La foresta nella cantina – racconto di Emanuele Arciprete

La foresta nella cantina – racconto di Emanuele Arciprete

Perché, sebbene l’oblio abbia lenito le mie ferite,
so che rimarrò sempre un estraneo, un intruso in questo secolo
fra coloro che sono ancora uomini.

H.P. Lovecraft, L’estraneo

 

Privazione

Non avevo mai conosciuto gli specchi.
Ovunque andassi, dal piano terra alla soffitta, mi era negata la possibilità d’incontrare superfici di vetro, d’argento, di bronzo o di marmo – ovvero tutte quelle superfici che vantavano anche un minimo potere riflettente. Allo stesso modo, mi era impossibile uscire sulla veranda o scorrazzare nei giardini, poiché trovavo sempre chiuse a chiave le porte della casa; e persino quando si trattava d’immergermi in una vasca e strofinarmi una spugna addosso, operazione nella quale non ero affatto aiutato dai servitori, dovevo prima porre una benda sugli occhi.
Solo nell’oscurità delle cantine riuscivo a sfiorare con le dita un vecchio lavabo, dove si andava accumulando un’acqua cupa e stagnante; ma per farlo, per sottrarmi cioè alla perenne sorveglianza degli abitanti della villa, ero costretto a prestare la massima attenzione mentre scendevo di soppiatto per le scale che, oltre una botola, conducevano ai sotterranei. Una volta laggiù, con il solo ausilio di una candela, avanzavo fino all’angolo remoto presso cui sorgeva un cisterna ormai in disuso. I sotterranei erano un luogo umido e inospitale: l’aria sapeva di terriccio, e non vi si udiva altro che il frullio e lo zampettio furtivo di qualche animale; eppure era lì che l’acqua mi accoglieva benevolmente come un’amica – l’unica che sentissi di avere. Ce ne stavamo insieme per tutto il tempo di quelle mie occasionali evasioni, io carezzandola con timore, lei oscillando e poi subito ricomponendosi in un vago riflesso tremolante; e alla fine congedarsi risultava sempre doloroso. Ma non potevo correre il rischio che la mia assenza fosse scoperta da qualcuno. Men che mai dalla nonna. Era proprio lei a impartire disposizioni tanto severe, rivolte sia ai servitori, sia a chiunque passasse per la casa, affinché fossero mantenuti intatti quei teli enormi, vaporosi e tentacolari, che piombavano tetramente sul pavimento, e che avvolgevano le pareti della villa come schiere di fantasmi fluttuanti.
Un’usanza bizzarra, mossa da ragioni ancor più bizzarre… ossia dalla volontà di nascondere il mio riflesso. A dimorarmi nel volto, infatti, erano orrori raccapriccianti, dei quali a stento si sussurrava tra le pareti domestiche; ma in cosa consistessero non mi era lecito saperlo. Entrambi i nonni evitavano l’argomento, imitati anche dagli altri amici di famiglia, e dappertutto nei miei confronti aleggiava un senso di ribrezzo e repulsione – sentimenti con cui mi scontravo quotidianamente, ad esempio quando me ne andavo girando per la casa, magari intento a far rimbalzare la palla lungo i corridoi, ed ecco che nel vedermi arrivare, come i topi alla vista di un gatto, così le serve si rimpicciolivano sopraffatte dal terrore, e ciascuna di loro, senza riuscire a osservarmi negli occhi, sussurrava un flebilissimo: «Pietà!».
Inevitabilmente ne soffrivo molto, e non potevo far altro che interrogarmi su quale potesse essere l’elemento del viso, del corpo, della pelle, dell’ossa, in cui germogliava il maledetto seme della mia mostruosità. Trascorrevo ore e ore nell’atto di tastarmi, d’ispezionarmi, d’indagarmi, mentre la mente elaborava centinaia d’immagini diverse, le più tristi e lontane dall’innocenza; ma per quanto mi sforzassi di comprenderne la vera causa, non vi riuscivo mai fino in fondo, e questa terribile impotenza finiva per tormentarmi. Alla fine mi rassegnavo a ritrarre le dita e a mormorare una preghiera che, rabbrividendo, mi moriva rapidamente sulle labbra. Quindi non osavo più toccarmi per intere giornate.


