Tutto è definitivo – racconto di Antonio Iannone

Tutto è definitivo – racconto di Antonio Iannone

ti si crede vivo, e sei morto
Apocalisse di Giovanni

Uno.
Quando rabbi Sabbatai Ṣevi era vinto da uno di quegli attacchi di malinconia sopra cui tanto avrebbero scritto agiografi lui postumi, rifuggiva dalla calca umana, e si annidava in una fenditura di Gerusalemme. Là, nell’antro, respirava tutto l’ossigeno di cui Dio l’investiva, tantopiù che era solo, in un modo o nell’altro.
Gerusalemme è eretta sulla sabbia, per questo rabbi Sabbatai Ṣevi alzava dietro sé una gran polvere, specie quando scappava dagli uomini, il ché contribuiva a dargli un’aria mistica. Sempre aveva in sorte d’incontrare qualcuno, e ancor più in sorte che costui si complimentasse con lui.
– L’avete resuscitato voi, rabbi, quel morto, ieri l’altro?
– Quale morto?
– L’esattore lapidato dal tumulto popolare.
La prima virtù, dicevano certe Scritture, è l’umiltà; di conseguenza, rabbi Sabbatai Ṣevi negava. Cattiva sorte era acquattata in quel suo negare, poiché più lui negava, più l’altro ne rideva. Sì, avrebbe dovuto, invece che negare, assentire; affermare d’essere lui, lui solo, un altro Messia, simile a quello che ormai due millenni prima s’era mischiato negli affari di Roma, e ne era stato premiato con qualche chiodo d’eroismo. Solo allora l’avrebbero lasciato in pace, a sobbollire nella cialtroneria. È un fatto che se non vuoi qualcosa accada, devi saper di te prima degli altri. Se conosco bene gli uomini, diceva a se stesso, anche allora pretenderebbero da me questo o quel miracolo. Sarebbero disposti a mettermi sotto contratto perché resusciti oggi una cara bambina annegata nel fiume, oggi un nonno inaccorto punto da qualche scorpione; per non dire delle orazioni, delle redenzioni, del catechismo.
C’è sempre poi qualcuno che decide in vece tua.
Signore, signore, perché tanta fatica?
A questa domanda, che era sciocca, nessun Signore rispondeva, tantomeno quello che diceva suo.
Ovunque nascosto, rabbi Sabbatai Ṣevi era sempre scovato da Nathan di Gerusalemme, detto Nathan il Giovane.
– Hai diciannove anni, bimbo – diceva rabbi Sabbatai Ṣevi – sta’ coi rabbini che ti insegnano un mestiere e una Scrittura, non dissipare con un vecchio quanto ti resta da vivere.
– Tantopiù, rabbi-Maestro, che se c’è davvero l’Apocalisse, gli anni si accorciano.
Nathan a Dio ci credeva sul serio, aveva nessuna paura dell’Apocalisse. Si considerava un ottimista, in materia d’aldilà. Sarò più felice senza questa zavorra, diceva, senza questi pruriti. È che si era innamorato, ecco tutto, di una ragazza di lì, figlia a un rabbino. Uno crede d’avere abbacinamenti mistici, invece un respiro di specie abbacina per noi.
Si vedevano di nascosto, come si addice ad amanti di quell’età; non c’era ordito cittadino in cui non si fossero scambiati, se non un bacio, una parola dolce o peggio, una qualche promessa d’avvenire.
Quanto avrebbe preferito, Nathan di Gerusalemme, che Giovanni l’Evangelista nel farsi scrivere l’Apocalisse da mano altrui, avesse avuto al tempo stesso ispirata ragione e esoterico torto.
– Non ti fidare troppo, degli eruditi – consigliava rabbi Sabbatai Ṣevi – finiscono solo col deluderti.
È che Nathan non sapeva se nell’aldilà si sarebbe riconciliato con Esther, che era quella figlia di rabbino.
Lui sarebbe voluto diventare profeta. Messia ci nasci, diceva, profeta ci nasci comunque, ma son molti di più. E poi, se uno scrive molto, qualcosa di buono sempre accade, quindi scribacchiava ogni giorno almeno qualcuna delle profezie che saltavano nella sua giovane mente. Il mondo sarebbe finito, ecco, solo non in quegli anni, piuttosto quando lui sarebbe stato vecchio, sposato con Esther e assieme avrebbero covato quattro bambini, tutti con variazioni sul nome del rabbi-Maestro. Sarebbe stato dolce, allora, abbandonare spoglie mortali; se ne sarebbero privati come di un abito all’apparenza comodo, il cui diniego causa insperato sollievo.
– Ce l’hai una profezia per me? – chiedeva ogni mattina rabbi Sabbatai Ṣevi.
E Nathan parlava delle stelle nel cielo, che si sarebbero presto scoperte mille occhi d’angelo, dei venti, che erano soffi di Dio, di certe carrozze senza cavalli, senza pendii.
