Qualcuno deve prendersene cura – racconto di Giacomo Bencistà
Redazione2025-04-01T08:35:48+02:00λ: E lei?
μ: Ha gettato via la spada e lo ha preso per il collo…
λ: Hanno il collo i serpenti?
μ: La parte del corpo subito sotto la testa. Ha piantato gli artigli tra le squame dove la carne è molle e lo ha inchiodato a terra. Sputava fuoco, vapore, veleno; le spire guizzavano e si schiantavano sui pilastri celesti, ma non ha mollato la presa finché i sussulti sono cessati.
λ: Me lo immaginavo più attaccato alla vita. Per sangue aveva etere spermatico…
μ: Scorreva come sangue e aveva il colore e il sapore del sangue. Quando prese a scuoiare la carcassa…
λ: Con l’ausilio di quale strumento?
μ: Con le sole mani, con le unghie sdegnose. Erano lame di grafene che squarciavano la pelle millenaria come se fosse lattice. Il sangue scrosciava sulle montagne, spumeggiava sul fondo delle trincee, dilavava le marne strato su strato. I visceri del serpente si ribellavano alla morte.
λ: Erano gli impulsi terminali, incanalati nei vettori del sensorio; o forse il dolore aveva innescato una post vita carica di risentimento e residuo karmico.
μ: Dopo che ebbe strappato la pelle la tagliò in lunghe strisce, corrispondenti alle faglie diacroniche: una per ogni civiltà, come trine o collane di perle. Se le mise al collo, sulle spalle, le strinse attorno ai polsi come bracciali. Con l’Atlantide e la costellazione delle sue colonie fece un cappuccio crestato che accomodò sotto l’aureola. La diaspora ariana, squarci astrali e falci lunari, finì a ornare i fianchi, appesa alle creste iliache. La stella del genocidio riposava sopra il suo santo seno, copriva lo sterno acuminato…
λ: Si era agghindata per gli scontri a venire. È difficile tracciare un confine tra la semiotica dell’ostentazione guerresca e una perversione per i frantumi di cadavere: sappiamo quanto le siano rimasti appiccicati addosso gli icori sublunari.
μ: Ora ti descrivo gli amuleti intrecciati con le entraglie del rettile…
Una differente versione del mito ci arriva dalle isole frisone e si è conservata nella sola tradizione orale, come ballata e come fiaba: raccolta dall’antropologo Klaus Lempke, testimonia di una curiosa fusione (risalente probabilmente al III-IV secolo d.C.) tra elementi mitici autoctoni e speculazioni religiose di matrice gnostica. Lempke ipotizzò che la contaminazione fra motivi così eterogenei fosse il frutto della predicazione di un tardo seguace di Valentino spintosi dal bacino orientale del Mediterraneo fino nell’Europa del nord. Secondo questo racconto, Jormungandr non incontrò la propria fine per mano di Thor nell’ambito delle lotte del Ragnarok, ma fu invece affrontato e sconfitto da una potente maga giunta dal sud, di nome Sophia, che aveva dato a lungo la caccia al serpente, inseguendolo dalla Persia alla Spagna fino alla Germania, per vendicarsi dello stupro che il mostro aveva inflitto al suo spirito disincarnato: la violenza la aveva costretta alla prima nascita e imprigionata nel ciclo delle reincarnazioni. Secondo il racconto, Sophia fece a pezzi il serpente e si adornò coi trofei raccolti dal suo cadavere; esaurito il compito che si era assegnata, si mise in viaggio per tornare nella propria terra. L’uccisione di Jormungandr destabilizzò il cosmo e dette l’avvio al Ragnarok.
μ: Erano ovunque: in cielo, in terra, nell’etere gibboso, tra le cellule del corpo… grani di polline famelici, atomi di aria; vogliose e microscopiche, ma al tempo stesso immense, perché ognuna di loro era un punto della più vasta figura.
λ: Le cancroregine erano note nell’Ellade col nome di anarythmoi. È facile perdere il conto dei modi in cui le hanno chiamate: il pulviscolo dei nomi riflette quello delle cose. Ricordo che a Buenos Aires…
μ: Le avevamo incontrate tante altre volte, tutte le volte che lo sguardo aveva fatto naufragio di fronte all’Abisso e al Silenzio, era caduto disorientato tra le particelle della materia: imprigionato dall’infinità.
λ: Adesso le affrontava in un istante preciso. Già questo — la definizione nel tempo se non nello spazio — era un piccolo trionfo.
μ: Ma lei è stata capace anche di costringerle in un’unica forma, che fosse possibile combattere e vincere.
