Una sposa per sette fratelli – racconto di Laura Scaramozzino

Una sposa per sette fratelli – racconto di Laura Scaramozzino

Si guardò allo specchio e si vide vecchia. Troppo rosso sulle labbra e sulle guance. L’abito da sposa le rimandava un riflesso sanguigno.
Sospirò.
Genien le premette una mano sulla spalla. Era umida e calda come l’estate che incombeva sulla pianura.
Non si dissero nulla. Il palmo della madre la spinse fuori, sulla strada di terra battuta che separava il villaggio da quello dei futuri sposi. Il carretto l’attendava. L’asino e il cocchiere immobili come i ninnoli sopra le mensole della cucina.
Mei avanzò e si protesse l’abito con le mani aperte. C’era vento e la polvere si alzava da terra. Seccava la gola e lordava i tessuti.
Salita sul retro del carretto coperto, l’oscurità l’avvolse. Odorava di tessuti smessi e legno marcio.
Nell’attimo stesso in cui si adagiò, il pianto improvviso di Genien deflagrò poco distante. Mei immaginò la madre gettarsi a terra e gridare come un maiale sul punto di essere sgozzato.
Non si stupì. C’era sempre il buio prima della luce. C’era sempre il pianto prima della festa.
Così partirono e, di tanto in tanto, sobbalzarono sullo sterrato. Mei pensò al giorno in cui i genitori erano tornati prima dai campi. L’aria cupa dei contadini quando le alluvioni si abbattono sulle risaie.
Il padre si era lisciato il mento e l’aveva fissata. «Devi andare in sposa», aveva sentenziato con tono grave.
Mei si era punta il dito con l’ago del ricamo e aveva trangugiato un grumo di saliva. «Quanti?»
Genien le aveva mostrato le dita. «Sette».
Mei serrò gli occhi. Si chiese se in quel frangente fosse svenuta per la vista del sangue o per la notizia del matrimonio imminente. Sapeva che prima o poi sarebbe accaduto. Aveva gli stessi anni di Tami, diciassette. Al villaggio c’erano molte sue raffigurazioni. La semidea portava i capelli lunghi fino alle caviglie. Era pallida e dipinta con le labbra all’ingiù. Tutti avrebbero dovuto sapere e ricordare; raccontare degli uomini gonfi di vino che l’avevano presa con la forza. Rammentare che nascessero pochissime donne e che gli uomini fossero in sovrannumero. Nuda e bianca, nel ventre scuro del bosco, la semidea aveva tuonato: Possano molti maschi dannarsi per una femmina sola.
Dentro le aule di scuola, nelle piazze dei mercati e nelle bettole. Nelle nicchie dei cimiteri e nelle drogherie. Nei templi e durante le celebrazioni. Ovunque si andasse la storia di Tami parlava del passato e del futuro dei popoli dei villaggi.
«Possiamo accettare qualunque cosa, se sappiamo da dove arriva», l’aveva consolata Genien quella mattina. Mei aveva indossato il vestito rosso e si era truccata.
Uno per ogni giorno della settimana. Un uomo diverso a notte. Tutti simili e differenti, cresciuti con lo stesso latte e nati dal medesimo sangue.
Mei non domandò a Genien se i fratelli, di solito, avessero lo stesso odore buono o cattivo. Se con il tempo li avrebbe percepiti come appendici di un unico grande organismo.
Nel frattempo il carretto viaggiava e Mei teneva gli occhi chiusi. Si fece cullare dal dondolio regolare e si addormentò.
A un tratto una mano gonfia le scosse una spalla e la destò. Mei si stropicciò le palpebre. Intravide una sagoma tondeggiante nella penombra. Ne udì la voce sonnolenta e greve: «Benvenuta nella tua nuova casa».
Mei le dette la mano e insieme scesero dal carretto. Il cocchiere attese che fossero sulla soglia di casa, incitò l’asino e ripartì.
Di fronte alla facciata color sabbia, Mei ebbe un tuffo al cuore. Si voltò e vide la strada vuota. Polvere e silenzio. Allora si accasciò, aggrappandosi al braccio polposo della donna. Muta e impietrita come i grandi vasi addossati davanti all’ingresso della casa.