– Ma no! – rispondeva rabbi Sabbatai Ṣevi – Ce l’hai, intendo, una profezia per l’avvenire di un povero vecchio?
– Sì, rabbi-Maestro. La profezia non cambia. Sei tu Gesù Cristo, tu e nessun altro.
– Non me lo dici solo perché ti ho accolto quando chiedevi l’elemosina per strada?
Nathan non era capace a dire qualcosa solo per convenienza, per questo aveva chiesto l’elemosina, dopo ch’erano morti mamma e papà, e prima che rabbi Sabbatai Ṣevi potesse succhiarli fuori dal sepolcro per investirli di genio. C’era uno zio gesuita da cui sarebbe potuto andare a lavorare, a patto di contare una frottola sulla Grazia, cioè che ciascuno poteva fabbricarsela da sé, neanche si fosse trattato di un mestiere.
Sono cattivi, gli uomini, considerava Nathan, ti amano solo se dici loro quello che amano sentirsi dire. Ci sarebbe voluto poco, per non chiedere l’elemosina, e anzi diventare anche un po’ ricco, sarebbe bastato rinunciare a un Dio destinale per averne in cambio uno comodo, senza ardori.
Ma un Dio comodo, che bene può fare?
– Tu sei proprio come me – consolava rabbi Sabbatai Ṣevi – non ti riesce di star quieto.
– Ma al contrario tuo, non son buono a fare miracoli.
– I miracoli son buoni tutti a farli – guardava poi lontano, dove si dice risieda saggezza – I miracoli servono solo a averci qualche scocciatura in più, quando si vorrebbe starsene tranquilli.
Questa ossessione per starsene tranquilli, di cui rabbi Sabbatai Ṣevi era maestro, Nathan proprio non aveva virtù per intenderla. Se fosse nato lui, Messia, sarebbe andato anche nelle civiltà dei cannibali, solo per esibire un poco della sua buona nascita. Si sarebbe messo a far da saltimbanco, ecco tutto, faccia dipinta, stracci da Arlecchino. Sabbatai Ṣevi, adesso mantenuto dalla generosità altrui, era nato di buona famiglia, e uno non può essere diverso da come è nato.
Insieme, rabbi Sabbatai Ṣevi e Nathan di Gerusalemme erano proprio un bel duo, di quelli che pochi se ne vedono, tanto che uno faceva da maestro all’altro sull’arte della malinconia, e l’altro, ancora giovane, infondeva un po’ di furore in un animo altrimenti inerme.
– Se tu non fossi nato Messia – diceva spesso Nathan a rabbi Sabbatai Ṣevi – saresti stato un santo, perché c’hai l’indole.
– Ma a Dio io non so crederci come ci credono gli altri, cioè come un Sole inerme, lassù nel Cielo.
– I santi sono sempre stati postumi, rabbi-Messia.
Il Messia rideva di questa considerazione, perché c’erano stati anche santi canonici, e del rango d’Agostino e Tommaso.
– Signore, posso farti una confidenza? – certo, poteva – Quelli, per me, non sono santi. La santificazione che hanno ricevuto somiglia a una medaglia al valore; sono stati buoni soldati, e i buoni soldati muoiono e basta, anche se muoiono per cause nobili.
– Se ti sentisse rabbi Mordecai Scholem…
– Mi sentirebbe, certo – diceva Nathan – se ogni tanto si lavasse le orecchie.
E tutti e due, che erano amici, finivano per ridere.
In questo mondo, uno deve averci un amico, meglio se non appartiene al proprio rango. Coi rabbini, rabbi Sabbatai Ṣevi non ci sapeva proprio stare, perché se loro pensavano A, sulla Scrittura, lui pensava B, se loro s’azzardavano a pensare B, lui subito si chiedeva se A non fosse un’ecfrasi assai migliore; quanto a Nathan, lui amici non ne aveva avuti mai, perché non ne aveva mai cercati.
Qualcuno diceva socratica quell’amicizia, nel sottinteso della pederastia, tuttavia a nessuno dei due interessava, d’esser detti pederasti, e perché Dio sa già su ciascuno ogni verità possibile, e perché c’è niente di empio nella pederastia, in particolar modo quella compiuta tra un maestro e un allievo, che si danno sapere in ogni modo possibile.
Certe mattine, alla grotta si presentava un capannello di cristiani, per dir meglio di curiosi, a reclamare una magia quotidiana, quel certo passatempo da cui si potesse trarre un po’ di spago per arrivare a sera.
– Ma che vogliono? – chiedeva rabbi Sabbatai Ṣevi.
Lo sapeva, che volessero, cioè che si mettesse a nudo, e nelle vesti di un altro.
Uno non può fare un miracolo, considerava, che subito pretendono di metterti in Croce, uomini e Dio, intendo, chi per Storia chi per messianesimo.
E era per questa ragione se rabbi Sabbatai Ṣevi si lasciava vincere da quel suo carattere umbratile, perché non sapeva mai decidersi.

