La striga del paese di C. – racconto di Martina Amari

La striga del paese di C. – racconto di Martina Amari

Tutti al paese di C. dicevano che la Teresa fosse una striga. «Vedete il neo sotto il mento?» commentavano le vecie tra loro, sulle carèghe davanti agli usci. «L’è uno dei segni che il demonio le ha lasciato sul corpo…» Si vociferava che, la notte, uscisse di casa e, col favore delle tenebre, ballasse danze sfrenate al limitare delle acque, in compagnia di demoni e altre strighe e capre e caproni e serpenti e corvi. Danzavano fino al sorgere dell’alba, quando la luce tingeva di rosa i fuochi ormai spenti di falò ancestrali e pagani, odore di bruciato e sangue.

Si vociferava, quindi, ma non si sapeva da chi fosse stata effettivamente vista danzare.

Tutti gli uomini la desideravano, e la odiavano perché non potevano averla; tutte le donne la odiavano perché i loro òmeni, tutti indistintamente, la guardavano, quando passava davanti a loro nella piazza principale, l’abito scuro che si accorciava man mano che lei cresceva, e lasciava intravedere i polpacci sodi e abbronzati per il lavoro nei campi. Veniva guardata come qualcosa di proibito o di maledetto, o forse tutte e due le cose insieme. Teresa non si curava di nessuno, però, ed era questo, forse, più di tutto il resto, più di tutte le voci, a renderla colpevole agli occhi del paese di C.

«Ma l’è vero che non ti prème?» le aveva chiesto la Giovannina in un giorno di settembre, mentre l’aiutava ad intrecciare i lunghi capelli scuri che tanto facevano scalpore in paese – «capelli da striga, questo l’è certo», dicevano.
«L’è vero,» aveva risposto lei scrollando le spalle coperte dal suo scialle, il suo unico scialle, nero con ricami di fiori.
«E com’è?»
«Cosa, com’è?»
«Fregarsene.»
Teresa non aveva saputo risponderle. Come avrebbe potuto spiegarle com’era vivere come viveva lei, con le voci sulle spalle come lo scialle che portava ma più pesanti, mentre cercava di scrollarsi gli occhi di tutti da dosso, e desiderando soltanto di essere lasciata in pace a badare alle cose sue.

E, cosa più importante, non poteva certo dirle che era vero che danzava fino all’alba, che era vero che parlava col demonio e ne era serva, sorella, amica, amante.

Teresa odiava il paese di C., lo aveva sempre odiato, ma da lì non poteva certo andarsene, non aveva gli schei. Di tutto il paese, però, chi Teresa odiava di più di tutti era don Silvano, il parroco della cesa di San Bartolomeo – e don Silvano odiava lei, o per lo meno la temeva, a giudicare da quante volte si faceva il segno della croce al suo passaggio. Era solito spazzare il sagrato tutte le mattine, cascasse il mondo, nello stesso momento in cui Teresa passava di lì, un fazzoletto legato sotto il mento, per recarsi al marcà a fare compere per la famiglia, e l’uomo interrompeva sempre la sua appassionante attività per guardarla passare, gli occhi stretti stretti, carichi di sospetto, mentre si faceva il segno della croce e sussurrava qualche preghiera. Per lui era solo la striga – e così era rimasta per tutti, sempre, al paese di C.

A dirla tutta, Teresa odiava don Silvano sia in quanto prete – «brutta rassa», come diceva sempre suo padre, quel bona anima – sia in quanto òmo, e non sapeva ancora per quale delle due cose lo odiasse di più. Quell’odio si era concretizzato, però, e da teoria era diventata pratica un giorno d’estate.

Teresa aveva circa quindici anni quando la sua amica Maria, tredicenne, le aveva raccontato che cos’aveva fatto don Silvano durante la confessione: aveva allungato la sua mano tossa e unta e dalle unghie sempre luride di nero sulle sue cosce e, senza che lei fosse d’accordo, l’aveva fatta scivolare sotto la sua gonna per toccarla tra le gambe, «propio là in mezo», aveva sussurrato Maria, le mani davanti alla faccia, mentre sedeva di fronte a Teresa, la voce scossa dal pianto, e il porco aveva continuato anche davanti alle sue lacrime di putìna, finché Maria non era scappata, preda della vergogna più nera per qualcosa di cui non aveva colpa alcuna.

Teresa gliel’aveva fatta pagare, però, oh sì: «che gli venga un cànchero, a quello stronzo!», aveva sussurrato dopo che Maria se n’era tornata a casa sua, mogia mogia, e lei era rimasta sola, seduta nella piccola cucina calda, a guardare le formighe scivolare quatte quatte lungo il riquadro della finestra, e a desiderare di vederle morire di una morte lenta, in un’agonia che non si meritavano. In fondo, loro non avevano colpe, tranne quella di essere capitate davanti ai suoi occhi nel momento sbagliato.

Don Silvano non era morto, però, no, per sommo dispiacere di Teresa, ma aveva trascorso un mese a letto affetto da non si sa quale oscura malatia. La perpetua aveva spettegolato al marcà, sussurrando riguardo certi dolori «là davanti», ovviamente senza dettagli, ma quasi tutti avevano capito senza bisogno di altre parole. Qualcuno aveva ridacchiato, qualcun altro si era voltato, bofonchiando parole di scongiuro miste a mezze preghiere, e c’era anche chi aveva deciso di diffondere ulteriormente la notizia, tanto che erano venuti a saperlo persino nei paesi vicini.

La sera in cui Teresa aveva appreso della guarigione di don Silvano, si era recata d’istinto alla palude. Ci andava spesso, per pensare e parlare con i fantasmi. Questo non c’entrava nulla col diavolo e i demoni e le loro danze. Era una cosa di famiglia. Sua nonna le raccontava sempre che le sue antenate dormivano nelle acque piatte e salmastre del Po, i loro spiriti incastrati tra le piante e le alghe e le dune di sabbia, i loro occhi riflessi negli occhi delle anguille che le popolavano, ecco perché, nella famiglia di Teresa, non si mangiavano, mai. Ci andava spesso anche a porre domande, che non sempre trovavano una risposta, ma lei stava meglio anche soltanto dopo aver parlato liberamente di ciò che la angustiava.

Quella sera d’estate, seduta ai confini della sua palude, nuvole minacciose di pioggia color acciaio accalcate all’orizzonte, la tempesta dentro di lei, Teresa aveva richiamato tutti gli spiriti vecchi e nuovi e, sul suo stesso sangue e la sua futura progenie, aveva chiesto di vederlo morto. Anche non subito, «ma presto, per favore», quando gli spiriti sarebbero stati disposti. Per una volta, non aveva semplicemente domandato, aveva espresso un desiderio. Sapeva che le sarebbe costato, gli spiriti non davano mai nulla senza aspettarsi qualcosa in cambio: un giorno, prima o poi, sarebbero giunti a saldare il conto.

Innumerevoli anni dopo, quando l’acqua aveva sommerso il paese di C., portandosi dietro numerose anime – innocenti e non -, e i fantasmi avevano bussato alla porta di Teresa per essere ricompensati, don Silvano era morto già da un pezzo. Un giorno, pedalava lungo il Po al calar del sole, ed era semplicemente sparito. Qualcosa – o qualcuno – lo aveva trascinato via, e nessuno lo aveva visto più.

Martina Amari

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