Qui e tutt’attorno, come roteante – racconto di Sarah Manciocchi Robak

Qui e tutt’attorno, come roteante – racconto di Sarah Manciocchi Robak

Prima della nenia delle donne che più tardi sarebbero venute, strisciando le lunghe vesti tra le sterpi, dando nomi alle erbe, ai loro fiori e ai frutti, colmando l’aria nel vagheggiare la perfezione di quel primo ardore.


I racconti che porto impressi nella memoria come li avessi scolpiti sulle ossa, i racconti ascoltati così a lungo da percepirli ormai come parti del corpo – come un organo o un arto – narravano di una soglia e poi, oltre, di una salvezza: di altezze diafane a cui tendere, di una purezza tale da apparire inarrivabile. Le parole che in me si son fatte sangue erano fili di una trama di luci, di candori che fanno gli sguardi capaci, acuti, pronti ora e in ogni tempo a sostenere la vista dell’eterno.


Chi mi ha istruito sulla natura di Dio, dettandomi il nome del quid impronunciabile, considererebbe questa caduta come un’immane disgrazia: nel ventre del mostro, nel suo tepore, che cosa dovrei provare, se non disperazione? Sopra, sotto e tutt’attorno alle membrane che ora mi avvolgono, si estende il mare nero: incapace di discernere una qualsiasi direzione, ora so che ovunque – tranne in alto, dove si irradia il Regno – vi è profondità abissale. Da tempo, non so più nemmeno quanto, ho perso ogni contatto con l’esterno. Per cui, secondo loro, secondo chi sta ancora sulla nave, che cosa dovrei provare?


Prima degli sguardi fissi nelle fiamme, tutti stretti raccolti attorno, attenti a cogliere ogni possibile indizio.


Eppure io notte e giorno sento due cuori pulsare: il mio, ancora intatto nel petto, e quello più lento della creatura che abito. Eppure qui, notte e giorno, in questo luogo buio fuori dal tempo – raccolto, custodito, perla nel seno del disastro – sento forte e chiaro e caldo che quella luce di cui avevo sentito parlare non era reale.


Si dirà, di me, che io abbia innalzato una preghiera al Signore. Si dirà che io abbia chiesto di essere salvato avanzando la pretesa di qualcosa d’altro, di più perfetto e più alto. Si dirà che io abbia promesso sacrifici al Padre, per poter uscire, per tornare alla luce.


I racconti di chi mi ha istruito al Suo nome, quelli che in me si son fatti materia, narravano di templi di marmi candidi, verticali sull’aria; narravano di cerchi chiusi, di croci di iridi, di distese di nubi perfette, soffici. E si parlava di un dopo, nella logica di allora: di popoli da raggiungere e convertire alla fede, di città e persone imperfette, di Ninive.


Qui, dove giungono attutiti i suoni, qui dove l’assenza di luce impedisce la natura dei colori, so che la Grazia è sempre e tutt’attorno, ronzante come uno sciame che turbina nei pressi di un centro, pur senza mai toccarlo.


Prima che una narrazione contenesse il senso in un disegno concluso nel proprio cerchio.


È vero che ho innalzato delle parole al Padre, da questi abissi. Era stamattina, era ieri, era un momento qualsiasi di questo mio stare che del tempo sfibra i margini. E ho detto: «Sono contenuto, contento e protetto. Sono al sicuro, adesso. Sono al sicuro, sono completo: non ho bisogno d’altro. Vorrei restare qui, Signore, sepolto». Non è scesa nessuna oscurità, poi, sul mio corpo, perché nessuna tenebra può calare per chi è nel ventre del mostro. Nessuna luce si è accesa, allo stesso modo, perché non necessito di vedere alcunché per sentire – sottile e serpeggiante nei capillari e nelle vene – l’ardore.


Prima, prima di tutto, prima pure degli astri e dei sette giorni e delle eclissi.


Per un motivo che ancora non mi so spiegare, già so cosa accadrà, al mio permanere: Dio mi farà uscire. Mi riporterà alla luce reale, quella del giorno che eterno si ripete sotto il sole. I racconti che mi abitano, quelli di chi mi ha istruito al Suo nome, dicevano anche che vivere è sporcare quel candore; quello a cui sempre irrimediabilmente si tende tentando una pace con la sua contraddizione, quella dello sciame della Grazia che nonostante sappia il come e il dove del centro esatto, non lo può toccare.


I racconti dicevano anche che è necessario continuare a girare. Avere fede solo e soltanto nel movimento perpetuo, nell’eterna tensione.


Prima, prima di tutto.


Eppure io sono al sicuro, adesso, sono protetto. Sono completo, contenuto, contento: non ho bisogno d’altro. Mi rivolto nel tepore del ventre mostruoso, sentendo di essere io – se ce n’è uno – il prodigio. Mi rivolto amareggiato all’idea della luce, perché il buio mi è guscio, scorza, carapace.


Vorrei restare qui, Signore, sepolto.


Signore, Signore: sono io il centro.

Sarah Manciocchi Robak

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