Compagni di gioco

La mia colpa emergeva da ogni cosa – qualunque oggetto con cui entrassi in contatto.
Persino i pochi pupazzi che custodivo sul fondo di una vecchia cassa, e che, prima di essermi consegnati, venivano condotti in esilio presso la cascina del giardiniere, dove si provvedeva a giustiziarli con un paio di cesoie. Una sorte simbolicamente uguale alla mia. In totale mancavano all’appello gli elmi di due cavalieri, la corona di un re, la chierica di un frate, le serafiche bellezze di una fanciulla e il sorriso variopinto di un giullare.
Eppure quei pupazzi sapevano sempre tenermi compagnia, nonostante la loro menomazione. Ogni volta che mi rintanavo nella mia stanzetta, consapevole che nessuno avrebbe violato l’intimità di quel luogo, mi affrettavo infatti ad aprire la cassa, armeggiavo con scatole, cuscini e assi di legno, e in questo modo allestivo un discreto teatrino, dotato pure di un palcoscenico, sul quale recitavo ciò che appariva come un vero e proprio raduno di spettri. A variare il copione provvedeva la mia sola fantasia, che traeva alimento dai libri sfogliati nella biblioteca di famiglia, o dalle fiabe risalenti ai tempi della balia (una donna incline a sciorinare innumerevoli storielle avventurose, nella speranza di farmi stare zitto e buono).
I pupazzi non sollevavano obiezioni se il loro ruolo mutava da una recita all’altra, o se un improvviso colpo di scena invertiva lo schema dei personaggi; sembravano anzi tollerare ogni mio intervento. Ed io, forte della loro alleanza, li invitavo a danzare tra gli stucchi e gli affreschi di un salone imperiale; li spedivo nel cuore di una fragorosa battaglia; li esortavo a complottare contro una monarchia dispotica; oppure, inseguendo un sogno amoroso, univo in un solo bacio le loro labbra incorporee. E nel frattempo fingevo che, al posto di una delle teste mancanti, vi fosse la mia.


Nascita

Mi sarebbe piaciuto avere fratelli o sorelle, ma purtroppo ero figlio unico, e da sempre – o, meglio, fin da quando ne serbassi memoria – vivevo soltanto con i miei nonni, esclusi i quali avevo contemplato pochi altri membri della famiglia. Ricordavo, ad esempio, il volto di una prozia dalle fattezze mummiesche, quello di uno zio dal monocolo abnorme, o quello di due cugini, maschio e femmina, più grandi di me di qualche anno, che un pomeriggio erano stati invitati da noi a bere il tè, e che per l’intera durata della loro visita mi avevano lanciato delle occhiate antipatiche e penetranti.
In compenso, ero consapevole di quanto si diceva dei miei genitori.
La nonna raccontava come mia madre fosse morta nell’atto di consegnarmi al mondo.
Quella notte riluceva una luna fosca, mezza divorata dalle nuvole, e la poveretta in procinto di partorire aveva intriso le lenzuola di tutto il sangue che le scorreva in corpo. Inutilmente si era dato l’allarme, facendo accorrere medici e infermiere dal vicinato, nonché dalle contee più prossime: nulla era valso a sottrarla dal proprio martirio.
Un aneddoto in particolare, sebbene rivelatomi a fatica, riusciva a lenire la sua mancanza.
Subito dopo avermi estratto dal ventre materno, i dottori erano inorriditi, e coprendomi in fretta e furia con vari lenzuoli, mi avevano occultato alla vista di lei. Questo perché, secondo il loro parere professionale, la moribonda avrebbe senz’altro ricevuto un trauma devastante nel vedermi così mostruoso. Le sue membra avevano oltrepassato il limite della fragilità, e dunque sarebbe stato come macchiarsi di un delitto o come facilitarne il compimento.
Mia madre, tuttavia, non si era piegata di fronte al divieto, e strillando e dimenandosi nel letto, da creatura orgogliosa e testarda qual era, aveva imposto che fossi ugualmente posato tra le sue braccia. Soltanto allora, benché con notevole disaccordo dei presenti, era stata accontentata… ed ecco che, nello stupore generale, subito mi aveva stretto a sé, rivelandosi amorevole nei gesti e nelle parole come solo una madre può essere. Malgrado il palese scempio del mio aspetto, non aveva tentennato un istante, né aveva fatto cenno di volermi restituire ai servitori, anzi si era affrettata a baciarmi la testa, a passarmi la punta delle dita sul nasino, a soffiarmi sulle gote e sulla fronte, persino a intonarmi una flebile ninnananna, presa da un ingenuo e spensierato diletto dell’animo, da un sussulto di autentica felicità.
Di fatto è stata l’unica volta in cui abbia giocato con mia madre. Il dolore maggiore mi deriva dalla consapevolezza che, tra tutti, quella donna sia stata l’unica a porgermi un sorriso, e propriamente ad amarmi, anche se per pochi attimi.
Poco prima che rintoccasse l’ultimo battito del suo cuore, eravamo ancora avvinti l’uno all’altra, la sua guancia umida di lacrime contro la mia, e un sorriso le sfumava con tenerezza il contorno delle labbra. Allora con un filo di voce aveva sospirato: «Sei la mia ribellione più grande. Quella di cui vado più fiera.»