Entrarono e per poco non svenne. Erano tutti lì, come i gradini rozzi di una vasta scala. Dal più piccolo al più grande. L’ampia sala puzzava di pesce.
«Io sono Hilo».
«Io sono Nupi».
«Io sono Suno».
«Io sono Mizo».
«Io sono Cumi».
«Io sono Dali».
«Io sono Giamu».
La donna che l’aveva stretta fissò lei e i ragazzi. «Dov’è il sacerdote?»
Da un angolo della stanza spuntò un uomo con la bocca piena. Mei si accorse che dietro i sette fratelli, c’era un lungo tavolo imbandito. Era cosparso di ciotole di riso e pesce essiccato.
Con la punta della lingua, l’uomo si ricacciò in bocca la coda di un’aringa affumicata. Osservò Mei dall’alto in basso e sorrise compiaciuto. «Siamo pronti, tutti pronti per la bella cerimonia» dichiarò.
La donna grassa la spinse in mezzo ai sette figli. Ciascuno di loro inclinò la testa sul collo e la fissò. Avevano gli stessi nasi larghi e le frange nere sugli occhi. Il più basso odorava di riso bollito. La pelle chiara dei chicchi.
Il sacerdote batté le mani e chiese attenzione. Barcollava e sapeva di liquore.
«Celebriamo, svelti, celebriamo e festeggiamo!»
La donna, tonda come un cespuglio, pianse. Si asciugò gli occhi con il grembiule e annuì.
La cerimonia durò pochi minuti. Nel mezzo della formula sacra, il sacerdote biascicò e fece oscillare il capo sul petto. Quando Mei e i sette mariti si affaccendarono al tavolo per festeggiare, udirono un suono cupo e montante. Si voltarono all’unisono e videro l’uomo accasciato accanto all’ingresso della sala. Dormiva e russava come un gatto decrepito.

***
Una notte dopo l’altra, Mei si unì ai sette figli della donna tonda. Hilo l’accarezzò con il pudore di un bimbo. Giamu la possedette come fanno i cinghiali nel bosco. Gli altri fratelli le stettero sopra senza guardarla. Qualcuno gemette, qualcun altro emise un lungo ansito alla fine dell’amplesso.
Il ciclo si ripeté due volte soltanto. Un giorno la suocera tornò prima dai campi e con le mani sugli occhi. Urlava e si strappava i capelli alle radici. Oltrepassato l’uscio, si lasciò cadere sul battuto e si tempestò il petto coi pugni stretti. Mei, china sul braciere, abbandonò il pentolone fumante e le corse incontro. La donna singhiozzava. Mei le asciugò gli occhi con un lembo dell’abito grigio e le cinse le spalle. «Che succede, Han? Perché piangete?»
La suocera smise di colpo e la scrutò come non la riconoscesse. Trascorso un lungo istante, riprese a gemere. Furiosa. Le guance rosse dei neonati in preda alle coliche del latte. «C’è la guerra, la guerra! È scoppiata la guerra!» Urlò dimenandosi.
Mei la trattenne. Han si divincolò. Si gettò con la faccia e terra, diede colpi al battuto e pronunciò frasi sconnesse.
Mei lasciò che si sfogasse, si allontanò e tornò verso il braciere. Non sapeva nulla della guerra, se non che si sarebbe presa gli uomini e che molti di loro non sarebbero più tornati. Le scappò un sorriso, si chinò sul pentolone e rimestò le patate. Dato che Han se ne stava con la faccia schiacciata a terra, fu certa che non la notasse. Si premette i palmi contro le orecchie e attese che la suocera si ricomponesse.

***
Non bastò la Legge ad asciugare il volto di Han. Fu però sufficiente a spegnere il sorriso di Mei.
Nessuno le seppe spiegare il motivo per cui la guerra fosse scoppiata. «Di sicuro» sostenne Han, che aveva perduto il marito in un conflitto, «Tutto è iniziato per un furto. Inizia sempre tutto con un furto».
Mei alzò le spalle e pensò che anche l’amore fosse un furto. Fatto sta che i popoli delle pianure erano entrati in guerra con i popoli dei monti e che i suoi sposi sarebbero partiti per l’indomani. Tutti, tranne due. La Legge parlava chiaro. I figli più grandi e quelli più piccoli erano dispensati dall’uso delle armi. Nessun popolo avrebbe privato l’altro dell’energia dei ragazzi e della forza degli uomini maturi.
