Tupilaq! – racconto di Luca Scala
Redazione2025-10-13T13:21:20+02:00Seduti sulle vostre comode poltrone al margine di un buffet ripetuto centinaia e centinaia di volte, levate il vostro sguardo all’appannato vetro della finestra che vi illumina da destra. Vedete il ghiaccio desolato della nebbia estiva che scioglie e spacca montagne ancestrali, uniche abitanti del nord che un tempo albeggiava sovrano. Siete nei pressi di quel continente, vi dico, che ciclicamente si stacca e ricongiunge al pangeatico, e che ora occupa una storta posizione scostata dal polo.
Osservate qui banchi di gelo che costellano il mare, udite le loro lente e inesorabili fratture. Quanti corpi inabissati da quei gelidi monti diedero pasto ad affamate creature degli abissi! E quanti tristi naufraghi s’infransero le ossa come polvere cesellata al cospetto di uno scalpello!
E lì, proprio mentre al teatro di bordo ammirate l’elegante gonna della soprano sul palco, lì vicino, a qualche costa di distanza, vi è una terra ove mai divinità creatrice ha messo bocca. Una terra abitata dai figli di quei primi uomini che con gran fatica superarono l’oceano dei ghiacci in ere remote. Una terra ingenerata. Nessun divino corpo smembrato a farne monti e fiumi, nessuna grande madre a partorirne le membra e nessun tiranno padre a concepirne onanisticamente le genti.
Un mondo di sopravvivenza e cautela, costellato di creature che il solo nome è terrifica invocazione. Mostri la cui immagine è proibito manifestare, e le cui gesta sono un monito a non avventurarsi da soli per i bui anfratti della notte.
Che solitudine! Pensate ai millenari conforti degli dèi tutelari che sempre invocate nei vostri giorni tristi perché vi diano salvezza e rifugio contro il più piccolo dei danni! Ma non qui, qui nulla risiede se non la carne e il cremisi sangue che pompa impazzito a riscaldarla.
Poi arriva il giorno, e uno spettrale lucore penetra dalle nebbie, rifrangendosi sulla leggera pioggia che ha reso scivoloso il molo di attracco. Mettete piede fuori dalla lancia, quella fragile scatoletta di acciaio che vi consente il passaggio dove le grandi navi non osano avventurarsi. Con voi la soprano, non conoscete il suo nome, eppure la riconoscereste ovunque. Non indossa più quell’elegante abito da sera che le metteva in mostra il sottile profilo della schiena, ma è intabarrata come voi in una giacca impermeabile che non riesce comunque ad adombrarne i delicati lineamenti del viso. Eccola che si china a guardare le bancarelle disposte sul molo dalla popolazione locale. Vendono perline e plastiche variopinte, quelle stesse cianfrusaglie che i vostri antenati barattarono con donne e terre e che ora vendono a caro prezzo per sopravvivere all’inverno. Non potete saperlo, ma è una dura vita la sua. Non si diventa soprano su una nave da crociera per divertimento. La camera è angusta, e l’assenza di oblò non la riuscireste neanche a concepire dall’esterno del vostro balconcino privato. Da giovane il sogno della grande opera lirica, e poi la vita si mette in mezzo, e il tempo passa e non si ferma, oh no se non si ferma, e se ne frega di quello che voi piccoli puntini mobili volete su quel piccolo sasso orbitante che un giorno verrà inghiottito nel centro della galassia. E così sogna pallidamente l’arena di Verona, mentre intona canzonette che neanche gradisce su quella grossa zattera galleggiante. E mica conoscete la sensazione del mare in tempesta da dentro una bara galleggiante, e così come potete giudicare quel comportamento volubile che la spinge a urlare inviperita contro l’anziano venditore di statuette d’ossa? Che peccato, vi era sembrata così bella la sera prima. Avreste voluto conoscerla, certa simpatia attrattiva s’era risvegliata in voi. E ora la vedete aggredire verbalmente quello sfortunato indigente. Il perché non lo sapete, né vi importa. È svanito l’interesse. Voi non siete così. Almeno finché l’avversità della vita non vi sfiora, s’intende. Voi siete quelli che lasciano lo spicciolo nel cappello dell’uomo sdentato che suona la chitarra, che sorridono alle ragazzine imbarazzante che cantano vicino al porto in una lingua sconosciuta. No, voi siete meglio di lei, finché vi conviene. Pensate da bravi coloniali alle vostre fortune in confronto alle loro disgrazie. Comprate sovrapprezzati bestiari di folklore pasticciato, e la sera, stanchi da un paio d’ore di camminata, vi riempite lo stomaco di cinque diversi dolci al buffet, ché non provarli tutti sarebbe disgrazia.