L’enigma dei mondi

La nonna concludeva i suoi racconti descrivendo i pregi di una fanciulletta tanto piccola e deliziosa – così definiva mia madre, in quanto doveva avere quindici inverni quando morì – la cui bellezza non conosceva eguali. Chiunque al suo cospetto ne lodava lo splendore, la venerava estasiato e non poteva esimersi dal paragonarla ai fiori più candidi e vermigli. Come le rose venivano coltivate nelle aiuole dell’antico giardino che circonda la villa, ugualmente mia madre, in base ai racconti, spandeva i suoi profumi e le sue beltà tra i muri di casa. Ma il significato di quelle metafore, formulate da ambedue i nonni, e parimenti sostenute dagli altri ammiratori, si preannunciava fin troppo chiaro: mi si accusava di essere ancora imbrattato del purissimo sangue materno.
Eppure, malgrado quest’adorazione nei suoi confronti, pare che i pregi di mia madre non bastassero a frenare una certa perplessità destata dal suo comportamento: nel parlare di lei ci si lamentava, anzi, di un fatto preciso. Ciò era da considerarsi, ed io credo giustamente, come un’ovvia conseguenza della metafora poc’anzi illustrata, ovvero della natura che lei condivideva non solo con le rose ammansite del giardino, ma anche con quelle selvatiche dei boschi. Di solito queste ultime, baciate dal muschio tra le pietre dei muri, sono pure più ammirevoli, perché si imporporano, e vivono e muoiono, avendolo deciso loro, sovrane della propria sorte, non perché qualcun altro le abbia piantate.
E mia madre era appunto fatta così. Il suo splendore sapeva ammutolire, ma il suo spirito ribelle, insofferente alle regole della famiglia, faceva storcere il naso. Accadeva, infatti, che scomparisse dal mattino alla sera, e qualche volta addirittura per diversi giorni di seguito, nell’intento di fuggire attraverso i sotterranei, fino a superare le foreste cresciute nei meandri più oscuri della tenuta, dove un tempo era esistita – e dove forse non aveva mai smesso di esistere – una via che scavalcasse i confini tra il nostro mondo e quello di sopra…
Sopra cosa? Lo ignoravo, e ancora oggi non so darmi una risposta. Ho ispezionato in lungo e in largo le cantine, senza scovare né vie né foreste, ma solo vecchissime radici inglobate dai mattoni. Immagino che qualcuno, dopo la morte di mia madre, debba averne volutamente sigillato l’accesso, e ciò spiegherebbe perché i miei nonni, l’uno morsicando una pipa d’osso, l’altra intenta a filare come un ragno vicino al fuoco, non di rado se ne uscissero con espressioni ambigue, per me incomprensibili, quali: «Che razza di follia. Avremmo dovuto pensarci prima.»
«Il varco era così lontano, così nascosto dalla vegetazione, non potevamo sospettare lo usasse.»
«Per far cosa, poi? Per spiare lassù!»
Altro non so dire, se non che mia madre dovette davvero scoprire un modo di sgattaiolare altrove. E proprio durante i suoi vagabondaggi, con ogni probabilità, conobbe mio padre. Di lui non si parlava affatto volentieri, e sul suo conto sapevo pochissimo. In famiglia si diceva fosse un ciarlatano, un reietto, un profeta caduto, e tutti si univano violentemente nel decretare che non meritava mia madre, poiché l’aveva sedotta con l’uso della menzogna (e la menzogna ricorreva come un’arma tipica per quelli della sua razza, un tempo forse dignitosa e affidabile, ma ora in grave decadimento). Il suo esempio era dunque inconfutabile, e fungeva da monito per gli altri membri della famiglia: mai mischiare il sangue dei mondi. Altrimenti si sarebbe ottenuto un abominio identico alla mia nascita, senza assoluzione.