Lontana dallo sguardo di Han, Mei sbuffò inqueta. Il tocco liscio di Hilo e la presa brutale di Giamu non l’avrebbero dunque lasciata.
Dopo una notte di lacrime, passi sul battuto e liquori bevuti d’un fiato, arrivò il momento della partenza. Han guaiva e stringeva l’orlo dell’abito nei pugni. Nessuno capì il motivo per cui la donna avesse abbracciato i soli Hilo e Giamu. A Mei parve avesse già dato gli altri per spacciati. Quando i nuovi soldati furono pronti per la partenza, goffi dentro le armature secolari, la madre sollevò il mento e li salutò con un cenno. Non appena la porta si chiuse, e dalla strada si udì lo scalpiccio dei cavalli, Han smise di piangere all’istante. Da quel momento in poi non avrebbe più parlato più dei figli in guerra. Non passava giorno in cui non baciasse Hilo sulla fronte e non abbracciasse Giamu con l’impeto di un boa che serra le sue spire.

***
Hilo divenne più virile. La prendeva fissandola negli occhi e premendole le natiche con i polpastrelli. Giamu acquisì dolcezza. Quando la possedeva, mormorava parole piene di fuoco e vento.
Fu così che Mei giacque a turno con i due mariti, gridando ogni notte.
Tutte le mattine, al risveglio, Han le faceva trovare una ciotola di riso con le verdure saltate. Qualche volta le preparava i dolci con il miele. Le sorrideva sempre, arrossiva e le porgeva delle boccette scure. Dentro c’erano gli unguenti dell’amore. Han non le confessò a che cosa servissero e Mei ci arrivò da sola. Prima di unirsi a Hilo o a Giamu, si passava l’unguento fra le cosce e pregustava l’ingresso dell’uno o dell’altro nelle sue voraci profondità.
I campi davano i loro frutti. Hilo cresceva e Giamu si irrobustiva. Mei si recava al tempio quasi ogni giorno, accendeva i rametti dell’incenso e pregava la dea Tami. «Possa il mio destino continuare su questa via» implorava. E così accadde, fino a che al destino non si affiancò il corso naturale degli eventi.
Come dalle risaie nasceva il nutrimento, dal ventre di Mei si originò un gonfiore progressivo. Da tempo il sangue mensile aveva smesso di imbrattarle le dita e i tamponi di stoffa.
Alla notizia della gravidanza, Han le gettò le braccia al collo e mugolò come il giorno in cui aveva visto i figli incespicare sull’uscio dentro le armature.
«Nuovo sangue verrà!» gemette la donna «Sangue nuovo che laverà via il pianto».
Mei si accarezzò la pancia e sorbì di gusto il riso nella penombra della sera. Ai due lati del tavolo, Hilo e Giamu rimasero con la testa china sul piatto. Quando fu ora di giacere con il maggiore, questi tornò a tirarla per i capelli.
«Mi fai male!» Urlò Mei. «Che fine hanno fatto le parole di fuoco e vento?»
«Il bambino è il mio, non è vero?» chiese lui mugolando.
Mei si massaggiò il cuoio capelluto. «Nessuno può saperlo» sospirò.
La notte dopo, Hilo non la sfiorò. Si voltò su un fianco e pianse come un bambino fino a tarda notte.
Da quella volta i due fratelli tornarono spesso dai campi con gli occhi pesti o con un braccio gonfio. Sbraitavano l’uno contro l’altro e a cena si scagliavano le ciotole addosso. Han si metteva in mezzo. «Ma che fate?» implorava «Sta arrivando un bambino, il sangue nuovo. Perché bisticciate?»
Il giorno in cui Giamu brandì un coltello contro Hilo, Mei si gettò in ginocchio e li supplicò di smettere. I due fratelli esclamarono insieme: «Attenta al bambino, non ti devi agitare!». Il maggiore si fissò la mano, arretrò e appoggiò il coltello sul tavolo. Si allontanò con passi rapidi. Raggiunse la sua stanza, aprì la porta e la sbatté con violenza. Il tonfo fece vibrare i piatti in pila sull’acquaio.