Ma la notte, quando ormai siete salpati e lontani da quella terra di variopinte case che invano cercano di spezzare il grigio della brina, la notte, nel segreto della propria stanza, l’uomo veste la tunica sacra al contrario, così che il cappuccio nasconda il suo volto e il triste canto che sussurra. A terra, davanti a lui, ossi, carni e pelli di strani animali che neanche nei vostri più terrifici incubi immaginereste, si mescolano tra di loro, sfiorando il potere generativo del suo sesso. E nasce così, da quel gorgo di membra, il tupilaq, la vendicativa creatura che farà a pezzi la soprano davanti ai vostri occhi annoiati. Ma questo ancora nessuno può saperlo, poiché l’angakkuq, il sapiente, lavora in segreto e lentamente, accarezzando ogni lieve contatto della materia informe contro il suo canto.
La prima avvisaglia l’avete, infatti, il secondo giorno di navigazione da che avete lasciato quella deforme terra. Tra le nebbie in lontananza vedete una grossa lastra di ghiaccio muoversi come traghetto per un orso polare. Vi affrettate a zoomare con la fotocamera del vostro cellulare per catturare quell’ultimo souvenir della terra incantata, l’orso dei ghiacci che pesca per mare, prima che svanisca nella brumosa essenza della notte coperta. Ma ecco che qualcuno vi fa notare lo strano contorno della bestia. Non sembra un orso! E quelle due lunghe linee bianche, non paiono forse due enormi zanne? Avvicinatevi e guardate bene! Che strana creatura! Dev’essere un’aberrazione ottica dovuta alla nebbia, un mostro del genere non si è mai visto!
E così passate un’altra placida notte, non sapendo che nel buio della piccola stanzetta senza finestre la soprano si congela nelle sue spesse coperte, girandosi e rigirandosi senza sonno in strani e freddi sudori.
Cancellate quella strana apparizione dalla vostra memoria, finché, il giorno dopo, quando avete ormai abbandonato le nebbie dell’artica regione, non udite un urlo squarciare la notte stellata. È da una settimana che non vedete il cielo, e quasi ne avete scordato la placida maestosità. Ed è così un peccato che quella calma dolcezza, ora che il mare è sopito e cullante, debba esser rovinata dall’acuto strillo della donna sul ponte. Curiosi seguite l’indice puntato dalla soprano, e volgete le vostre teste in direzione di una regolare increspatura sul pelo dell’acqua. Qualcosa sembra starsi muovendo nella vostra direzione a lente bracciate. Scorgete due luminosi occhi che riflettono il pallore lunare.
“Sta venendo per me” sussurra flebile la donna, e sembra che sia sul punto di spirare dall’esaustione. Vorreste confortarla, ma l’introversione e il timore vincono, e osservate da lontano altri passeggeri che le si fanno vicini.
Il ricordo, ancora una volta, svanisce come una febbrile allucinazione.
Sbarcate finalmente dall’ecomostro, tra crasse tossi di grasso e zucchero e carichi di memorie e paccottiglia che vi accompagneranno per il resto della vita. Dimenticate, tuttavia, quegli strani eventi, fino almeno ad un giorno di autunno inoltrato, quando per ripararvi dalla pioggia scrosciante vi precipitate di fretta in uno sporco bar. L’aria è pesante, e il lezzo della birra misto al sudore degli avventori non vi rende gradevole la permanenza. Ma siete viaggiatori incalliti e pur di ripararvi dalla pioggia vi accomodate a un sudicio tavolo incollandovi alle sedie appiccicose. Qualcuno fa una battuta su come il cibo di quel luogo sia notoriamente insulso, quando improvvisamente lo stridio metallico di un microfono cattura la vostra attenzione. Sul palco in penombra al fianco del bancone, una figura scura, ammantata di un funereo velo sul volto afferra languida un microfono. Le parole sgorgano dolci, come un placido fiume d’estate, eppure non potete che notare un tremante sotteso timor panico, che la donna cerca di sopprimere col vigore del canto. Quel canto, una voce così familiare e al tempo distante. Qualcosa che avete udito ma che il tempo ha corrotto. Una scultura che all’occhio inesperto è materia di un peculiare artista, ma che per voi che ne avete già avuta esperienza è opera arrugginita e grezza. Si risveglia quasi contemporaneamente in voi la realizzazione: la soprano di quel lontano viaggio! Ma cosa ne ha logorato a tal punto il fulgore? E per quale ragione ella è lì, in quel dismesso bar di quella piovosa regione invece che su un nuovo e splendido vascello flottante?
Troppi interrogativi vi frullano nella mente, e così, tra una sorsata e l’altra, attendete il finale dell’esibizione, pronti a invitare la cantante al vostro tavolo.
La vedete muoversi in modo scoordinato, quasi traballante. Da vicino notate che non ha una bella cera, e vi si avvicina interrogativa, non riconoscendovi. Si siede diffidente, e ci mettete qualche istante di troppo a convincerla di ricordarsi di voi. Sempre più incuriositi, le offrite qualcosa da bere, mentre lei comincia a raccontarvi la sua storia. Le parole le fluiscono dalla bocca come se nella sua intenzione mettervi a parte di quelle vicende servisse a esorcizzarle, come un catartico canto rituale.