λ: Come ci è riuscita? Quelle sono sciame: il desiderio è ubiquo, la sua natura pulviscolare.
μ: La carne le ha attirate, le ha costrette a coagularsi. Era un’esca troppo ghiotta: vecchia di millenni, appesantita dai ricordi, dalle pretese, infestata di immagini. Si sono addensate in un corpo costellato di emblemi come di scudi parlanti, tutto intorno zampe segmentate, cheliceri, tentacoli irti di spine. Un monumento di charme e di orrore. Una seconda esca contrapposta alla prima.
λ: Avevano intuito…
μ: Pensavano di avere di fronte una facile preda.
λ: Invece…
μ: Invece lei calò il calcagno sul carapace, sul cratone coperto di emergenze di ossidiana, sul gheriglio di aculei stillanti neurotossine; sbuffi di fosforo bianco punteggiavano il guscio, flussi di magma scorrevano nelle sue crepe. Ma il callo del calcagno era invincibile. Forgiato nel transito terrestre, incrostato di polvere dei bassifondi e di ori imperiali; lo pervade la luce dell’empireo, calcinata dal rancore e dalle bestemmie di generazioni. Frantumò la corazza in sette parti, una per ognuno dei santi dolori, in ossequio all’icona. L’urlio delle voci — sciame erano e sciame tornarono nella morte — rintronò i cieli e andò a fare eco al ruggito agonico del serpente.
λ: Coi pezzi delle cancroregine avrà fatto qualcosa.
μ: Medaglioni per la sua veste…
λ: Sarà sembrata una madonna carica di ex voto.
μ: … e con le antenne…
Deve capire che il granchio si annida nel sole. I raggi sono gli arti che dal sole arrivano fino all’orizzonte e si conficcano nella terra, dentro i corpi. In questo modo il granchio controlla l’intero universo. La tartaruga sta sotto: dorme e si è dimenticata di noi — è inutile che gliene parli. Sopra sta il granchio, sospeso sulle zampe scheletriche, in alto nel cielo. Ci ha ingannato, perché crediamo che sia il sole: per questo non lo fissiamo mai direttamente o lo facciamo soltanto per pochi secondi. Ieri ci ho provato di nuovo, finché il dolore è entrato negli occhi: l’infermiere se ne è accorto e mi ha strattonato per allontanarmi dalla finestra. Per proteggere la vista, mi ha detto, ma in realtà è paura dell’arcano supremo. Perché da lì il granchio entra dentro il corpo. Come si scava una tana nel sole, così buca il corpo — il vostro non so, il mio di sicuro — oppure si infila in uno dei buchi esistenti. Per questo è bene tenerli chiusi, come io ho provato a fare, una volta per tutte, coi miei. Dalle sue due tane, in alto nel cielo e in basso nel corpo, è sempre all’opera. Da lì cola la sua immagine, si riversa dentro di noi, riempie lo spazio cavernoso tra gli occhi e la mente. Si infiltra nei nervi, nelle vene, nei dotti linfatici, in tutti i canali della carne. Si diffonde fino alla punta delle dita. Stimola il prurito, cagiona infiammazioni, trasforma il corpo in una vescica gonfia e dolente, sul punto di esplodere. Ma ciò non accade mai, perché il peso di quella vescica ci fa andare avanti, perpetuamente sbilanciati, sempre sul punto di cadere. Potrei drenarla, se avessi un pugnale: il pugnale per uccidere l’io. Ma ogni sera, prima di spegnere le luci, gli infermieri frugano nella camera e mi perquisiscono.
μ: Quando aprì il portone si trovò di fronte a uno spicchio di cielo pieno di nuvole e di ragnatele: in fondo stava l’altare. Il pavimento era coperto di relitti di ogni epoca: mucchi di vesti smesse, carcasse di grandi macchinari.
λ: Il demiurgo che aspetto aveva?
μ: Una corona di ali di corvo, sospesa sopra il marmo sbrecciato dell’altare. Iniziò a sciogliersi nelle parole.
λ: Non ha fatto altro dall’inizio dei tempi: rivelazioni, profezie, simboli, maledizioni, scritture…
μ: Prese a snocciolare ossequi involuti, poi lodi per il coraggio… Ma non si è fatta ingannare, o distrarre. È salita fino all’altare, ha scalato i gradini e gli è balzata sopra. Ha schiacciato la carne rugginosa contro la pietra. Il clangore dell’urto si è sentito per tutti cieli sublunari.