Mei si risollevò, scrutò gli occhi furenti di Hilo e il viso stravolto di Han che era rimasta seduta al tavolo con le mani strette sulle ginocchia.
Quando anche Hilo le lasciò senza dire niente, Han le parlò con franchezza: «Ora che sono soltanto in due, il bambino è diventato il pomo della discordia».
Mei si portò le mani sugli occhi e scosse il capo. «Che dovrei fare?»
Han si strinse nelle spalle. «Non resta che l’indovina. Vai giù al villaggio e chiedile un consiglio. È probabile basti una delle sue pozioni». La guardò torva. «Se i miei figli si uccidessero l’uno con l’altro, farei nascere il bambino e poi ti darei in pasto ai maiali». La congedò con un cenno e scoppiò a piangere nel grembiule.
Quella notte Mei non giacque con nessuno. Si rigirò nel giaciglio e si accarezzò il ventre. La mattina seguente indossò un abito scuro e si recò giù nel villaggio, verso la casa dell’indovina. Cauta percorse il sentiero d’acciottolato che si snodava tra due file di bassi edifici in pietra. Camminò svelta e in pochi minuti giunse di fronte alla casa della donna. La porta d’ingresso era bordata da una cornice dipinta di rosso, lungo la quale si leggeva un’iscrizione criptica: Ogni cosa che si dice assomiglia ma non è.
Mei inarcò le sopracciglia, accostò il pugno all’uscio e bussò. Non c’era nessuno per strada. Erano tutti nei campi, in guerra o al mercato settimanale. Si augurò che l’indovina non fosse al banco dei cavoli o a cercar funghi nei boschi.
Tese l’orecchio. Dall’interno della casa giungeva un silenzio ovattato. Un attimo prima che ritornasse in strada, la porta si aprì di una fessura. Nella penombra si stagliò la sagoma di un corpo ossuto. La figura vibrò come una fiamma sottile, la indicò con il dito ricurvo e le fece cenno di entrare. Mei annuì. Salì un gradino, oltrepassò la soglia e la seguì nella semioscurità dell’ingresso. Era una casa povera e fredda. Mei avanzò e per poco non rovinò addosso all’indovina che la precedeva con lentezza. La stanza dell’ascolto, così la chiamavano al villaggio, non era che un buco umido con un materasso spoglio gettato in un angolo.
La vecchia la invitò ad accomodarsi su una sedia di legno laccato. Mei si sedette e strinse le ginocchia con un gesto teso. «Non mi chiedete perché sono qui?»
L’indovina si portò un dito alle labbra. Un cappuccio nero le copriva la fronte e ombreggiava gli occhi. Mei non avrebbe saputo dire di che colore fossero. La luce grigia invecchiava ogni cosa, così che il materasso, e le due sedie al centro della stanza, apparivano cosparse da una patina secolare.
A un tratto l’indovina le si parò di fronte. Odorava di grasso ed erba secca. Le si chinò all’altezza del volto e le avvicinò una mano agli occhi. Con l’indice e il pollice le sollevò una palpebra e le scrutò la sclera. Mei pensò alla madre quando guardava negli occhi dei pesci per capire se fossero freschi. Il fiato di Pem, questo il nome dell’indovina, sapeva di cantina e pozzi neri.
«Devi salire su in collina», sentenziò dopo essersi allontanata. «Devi prendere l’ascia del boscaiolo».
Mei schiuse le labbra, ma non disse nulla. Pem si strinse nelle spalle e la guardò come fanno le vecchie con le mosche in estate. «Beh, che cosa vuoi ancora?»
«Quale boscaiolo, che ascia? N- n-on capisco» balbettò Mei.
Pem emise un lungo sospiro e Mei ebbe un lieve sussulto. Ricordò che l’indovina non fosse tenuta a dare troppi dettagli. A meno che l’elargizione di un contributo modesto non contribuisse a scioglier gli enigmi e la lingua di Pem.