Al passo della sua narrazione, lentamente in voi si rievoca il ricordo di quella abominevole visione sui ghiacci. Perché sì, proprio da lì principia il suo racconto. Lì dove per voi un indimenticabile viaggio era terminato, per ella un incubo cominciava.
Scesa dall’imbarcazione per un periodo di vacanza, una serie di strane ed inquietanti circostanze l’avevano perseguitata. Dapprima ombre nella nebbia che sembravano osservarne i movimenti. Poi, l’impressione di essere seguita le sere, ed infine l’effrazione di un essere informe nell’albergo ove alloggiava. Se l’era vista brutta quella volta, e sebbene avesse con non indifferente sforzo di volontà provato a convincersi che tutte quelle singolari circostanze fossero giochi spettrali della sua mente, dopo aver visto l’uomo nella hall trafitto a morte dalla zanna della creatura, si era convinta di essere davvero perseguitata. Era scampata per miracolo su una vettura, e solo per il tempo concessole da quell’eroico avventore che aveva dato la sua vita per proteggerla.
E ora fermatevi, e prendete una carta del mondo. Immaginate, scorrendovi le dita sopra, cosa voglia dire fuggire di paese in paese, per terra e per mare e per aria, sapendo di essere ovunque seguiti, poiché il tupilaq non ha riposo fintanto che non abbia agguantato il gracile collo della sua preda. E così da un luogo all’altro, di città in città, la donna aveva consumato tutto ciò che possedeva nella speranza di seminare il suo irrefrenabile inseguitore. Tutto aveva dato in pegno, consultando medium, aruspici, sciamani e altri frequentatori del mondo oscuro nella speranza di sfuggire a quel gramo fato.
E ora chiudete ancora gli occhi, e pensatela dispersa su alti monti in un caldo paese oltreoceano. È lì, sola, senza più nulla da offrire, vestita di stracci appicciati al sudore della pelle, e cammina per un paesino che mai ha conosciuto modernità. È uno specchio distorto di ciò che ha scorto nel gelo del mondo, un paesino di indigenti le cui case variopinte si ergono a barriera contro la tristezza di un rovente ambiente impervio. Ma qui la gente sembra allegra, sembra calpestare quel legittimo disagio di povertà tra allegre danze attorno ad animali di cartapesta. E lei, nel suo abito un tempo raffinato e ora polveroso e a brandelli, stona nel suo sgomento al punto tale che un’anziana donna dal seno cadente e i capelli ricci intrisi di grasso le si fa vicina e le chiede cosa mai le sia accaduto in quel giorno di festa.
Parla stentatamente in quella lingua tanto aliena, ma riesce ad intendere il racconto della soprano e nella gentilezza propria di chi nulla possiede meno che un gran cuore, si offre di aiutarla a ricacciare il suo demone lontano. La invita nella sua casina fatiscente e con lei prega, e plasma dal legno una figura dagli allegri colori sgargianti. Ha in bocca una fiamma, sul dorso una cresta di spine rosa che partono da un corpo quadrupede blu maculato di bianco. È l’alebrije ove risiederà il protettore spirito invocato. Un fantasma di tradizioni recenti che sussiste per gentilezza del cuore e della mano artigiana.
E da quando l’alebrije prende vita al fianco della donna, il demone tupilaq sembra allontanato. Nessuna manifestazione funesta s’approssima più, così che, aiutata dalla gentilezza umana, ella riesce a raggiungere nuovamente i lidi patri. E come la vicinanza dal luogo s’accorcia, così il peso che sul suo capo grava sembra alleggerirsi, finché non trova impiego proprio nella locanda ove ora vi trovate, esibendosi in spettacolini che sono poco più che il pallido riflesso di ciò che un tempo era il suo mestiere.
Dubita che il tremore delle sue mani potrà mai svanire, e durante le notti di bruma getta ancora sguardi fuori dalla finestra, alla ricerca degli occhi spiritati del mostro che un giorno affronterà il suo alebrije custode. Ma ha una scintilla di speranza nel cuore.
Siete inorriditi ed affascinati dal racconto, e le mostrate la vostra simpatia e vicinanza. Ma è di quella falsa empatia che si crede di provare di fronte ad un racconto di cose aliene e lontane, e nel vostro profondo sapete che ognuno raccoglie sempre quel che semina. Ma voi, siete davvero sicuri di aver sempre seminato buon grano al vostro passaggio? E allora, perché il vostro respiro è così affannato? E cosa sono quei luccicanti occhi che vi squadrano da oltre la nebbia? Quel leggero ma inesorabile raschiare alla porta…
Luca Scala