Due.
I profeti sanno niente di se stessi.
Sarebbe troppo comodo, per Dio, insignire uno di tanto talento da adeguarsi, col solo sentire, a un fine preciso, già figurato in un qualche recesso dell’immaginazione. Sarebbe troppo comodo che una cosa accada due volte, una nel campo dell’immaginazione, una nel campo della realtà.
E doveva esserne stato sgomento anche Nathan il Giovane, quando ebbe d’un tratto impresso quel soprannome, Giovane, al modo di una condanna, perché tale l’avrebbero ricordato, quelli che a differenza sua sarebbero rimasti vivi.
Il maestro pensò per un poco che l’allievo avesse trovato qualcun altro da amare, forse Esther, e con lei fosse andato a vivere in una città lontana, una di quelle senza grotte, città che lui non avrebbe mai frequentato.
I giovani crescono, si diceva rabbi Sabbatai Ṣevi, non possiamo farci niente, ce l’hanno scritto nel sangue di rovesciare l’amore per padri e maestri, anche quello di cui si diceva: – Questo amore non somiglia agli altri. Si sforzava di star bene, di continuare certi suoi esercizi d’espirazione, che dovevano avvicinarlo a Dio.
E proprio perché funzionavano, decise d’incamminarsi in direzione del rabbino, meglio, in direzione della figlia, per chiedere dove tenesse segregato quel ragazzo che stava sempre con lui, Nathan di Gerusalemme, anche detto Nathan il Giovane.
Ma quanto entrò nella Sinagoga, c’erano già facce da funerale.
Seppe dirgli nessuno com’era accaduto, perché nessuno sapeva; solo, l’avevano trovato già martire, riverso.
Sono stati i miei nemici, si disse rabbi Sabbatai Ṣevi, sono stati questi farisei che non credono alla Seconda Venuta, o questi cristiani che non amano qualcuno si sia avvicendato a quel solo idoluccio.
Scappò, com’era capace di fare.
Quanto a piangere, non piangeva, perché Nathan adesso era circonfuso d’eternità, per quanto rabbi Sabbatai Ṣevi avrebbe tanto preferito – così accade a chi ha avuto un amico – fosse circonfuso di lui, di lui e nessun altro.
Camminò giorno e notte, pensò di congedarsi da Gerusalemme, che era una città da cui aveva tratto solo dispiaceri.
Cominciò anche a chiedere l’elemosina, che divenne per lui occupazione proficua, non sapendo vendere niente. Tutti, infatti, vendono qualcosa.
Finché trovò Esther alla soglia di una grotta. La ragazza piangeva come una che ha perso l’amore e sa che non potrà raggiungerlo finché un altro non deciderà per lei, disse.
– C’è sempre qualcuno che decide per noi – rispose rabbi Sabbatai Ṣevi.
– E a te sta bene, rabbi-Messia?
In quella parola era conservata parte dell’amicizia con Nathan.
– A me non sta bene niente, per questo abito dove abito.
– Se ti stesse bene qualcosa, dove ti piacerebbe abitare?
– Con gli uomini, dovrebbero però starmi bene loro, con tutto l’amore che hanno per chi sa compiacerli.
– Ma gli uomini, ci sono davvero?
Questo chiese Esther, e rabbi Sabbatai Ṣevi non seppe che dire, perché non sapeva se quella fosse una domanda particolarmente intelligente o particolarmente scema.
Si consolarono un poco, ricordando Nathan, ma questo non li fece star meglio; ricordavano tutti e due un carattere un po’ diverso del Giovane, tanto che a entrambi pareva d’aver conosciuto, uno, Nathan Uno, e l’altro, Nathan Due.
Esther però non era contenta, perché non amava ricordare e basta. Se rabbi si disperava tanto, perché non piegava a sé queste assurde leggi della fisica per cui un corpo, se abbondantemente battuto, cade nel sonno della morte? Era per lui amico, confidente, discepolo, ne avrebbe mai più trovato un altro.
Ci aveva pensato, rabbi Sabbatai Ṣevi, senza trovarlo possibile.
Sai, se adesso faccio tornare in vita qualcuno, domani non avrò pace, alla mia porta avrò schiere di vedove, orfani, sensibili di cuore a mendicare da parte mia un qualche miracolo.
Da me pretenderebbero che cominciassi a dir parabole, a camminare col patibolo della Croce sulla schiena, a piangere tradimenti; pretenderebbero risponda a controversie sulla Grazia, sulla natura del lavoro, sulla ripartizione del salario; pretenderebbero ritrarmi, solo per averci un briciolo d’iconografia. Sarei finito, se avessi l’ardire d’aver con me, ancora, quel mio caro amico, quel mio dolce, intelligente, amorevole – amico.
Cominciò a piangere, e finì solo a sera.