Mei frugò nella saccoccia che le pendeva su un fianco, estrasse una moneta di bronzo e la porse decisa all’indovina. Pem le si avvicinò con un guizzo, le carpì il gruzzolo dal palmo e annuì con aria soddisfatta. «C’è un uomo, sul Colle Smeraldino, che ha scelto la solitudine estrema. Avrà cinquecento anni. Al villaggio si dice che tutti i suoi figli siano morti in una guerra passata e che lui sia il solo sopravvissuto. Con la moglie si è rifugiato sul colle, ma di lei non se ne è saputo più niente. Qualcuno sostiene che lui l’abbia uccisa dopo aver venduto l’anima a un demone. In cambio avrebbe ricevuto un’ascia magica che taglia e raddoppia tutto quel che recide. Un bel colpo per un boscaiolo. Avrà sempre tanta legna a disposizione».
Mei trasalì. «Che dovrei fare?»
Pem sbuffò e si mise a braccia conserte. «L’ascia, stupida! Devi prendere l’ascia. I due uomini che ti contendono dovranno usarla su di te».
«Che cosa?» urlò Mei in preda ai sudori freddi. «Dovrei farmi tagliare in due con l’ascia?»
«Così ci sarebbero due mogli e due bambini» convenne Pem stringendosi nelle spalle. «È la soluzione perfetta».
Mei si passò una mano tremante sulla fronte ghiacciata. «Dovrei andare dal boscaiolo e chiedergli se potrebbe prestarmi l’ascia?»
Pem scoppiò in una risata che riverberò a lungo nella penombra. «Devi prendergliela con l’inganno. Rubargliela, insomma».
Mei si accasciò sulla sedia e gemette. «Rubarla? A un mezzo demone?»
L’indovina sospirò e picchiettò il piede sul battuto. «Oh, senti, come farai è affar tuo».
Mei si ricompose e si alzò dalla sedia con il cuore che le batteva all’impazzata. Per un istante si chiese se sarebbe morta divorata dai maiali o massacrata dal mezzo demone della collina. Trangugiò un grumo di saliva e chiese: «Ma dove vive, per l’esattezza, costui?»
Pem le si accostò, le appoggiò una mano sulla schiena e la spinse fuori dalla stanza. «Basta che segui il sentiero che porta al Colle Smeraldino. Arrivare è semplice. Restare, quasi impossibile» ridacchiò.
In fretta e furia, l’indovina la condusse oltre l’uscio di casa, la salutò con un cenno e le chiuse la porta in faccia. Mei crollò sul gradino, accanto a un ciuffo di foglioline secche, e pianse.

***
Mei percorse rabbrividendo il sentiero che portava al colle. Più volte strinse la saccoccia contro il petto e si accarezzò il ventre. Quando la fame le scavò un vuoto dentro la pancia, si fermò e seguì un sentiero stretto che s’inoltrava nel bosco. Si chinò tra i rododendri e gli arbusti e godette della frescura del sottobosco. In alto, le chiome dei frassini schermavano lembi di azzurro chiaro.
Mei aprì la saccoccia, agguantò un dolce di riso e lo mangiò rapida. Non sapeva che cosa avrebbe fatto. Dalla sua aveva qualche boccetta, la pelle nivea della giovinezza e la forza della disperazione.
Dopo mangiato, tornò sul sentiero principale e risalì la collina. Non incontrò un solo viandante, né udì il belato delle capre selvatiche. Il silenzio le comprimeva lo spazio intorno. Mei sentì su di sé il respiro cupo del bosco. Il rumore sordo delle acque profonde. Intonò una canzone d’amore, ma le parole le restarono in gola. Per vincere l’angoscia pensò al figlio che portava in grembo. Forse avrebbe dovuto accettare il proprio destino e diventare cibo per i porci. Il bambino sarebbe sopravvissuto. Almeno fino alla guerra successiva fra i popoli dei villaggi.
Presa dal flusso dei pensieri, non si accorse che era arrivata vicino al punto di svolta. Spirava un vento freddo, sebbene tutto apparisse immobile, come sospeso. Dalle foglie degli alberi ai voli degli uccelli.
Superò il margine del bosco, prese un sentiero e avanzò fino alla radura indicata. Respirava con l’affanno. Un velo di sudore sulla fronte.
