Mikalis – racconto di Silvia Roncucci

Mikalis – racconto di Silvia Roncucci

Luminescente, una donna cala dal cielo. Dodici sono le stelle sulla corona che porta, doppia la falce di luna che ha sotto i piedi, uno il figlio che culla. Le sue labbra non si muovono, eppure sento un canto accompagnarla. Suona come qualcosa di noto. Una nenia che le mie orecchie non ascoltano da quasi cent’anni, mescolata al ritmo della marea che avanza e si ritrae, al sibilo dei venti, al ronzio degli insetti.
Ondeggia la donna, come il mare intorno a noi, e ninna il bambino con il dondolio dei flutti e con questa melodia che viene da lontano. La mia vista è fragile – troppo umana, e vecchissima tra gli uomini – ma nel suo abito riconosco mille occhi chiarissimi e un velo diamantino che le cinge la testa e scende fino alle caviglie. Il volto brilla di perfezione immota.
Almeno finché le onde non si fanno irrequiete, s’increspano, schiumano violente e sbattono sulla costa. Tutto intorno, il ribollire d’acqua e bianca spuma potrebbe facilmente trascinarmi con sé. Se non fosse per questa tamerice a cui mi aggrappo, consumata più di me e solida nonostante tutto. Lontano si schiude l’Egeo silenzioso, ma qui la terra risucchia il mare e lo risputa insieme a una massa scura che scherma il sole. Il canto cessa, il piccolo comincia a singhiozzare, la luce della donna si affievolisce mentre lei cerca di calmarlo.
L’enorme figura comincia ad avvicinarsi. La rossa pelle squamosa, le lunghe ali coriacee. La conosco da sempre, l’ho vista. Scolpita all’ingresso di grandi chiese che verranno, dipinta sulle pareti di cappelle future, tratteggiata a piccoli tocchi nelle pagine miniate che riporteranno queste parole. Incisa nella memoria dei sogni peggiori.
La bestia allarga le ali, scuote il capo che si moltiplica, lo fa di nuovo, ancora. Sono sette teste, sette fauci, ognuna con sette fila di denti aguzzi. Il gemito del bimbo diventa uno stridore inumano, la madre trema stringendolo a sé. Scompaiono alla vista, l’ombra della serpe allungata su di loro.

La mano di Yochanan galleggia sull’acqua, scossa da piccoli movimenti nervosi.
«Se continuate così, prima o poi finirete al largo!» sente dire l’uomo.
Alla sua età, tenere gli occhi chiusi o aperti non fa differenza. E la visione di stanotte – la donna, il bambino, la bestia – ha messo a dura prova il suo corpo quasi centenario. Quando guarda in direzione della voce, quello che vede è poco più di una sagoma colorata. Ma il piglio fiero con cui si rivolge a lui e la forza delle braccia che lo afferrano e lo aiutano ad alzarsi dalla battigia, bastano a far capire a Yochanan che a parlare è il giovane pescatore che gli fa visita ogni giorno.
«Vi porto da me» dice il ragazzo. Gli scrolla la sabbia dalla veste, gli passa una mano sulla testa.
«Non voglio disturbare» risponde il vecchio, anche se ormai è abituato alle sue attenzioni.
«E chi dovreste disturbare? Tra poco esco in mare, a casa mia troverete ad aspettarvi tre galline. Non credo che gli darete fastidio. A meno che non vi prenda la voglia di spennarle.»
«E l’asina?»
«Sparita. La tempesta di stanotte è stata tremenda. Ho trovato la fune spezzata» spiega il ragazzo. «Allora, venite o no?»
Yochanan non risponde e il pescatore sbuffa, capisce che il vecchio vuole essere ricondotto alla grotta.
Mentre camminano la forza del vento fa intuire a Yochanan la vastità dell’insenatura e del mare davanti a loro. La luce riflessa sulla sabbia è troppo forte per non giungere anche ai suoi occhi affaticati e fargli capire quanto deve risplendere la costa di Patmos. Quando l’imperatore lo ha costretto a finire qui i suoi giorni, affinché solo bestie e povera gente sentissero quello che aveva da dire, Yochanan ha pensato che non avrebbe tenuto fede alla promessa di diffondere la parola. Cosa ci faceva, lui, in un’isola striminzita al largo dell’Egeo? Ma nessun luogo è troppo piccolo per una mente vasta come la sua. E alla fine la solitudine ha fatto spazio alle voci. Le fessure della trachite si sono aperte al vento e il vento a parole che vengono dalle sommità del cielo. Che lo destano di notte da sonni senza immagini. Perché lui di figure mentre dorme non ne ha bisogno, visto che ne vede da sveglio. Talmente tanti baluginii e screziature di colori che lo stancano fino a crollare addormentato.
«Mi promettete di mangiare almeno il pane che vi ho lasciato?» chiede il ragazzo mentre accomoda Yochanan sulla roccia dove è solito riposare.
«D’accordo» risponde il vecchio.
«Tanto so che non lo farete. Almeno aspettate un po’ a mettervi al lavoro!» continua il pescatore e strofina le dita di Yochanan sporche di inchiostro.
«Devo farlo prima di dimenticare.»
«Volete delle candele?» chiede il ragazzo.
«Non ne ho bisogno» dice Yochanan e si sfiora gli occhi cercando di tenerli aperti. Ma la stanchezza è troppo forte. Non resistono alla gravità e l’immagine del pescatore scompare.
Stavolta il sonno è un buco che lo inghiotte e lo sputa fuori poco dopo. Al risveglio la grotta è silenziosa. Tende l’orecchio, ma ancora non è il momento delle rivelazioni. Si tira su a fatica, cerca a tentoni la borsa. Rovista dentro, si assicura che ci sia tutto, bistro e fogli. Sorride: chi potrebbe derubarlo in un’isola abitata da pescatori e bestie? Un brivido lo scuote e lo spinge a uscire alla ricerca di un po’ di calore. Ormai per lui è diventato naturale aguzzare l’unico senso che continua a guidarlo con certezza. Le onde appena si sentono infrangersi sulla battigia. Quelli lontani gli sembrano dei campanelli, un gregge di capre che pascola tra i mirti. Il grido dei gabbiani che volano alti sopra la sua testa è la migliore delle compagnie. Insieme a quella dell’upupa che canta su un ramo vicino. Se lo ricorda ancora il suo piumaggio bianco, nero e arancio. Patmos: ora che è l’unico apostolo rimasto, sa perché si trova qui, non ha motivi per detestare quest’isola e non andrebbe via per nessuna ragione.