Tre.
Ci andava spesso, al sepolcro, almeno finché ci sarebbero state delle spoglie sopra cui vegliare. Quando ci andava, pregava quel tanto perché si dicesse di lui: – Quello è un uomo che prega, sapeva che Dio non era così vanesio da amare l’ozioso chiacchiericcio della preghiera.
Chiacchierava finché non aveva secchezza alla gola; più che chiacchierare, si giustificava.
È tardi adesso, diceva, l’avessi saputo prima, sarei intervenuto nell’istante stesso della tua morte, allora avremmo potuto farla franca. Si è trattato d’una morte apparente, avrei detto, ci sono molti casi, in giro, leggetelo nei libri dei dottori, e ci saremmo intanto dati alla fuga. Ma anche un paio di giorni dopo, appena prima della putrefazione, avrei potuto giurare d’averti visto avere uno spasmo, uno di quelli cui sottende almeno un alito di vita. E qualche giorno dopo ancora, col corpo sì cianotico, nondimeno…
È tardi, adesso, tutto è definitivo.
Così dichiarato faceva per andarsene, senza potere, perché avrebbe tanto amato non fosse tutto così definitivo, non aver preso, qualche giorno prima, decisioni tanto sciocche, come piangere invece di fare quanto già poteva.
E anche adesso, naturalmente, non prendeva nessuna decisione; stava a lagnarsi, che era quel che meglio sapeva fare, più dei miracoli.
Sai, diceva ancora, se adesso ti faccio tornare coi vivi, non è mica come ha detto quel tale: – Alzati e cammina, no, c’è una spaccatura nel Tempio, ci sono rabbini colle vertigini, ci sono folle in idolatria, c’è insomma tutto un apparato della miracolistica, che non farebbe bene né a te né a nessuno.
Dovrei morire, uno di questi giorni, morire in modo barbaro.
Sei ancora invischiato in me, accusava, mi tieni per la veste – indossava uno di quegli abiti lunghi che sempre, ovunque, fanno un Messia –, non vuoi che me ne vada prima d’aver salvato te e condannato me stesso. Io, al contrario tuo, non me ne vado per le strade malfamate, sperando che qualcuno m’ammazzi, solo per saggiare se un mio amico mi vuol bene abbastanza da condannarsi per me. Sì, ti voglio bene abbastanza, al punto che mi spiace d’essere così estenuato dal non poter niente, e dal poter tutto.
Se torni in vita, ho forse alcuna certezza che, dopodomani mettiamo, dopo tanta esaltazione, tu non incontri quel medesimo assassino di qualche giorno fa, e che quello, non t’ammazzi di nuovo? Ho forse alcuna certezza che un dirupo non t’inghiotta, che uno scorpione non ti punga?
Stai bene, poi, tu, stai dove al tempo nessuno ha messo briglie o che; stai dove sei un profeta, perché sono tutti profeti.
E anche lui stava, notte-notte, senza decidersi.
Quando ne usciva c’era sempre Esther, che aveva atteso.
– È tardi – diceva rabbi Sabbatai Ṣevi.
– Ogni giorno è un po’ più tardi.
Si trattava di un logorio, e di una consolazione.
Ma un giorno vide Nathan, vivo, vivissimo, sottobraccio con Esther. Era di carnagione azzurrognola, come di certi pesci cucinati nel loro ultimo giorno da sani. Sembrava contento, e Esther più contenta ancora.
Divertivano entrambi un nugolo di fedeli.
Fu contento anche lui, che Dio avesse interceduto, presto sarebbero tornati a essere uno rabbi-Maestro e uno allievo, così da far dire ancora a qualcuno che forse c’era di pedagogico nel loro incontro solo quanto inerisce alle questioni sensibili.
Corse da Nathan, senza badare alla gente. Questo fu errore, si deve sempre badare alla gente. Lo accolsero bene, con strilla, lodi, feste, e più in generale col chiasso che gli uomini fanno quando hanno qualcuno da mettere in Croce.
– Non era così tardi – disse Nathan – e sono tornato da solo.
Rabbi Sabbatai Ṣevi cadde in ginocchio.
– Messia, Messia – chiamava, si mise poi a baciare una mano dell’allievo, che l’invitò a levarsi.
– Ho già detto a queste persone ciò che anche tu mi hai detto: che i miracoli sono buoni tutti a farli.
Così detto, rabbi Sabbatai Ṣevi fu sollevato dalla folla. Si compivano da qualche parte legittime distinzioni.

Antonio Iannone

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