La capanna era un ammasso di pietre chiare con il tetto spiovente. Mei trasalì al pensiero che il boscaiolo vivesse in uno spazio tanto angusto. Strinse i pugni lungo i fianchi, sospirò e si avvicinò alla piccola casa. Trattenne il respiro e bussò contro la porta di legno scuro. Dopo un lungo silenzio, che portò Mei a mordersi più volte il labbro, il battente si aprì. Di fronte le apparve un uomo alto come un bambino di dieci anni. Le spalle larghe mal si armonizzavano con il viso da gnomo e gli occhi stretti. Mei si portò il palmo alla bocca trattenendo una risata. Che quello fosse davvero un mezzo demone sterminatore?
«Che vuoi?» le domandò lui con voce sottile.
Mei improvvisò: «Sono venuta a trovarvi. Giù al villaggio dicono tante cose di voi. Era curiosa di conoscervi. La vostra figura mi affascina».
L’uomo spalancò la bocca e giunse le mani sotto il mento. «Io non ricevo nessuno. Andatevene o vi ucciderò con un badile. O con un coltellaccio. Preferireste una pietra?»
Mei arretrò e gli si rivolse con tono supplichevole. «Vi prego, permettetemi di intrattenervi un po’».
«Non capisco come siate arrivata fin qui» ribatté il boscaiolo accarezzandosi il mento «Chiunque ci provi, si getta nei dirupi».
«Perché?» Chiese Mei con voce tremula.
«Per via del Grande Silenzio. Fa venire a tutti una gran voglia di tirare le cuoia».
Mei si premette una mano sul cuore e rifletté su che cosa l’avesse salvata. Forse il pensiero del bambino, o forse il fatto che nessun’altra disperazione avrebbe mai superato quella che già provava.
Un attimo prima che l’uomo le sbattesse la porta in faccia, questi alzò il mento e annusò l’aria come un cane da fiuto. La fissò per un lungo istante e un brillio improvviso gli balenò negli occhi. «Siete molto bella, e avete un profumo delizioso».
Mei strinse contro il fianco la saccoccia e sentì il peso rassicurante delle boccette. L’unguento dell’amore non avrebbe fallito.
L’uomo, che le si presentò con il nome di Yon, la fece entrare. Si passò la lingua sulle labbra e bisbigliò: «Bene, bene».

***
Nonostante il peso dell’ascia, Mei ridiscese la collina in poche ore. L’odore di bruciato le impregnava le narici e l’abito spiegazzato.
C’era voluta una notte intera. Yon l’aveva presa in ogni modo e in ogni angolo della capanna. Per tutto il tempo, Mei aveva sbirciato l’ascia addossata sulla parete di fronte all’ingresso. Yon non si era accorto di nulla. Mugolava con gli occhi chiusi e con un sorriso ebbro stampato sul volto. Grazie all’unguento, spalmato fra le cosce, l’uomo non ne aveva mai abbastanza. Solo dopo molte ore era stato colto da una stanchezza improvvisa. E infine aveva concluso esausto l’amplesso. Era rotolato su un fianco e si era addormentato di schianto.
Mei aveva abbandonato il giaciglio dopo più di mezz’ora, camminato a piedi scalzi sul battuto e afferrato un ciocco di legno da un cesto accanto al camino. Con gesti cauti, aveva allungato il ciocco alimentandolo con il fuoco che crepitava nella nicchia affumicata.
Raccolto in posizione fetale, Yon russava come i vecchi alcolisti nelle bettole del villaggio. Stringendo i denti, Mei aveva agguantato il manico dell’ascia con la mano libera e l’aveva soppesata nel palmo.
Tutto era accaduto nel giro di qualche secondo. Mei aveva scagliato il ciocco contro il giaciglio in cui Yon riposava. Per essere certa che tutto andasse a buon fine, gli aveva lanciato addosso anche una boccetta di unguento. Sapeva con quanta facilità il grasso prendesse fuoco.
Quando una fiammata aveva avvolto repentina il corpo di Yon, Mei era corsa fuori dalla capanna. L’oro aranciato dell’alba sopravanzava al buio della notte. Con il volto che avvampava, Mei aveva inspirato l’aria e tossito. Prima che il fuoco si fosse esteso, aveva imboccato il sentiero con il cuore che le galoppava in gola. L’ascia le curvava la schiena e le tirava i muscoli delle braccia. Aveva accelerato fino allo spasmo, raggiunto il versante della collina ed era scesa giù a perdifiato.