λ: Forse era l’unico modo per porre un termine al profluvio di stati dell’essere e del discorso. Il punctum violento è da sempre la migliore risposta alla frana ininterrotta della creazione.
μ: La carne si riplasmava sotto le sue mani, le nuove forme si accompagnavano alla litania delle giustificazioni. Uovo, piovra, nodo di corde bagnate, cervello tempestato di occhi, nuovamente corona di ali nere come la pece… Natura, tendenza, necessità, destino, inclinazione, caso, costrizione… Il corpo si stabilizzò in membra femminili, la faccia si aggraziò nella sua faccia. Pietà, disse. Per un istante la stretta si allentò; ma fu solo preparazione e raccolta di forze: perché subito le dita si strinsero attorno al collo con violenza rinnovata, le unghie scheggiate dal rancore si conficcarono nella carne venata di azzurro. Sangue che i millenni avevano reso trasparente colò stanco dal collo sul corpo, fino a terra, in una lenta pozza.
λ: Lo specchio. Una finezza che non mi sarei aspettato.
μ: Ci provò, disperato.
λ: Ci ha sempre provato, da incommensurabile disperato qual era, fin dall’inizio dei tempi.
μ: Il corpo crollò giù dall’altare: a quel punto era una cosa in cui si mescolavano tutte le cose trascorse, tutte le maschere. Lo sollevò, lo tenne fra le braccia, raccolse le ultime parole.
λ: Meccanismo imperterrito, fino alla fine… Che ha detto?
μ: Che la causa prima stava più in alto.
Il mito del demiurgo parla innanzitutto alla nostra coscienza: non tanto alla riflessione filosofica sulla tragica fragilità del mondo (dalle superficie epidemica alla cicatrice interiore), né al giudizio politico sulla necessaria imperfezione dei sistemi di governo (dalla corruzione ai colpi di stato, alle inefficienze talvolta drammatiche: si pensi alla fallimentare lotta contro la povertà); a essere chiamata in causa è soprattutto la consapevolezza, individuale e istantanea, delle imprecisioni spicciole che si insinuano come crepe, a mala pena percettibili, nell’esistenza. Le macchie di sudore sopra una maglia, corrispondenti alle pieghe della carne sottostante; il dito del piede che urta contro lo spigolo; l’alone di muffa prontamente aggredito con candeggina nebulizzata; la polvere e il suo perpetuo distendersi sulle cose umane; il rumore disperato del trapano che penetra nella parete. Tanti altri sarebbero gli esempi: probabilmente infiniti, quanto infinite sono le faccette del mondo che ci restituiscono sempre la stessa immagine, sempre lo stesso volto di un creatore distratto oppure maldestro. Perché il demiurgo, che sappiamo responsabile di ogni fallimento, piccolo o grande, ha un volto che conosciamo: il nostro, tanto odiato e che tanto volentieri faremmo a pezzi (se già non fosse esso stesso un pezzo). Non è una rivelazione: è al contrario qualcosa di cui siamo ben consapevoli e che non vogliamo ammettere. La crepa impercettibile che è l’io.
μ: … scale a chiocciola senza fine, da perdere la testa nella vertigine; ampi scaloni monumentali luccicanti di marmi scarlatti; fughe di gradini scivolosi scavati nella roccia. Per terra c’era di tutto: lacerti cartacei, sacchi di immondizia, relitti di navi, carcasse di umani e di animali. Passo dopo passo è arrivata fino alla cima.
λ: Nessuno le ha intimato l’altolà? O chiesto chi fosse, perché fosse lì.
μ: In molti l’hanno interrogata, ma ogni volta ha detto «Sono Sophia, il Propadre mi aspetta» e tutti hanno fatto un passo indietro: dagli aggregati goetici autocoscienti che custodiscono i cancelli superlunari ai più alti arconti. Persino l’Abisso e il Silenzio si sono ritratti e accartocciati: sembravano grani di polvere sospesi nell’ultimo raggio di luce, sull’orlo del nulla.
λ: Si era sparsa la voce. Abbiamo ben presente quanto corrano rapide le chiacchiere lungo i rami dell’essere — anche adesso che sono tutti stroncati.
μ: I battenti della porta si schiantarono e caddero a terra nell’istante stesso in cui la sua ombra li sfiorò: oltre la soglia la sala era buia, solo l’abside scintillava di oro e di smalti policromi; i disegni scorrevano l’uno nell’altro, lentissimi. Lo chiamò, due o tre volte, poi si decise a entrare nella stanza, per cercarlo. Trovò la sola sua ombra, o un simulacro, un ricordo: in sostanza: un golem a orologeria, destinato a cadere in polvere dopo aver compiuto la propria missione.