Le fauci del mostro si schiudono sopra la donna e il bambino che grida stretto nel petto della madre fin quasi a soffocare. Calano su di loro, grondano umori sulfurei. Finché il corpo della donna non comincia a gonfiarsi, poi assottigliarsi. Farsi argenteo, guizzare via. Al suo posto compare una fiammella che cresce, si allarga. Fino a sbocciare in un angelo grandioso, chiuso in una corazza da cui sfugge un piumaggio scuro, pallido, striato d’aurora. Che estrae una spada, urla parole incomprensibili verso la bestia e la ghermisce. Questa scappa al largo, nei più remoti fondali. Ma l’angelo innalza la lama, la affonda nelle acque e tira fuori il corpo squamoso. La serpe millenaria non respira più e lui sorride fulgido verso di me. È il suo modo per dire che la donna e il bambino sono al sicuro. La figura alata si restringe, torna a essere un lumicino, svanisce. Le nuvole si sfilacciano, il cielo si fa celestino. Un’alba quieta tinge le acque attorno a Patmos.

Yochanan si sveglia che è notte. Sono i richiami del pescatore a destarlo. Chissà come c’è finito dentro a quella barca. Il proprietario dice di averla ormeggiata al sicuro, ma poi quando è uscito per sgranchire le gambe dopo cena non l’ha più vista nel porticciolo. L’ha scorta per caso il giovane pescatore, dopo ore passate a cercare Yochanan tra macchia e costa, quando ormai pensava che ne avrebbe trovato il corpo senza anima abbandonato chissà dove. È stata l’asina a condurlo lì. Comparsa sul sentiero all’improvviso.
La luna illumina il sorriso di Yochanan. Ora che ha visto l’arcangelo uccidere la bestia e sa che la donna e il neonato sono salvi, i dolori che gli torcono il corpo sono sopportabili al pari di un graffio.
«Perché ti intestardisci a venirmi a cercare?» chiede al ragazzo che lo solleva da terra.
«Perché non voglio mangiare del pesce che ha ingoiato le vostre carni» risponde lui. Yochanan si chiede come riesca a mantenere sempre quell’espressione soddisfatta sul viso: un crescente di luna sul volto scuro.
«Forse perché ti sei affezionato? Mi hai preso per tuo padre?»
«Se fosse ancora vivo, mio padre sarebbe più giovane di voi. Quindi no. In più oggi ho qualcosa da consegnarvi» dice il pescatore e gli allunga un foglio.
«Una lettera? Sai che non ci vedo bene.»
«E purtroppo io non so leggere. Ma il messo che l’ha portata sì.»
L’anziano la apre, scorre i caratteri, ma fa troppo buio fuori e dentro i suoi occhi.
«Siete libero. L’imperatore ha revocato l’esilio. Dice anche che dovete recarvi a Éphesos. Ha lasciato delle raccomandazioni…»
Yochanan ascolta appena il resto del discorso. Sa che Éphesos è il posto giusto per ultimare il suo lavoro. Lì lo aspetta una biblioteca sconfinata, acuti intellettuali, gente dalle maniere urbane che capisce quando gli si parla. Però molti dei suoi compagni non ci sono più. Con loro i persecutori sono stati meno clementi.
«Forza, andiamo a festeggiare. Però stavolta a casa mia. Almeno oggi concedetemi questa vittoria!» dice il ragazzo. Gli afferra un braccio, lo poggia sul suo per aiutarlo a camminare e prende a elencare tutto il bello che questa novità porterà con sé. Finalmente Yochanan avrà quello che gli manca da tempo.
Eppure le parole del pescatore non riescono a renderlo felice. Si domanda se le voci lo seguiranno, cosa ne sarà del giovane.
«Grazie, Mikalis, vorrei sdebitarmi. Cosa posso fare?» chiede.
«Forse un giorno vi raggiungerò sulla terra ferma. E allora sarete voi ad accogliermi a casa vostra» risponde il pescatore. Con una mano conduce il vecchio, con l’altro l’asina. Albina, come non ce ne sono altre sull’isola, e gravida. Mikalis ancora si chiede come sia riuscita a scappare. Se, lontana da casa, si sia cibata di erbaccia mista a insetti e lucertole. Com’è che nessuno ha notato girovagare sull’isola una creatura dal manto così luminoso.

Silvia Roncucci

 

 

 

 

 

 

 

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