Senza più aria nei polmoni, era tornata a casa rantolando per poi crollare sulla soglia. Il respiro ridotto a un sibilo.
Quando la suocera la vide, per poco non la riconobbe e la cacciò lontano. «Per la grazia di Tami, che ti è successo?» trasalì chinandosi.
Prima di svenire, Mei indicò con il mento l’ascia del boscaiolo. Di colpo le cadde il drappo dell’oscurità sugli occhi e Mei scoprì il sonno che somigliava alla morte.
Ci vollero due giorni e due notti affinché Mei potesse tornare alla veglia e dunque alla vita. Si svegliò raggiante, come stesse per vivere il suo primo giorno nel mondo.
A colazione mangiò di gusto il riso saltato con tocchetti di pesce spatola, sfidando l’aria tesa dei due mariti e l’espressione diffidente di Han.
Non appena fu sazia, parlò: «Hilo, Giamu, dovete prendere l’ascia e tagliarmi a metà. In senso longitudinale, s’intende».
I due si guardarono sgranando gli occhi e fissandola entrambi con la fronte aggrottata.
«Non dovete preoccuparvi, miei unici amori» continuò con tono allegro e raccontò loro tutta quanta la storia. Non proprio tutta, in verità.
Non fu facile convincere Hilo e Giamu. Risero, piansero e le diedero della pazza. Ma una volta afferrata l’ascia sbiancarono e dissero: «Sentiamo il potere!»
Fu così che i due brandirono lo strumento di pace e lo calarono sul capo di Mei. Al principio il dolore fu una scossa violenta che dipartì dalla nuca e si ramificò in tutto il corpo. In pochi istanti, gli occhi le si riempirono di rosso. E dal rosso tutto virò al nero.

***
Tirarono a sorte. Iem, in tutto e per tutto identica a lei, divenne la donna di Hilo. Le giornate si allungarono e le pance delle due donne crebbero, centimetro dopo centimetro.
Giamu tornò a essere un amante appassionato. Accanto a Iem, Hilo si fece ancora più uomo, tanto che divenne in poco tempo quasi indistinguibile dal fratello maggiore. Al villaggio, Mei e Iem venivano scambiate per due gemelle. Le frasi iniziate dall’una erano spesso concluse dall’altra.
A qualche mese dal parto, qualcosa prese a cambiare nell’espressione di Iem. Una notte, Mei la sorprese a spiare dal buco della serratura i suoi amplessi con Giamu. Capitò che a tavola Iem origliasse con aria torva le parole di fuoco e vento che il marito le bisbigliava nell’orecchio.
Una mattina Mei si alzò dal letto con un dolore lancinante al capo. Aveva dormito troppo e faticò a tener le palpebre sollevate. Accanto a lei il giaciglio era freddo e vuoto. Con lo stomaco in subbuglio, appoggiò una mano sul ventre gonfio. Un colpetto leggero le arrivò dall’interno. Inspirò un’ampia boccata d’aria e barcollando uscì dalla stanza.
Non voleva una mosca. C’era lo stesso silenzio che gravava sul Colle Smeraldino. Freddo e schiacciante.
Giunta nel soggiorno, per poco non gridò e non svenne. Scosse il capo con violenza e gemette. Schizzi rossi sulle pareti e pozze viscide sul battuto. Dalla finestrella di fronte, il sole entrava prepotente e illuminava sinistro le viscere rilucenti dei tre cadaveri riversi a terra. Non fece in tempo ad avvicinarsi che avvertì una morsa al collo. Un filo sottile le tolse l’aria dai polmoni e la luce dagli occhi. Poi la notte tornò e questa volta fu per sempre.

***
La ragazza risalì il colle con passo lento. Non doveva fare sforzi; la nascita del bambino era imminente.
Quando arrivò alla radura fissò soddisfatta l’ampio spazio annerito dal fuoco. Appoggiò l’ascia a terra e si schermò gli occhi con la mano. L’estate era alle porte e il sole già feriva gli occhi.
«Finalmente liberi» ridacchiò.
Si guardò intorno e ripensò a una frase che aveva letto da qualche parte.
Ogni cosa che si dice assomiglia ma non è.

Laura Scaramozzino

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