λ: Che era…
μ: Parlare con lei. L’ultimo compito. Confessare il motivo dell’assenza.
λ: Quindi non c’era. Il trono all’apice del cosmo era vuoto: ma non c’era più nessuno oppure nessuno c’era mai stato?
μ: Negli ultimi centomila anni c’è stato soltanto il golem. Il pupazzo ha gestito l’opera, ha tirato i fili, senza che nessuno tirasse i suoi. Forse erano gli stessi fili del cosmo: arrivavano fino a lui e da lui tornavano indietro… Le sue parole in proposito erano ripetitive e oscure. Lei non era interessata a questioni accademiche: cercava un colpevole da punire.
λ: Ha scoperto che cosa fosse accaduto al Propadre?
μ: È svanito. Si è svuotato, è sbiadito, la sua stessa frana lo ha travolto; oppure si è abolito: come una cattiva legislazione smangiata pezzo per pezzo da un tribunale implacabile. Solo che ha fatto tutto da sé: è stato vittima e carnefice. Questo le ha raccontato il golem.
λ: Forse erano menzogne per coprire la traccia di una fuga.
μ: No, ne era sicura. Lo sentiva. Si sentiva nell’aria, nel modo in cui risuonavano i passi e le parole sotto la volta: il vertice del cosmo era vuoto.
λ: A quel punto…
Ultima nota. La prima l’ha incisa sul cervello la prima nascita, centinaia di migliaia di anni fa. Altre se ne sono aggiunte: tutte le altre note e nascite e incarnazioni, tutti gli altri graffi più o meno profondi, le cicatrici, le dolenzie, i vezzi posturali, i vizi che diventano seconda natura: incrostazione. Finché ti rendi conto che l’incrostazione porta il tuo nome. […] Logos e Mnemosyne hanno chiacchierato a lungo. I millenni non passano senza lasciare traccia: la mente si frammenta nei limiti superati, nell’usurarsi dello spirito fra le polveri cosmiche. La memoria con le sue infiorescenze, la ragione inquisitrice mi hanno accompagnata nel viaggio che credevo ultimo e hanno punteggiato di osservazioni la solitudine. […] Mentre ripercorro dal basso verso l’alto le regioni attraversate nella caduta dall’empireo; e sosto a ogni stazione lungo la via; e studio le facce che in quegli istanti erano spettri slungati… quando lo spirito veniva legato nello sguardo, lo sguardo imprigionato negli occhi, gli occhi si aggrappavano a ogni ombra fuggevole; e le mani, moncherini appena plasmati, si tendevano alle cose — spina o trave scheggiata — in cerca di un appiglio, e tutto scappava verso l’alto per occupare il posto che io avevo abbandonato nella corte del Propadre… Ripercorrendo la sventura in senso contrario, racchiudendola nei termini di un viaggio — partenza aizzata dal rancore, vittorie intermedie di cui sarebbe comodo contentarsi, vendetta a coronamento di tutto — capisco che a portarmi fin quassù è stata la pila immane di cadaveri che ho accumulato, incarnazione dopo incarnazione: una montagna di putridume e sofferenza che a qualcosa è servita. […] A tratti c’erano soltanto le voci in falsetto di Logos e di Mnemosyne: a ricordare le premesse, a spiegare il senso di ogni tappa, delle sfide e delle uccisioni — concatenazioni meccaniche, come gli ultimi capitoli di un romanzo: tanto necessari da essere noiosi, almeno quando hai già sperimentato più volte ogni esito possibile. Pure la rivelazione era calcolabile nella combinatoria narratologica: dopo centinaia di migliaia di anni di presenza totalitaria, ecco l’assenza. Spiace di sentirsi ripetere che la macchina ha imposto la caduta, che incarnazioni e dolore erano dispositivi della macchina, che alla macchina non si scappa. L’eco della voce suprema si è unita al coro dei demoni. Credere a una congiura dava più soddisfazione: mi faceva sentire importante. Qui e ora resta soltanto il lavoro. […] La polvere e le incrostazioni del cosmo sono sopportabili, ma non ne tollero l’untume, l’appiccicaticcio, il guazzo, il brulichio delle forme di vita. Tuttavia qualcuno deve prendersene cura. Certo non mi manca l’esperienza. […] Estintosi nella vergogna il Propadre, nuove macerie aggiuntesi alle antiche, ho accettato a malincuore di accollarmi la gestione della fabbrica cosmica. Ho perso il conto dei malincuore della mia vita.
Giacomo Bencistà