore che potesse succedere, gli spiego.
Ha gli occhi stretti, la barba mossa dalla prima brezza primaverile. Si è tolto il cappotto di lana e arrotolato le maniche della camicia. Ha lasciato scoperto un braccio bianco. Mi viene da toccarlo ed è morbido. Guarda la mia mano sporca sul suo polso pulito. Quando il cielo si arrossa, sfila il suo avambraccio dalle mie dita, si riveste e se ne va.
La quarta figlia morta non so di chi fosse. Mi sono entrati dentro in tre, quella notte. Non mi hanno catturata perché erano ubriachi. A cose fatte si sono addormentati. I miei capelli erano un cespuglio di rovi, quindi c’era il loro sangue insieme al mio, sul pavimento del casolare dove mi avevano portata. Neanche loro ho ucciso nel sonno, volevo solo andare lontano. Sono uscita dalla porta d’ingresso, come se non stessi fuggendo. La figlia è morta quasi subito, senza farmi troppo male.
Ma forse mi confondo, forse era la quinta o la sesta. Non so.
Un giorno d’estate Uomo arriva quando il sole non è ancora alto nel cielo.
È il momento di lavarli, dice.
E mi conduce al fiume.
Il rumore dell’acqua che scorre sovrasta ogni cosa: il gracchiare delle rane, il ronzio delle mosche e delle libellule e noi dobbiamo urlarci contro, per poterci sentire.
Mi fa immergere la testa nel torrente. È gelido e vedo tutto all’incontrario. Friziona la mia cute, che al momento è un cespuglio di pitosforo e io chiudo gli occhi. Quando mi rialzo i miei capelli sono solo capelli. Bagnati e neri, come quelli di qualsiasi altra donna.
Una volta ho fatto un sogno. Una delle figlie che avevo dentro di me nasceva, ma me la ammazzavano subito. Dopo tutta quella fatica e quel sangue. In qualche modo, nascendo, aveva rischiato di uccidere me.
Ora che ho perso la parte migliore di me, non devo più nascondermi. Uomo mi chiede di andare al villaggio con lui. Tutti potranno vedermi e accettarmi e nessuno vorrà farmi del male.
Ora che ho perso
tutto
posso entrare nel mondo degli uomini.
Il villaggio lo vedo per la prima volta da dentro. Da lontano sembrava piccolo, affollato. Aveva la forma di un pesce. Ora che ci passo attraverso, le piazze sono larghe e gremite di persone. Le donne trasportano delle ceste piene di cibo o vestiti o bambini. Gli uomini lavorano dentro le botteghe oppure bevono alla locanda. La pietra con la quale sono costruite le strade emana un calore intenso.
Qualcuno mi vede e mi riconosce. Un gruppo di ragazzini lascia le biglie e prende a seguirmi. Mi toccano i capelli.
Cosa è successo alla strega PiccoloAlbero?
Uomo mi prepara un giaciglio di felci, muschio e foglie secche dentro la casa nella quale vive. È un’unica stanza con un tavolo, una stufa, un camino e uno spazio per dormire. Non so cosa succederà questa notte. Se sarà Volpe oppure no. Non lo scopro perché mi addormento presto. Mi risveglio con la luna bassa nel cielo, incorniciata da una finestra stretta. Una luna che non ho visto mai. Esco e scappo, come tante volte sono scappata.
Volpe è nel bosco. E lì giacciamo insieme, senza neanche nasconderci.
Ho convissuto così a lungo con la vergogna, che ho dimenticato come si fa a stare senza – o forse non l’ho mai saputo. Adesso devo fare a meno della vergogna. E del mio Orgoglio.
Volpe non è più tornata. E nemmeno Uomo.
L’ultima notte che abbiamo trascorso insieme ci siamo addormentati. Al risveglio era nudo, umano, sdraiato accanto a me. Dormiva come la prima volta che l’ho visto. Si è svegliato anche lui e mi ha accarezzato i capelli, soddisfatto. Era felice di trovarli lì dove dovrebbero stare. In fondo anche lui voleva solo essere rassicurato. Toccare qualcosa che conosceva, che aveva fatto lui.
Di notte è un animale, ma di giorno è pur sempre umano. Di notte è una volpe, ma di giorno è pur sempre un uomo.
Poi la sua espressione è cambiata. Ha semplicemente detto Se non vieni al villaggio con me non posso più fare niente per te.
E quando è stato chiaro che non me ne sarei andata dal bosco, Uomo ha abbassato lo sguardo sussurrando Sei un’ingrata.
I capelli li stacco a ciocche, un po’ ogni giorno, nella speranza che al loro posto crescano dei boccioli. La foglia di sambuco non so che fine abbia fatto. Ormai la parte carnosa si sarà consumata e non sarà rimasto che lo scheletro.
Certo Uomo – o Volpe – non è più tornato nel bosco, o almeno non si è fatto vedere. Forse è partito, forse vive ancora nel villaggio pieno di ragazzini e ceste e piazze. Ma prima di andarsene anche lui mi ha messo dentro un Figlio.
E lui non muore.
Francesca Mattei