Un caso medico

Ogni settimana un caotico andirivieni riempiva le sale della villa, dove i nonni invitavano regolarmente una folta schiera di medici, nella speranza che prima o poi si ponesse termine alla deformità del mio volto.
Eppure non mi sentivo affatto tranquillo nelle mani di quegli scienziati.
A spaventarmi, oltre alle loro barbe melliflue, alle parrucche scarmigliate e alle maschere da monatti, erano soprattutto i loro movimenti, accentuati dagli abiti che li avvolgevano dentro strani bozzoli, e le cui estremità giungevano a sfiorare il suolo. In verità non pareva che i dottori muovessero i propri piedi, ma trasmettevano l’impressione di scivolare sulle mattonelle, in uno spettacolo luttuoso e quasi osceno da guardare, al quale si aggiungeva la parlata incomprensibile, quasi geroglifica, da cui emergeva un perenne disorientamento.
E, in effetti, nonostante la squisitezza del loro sapere, quei dottori non sapevano mai come comportarsi. A dimostrarlo era il modus operandi dell’arte medica che andavano professando, e che di volta in volta si ripeteva uguale: dopo avermi spogliato, si chinavano a osservare la mia pelle, inseguivano i colori dell’iride, ripercorrevano all’indietro il tragitto dei capillari sanguigni; e ovunque potessero farlo, mi perlustravano con una certa frenesia nelle varie operazioni chirurgiche, pronti a impugnare aggeggi metallici di loro invenzione e dalle forme più svariate.
A queste fasi seguiva l’atto impellente e riflessivo, sebbene altrettanto inutile, di prendere appunti, per lo più scuotendo la testa e mormorando formule ignote. Dalla perplessità si passava alla rabbia; dalla rabbia si giungeva alla frenesia di qualche nuova diagnosi; e così, dopo essersi scannati tra loro, dopo aver urlato invettive, aver consultato tavole anatomiche ed essersi immersi dentro vasetti pieni di unguenti, con grande desolazione terminavano l’indagine.
Un primo sentenziava: «Che scandalo! Che orrore! Quell’imbroglione di Ippocrate!»
Un secondo proponeva: «Andrebbe asportato il cranio. Un taglio netto e pulito.»
Un terzo accondiscendeva: «Per forza. Una cosa simile non può esistere!»
Al che avrei voluto urlare con ogni singola fibra del mio essere: “Ma io esisto!”
Eppure tacevo sempre, al colmo dello sconforto.
Quindi ciascuna visita si concludeva allo stesso modo. Puntualmente, senza aver ottenuto alcun successo, i dottori andavano via, salutavano e tutto; e puntualmente tornavano a esaminarmi. Forse speravano che un giorno la situazione mutasse, e che semmai io, il malato, consegnassi la chiave interpretativa del morbo. Ero nondimeno costretto a deludere le loro aspettative, poiché non sapevo in cosa consistesse la mia malattia; e durante quelle visite me ne restavo immobile come una cavia, un animaletto, un uccello in gabbia. Piangere e pregare di smetterla non serviva a niente: i dottori non prestavano la benché minima attenzione al muoversi delle mie labbra. Presumo che le parole da me pronunciate ricordassero i lamenti sconnessi di un infante malaticcio, chiuso nella culla come dentro una bara, al quale non si bada data la piccolezza. E, d’altra parte, cos’ero se non un bambino? Ma ciò importava assai poco: i dottori vedevano unicamente l’enigma del mio volto, e non nutrivano interesse a scrutare più giù, nella carne tremula, dove il cuore si torceva pur di esser notato.


Epifania

Poi accadde.
In quell’occasione era notte, e si udiva una tempesta furibonda graffiare l’atmosfera e far vibrare i vetri delle finestre nascoste. Fu a causa sua che mi svegliai. Ricordo solo che, dopo aver emesso un profondo e agonizzante sospiro, mi trovai immerso in un bagno di sudore. Avvertivo la necessità di uscire dall’abbraccio delle coperte che mi avviluppavano quasi completamente; perciò estrassi i piedi scalzi e li posi giù dal letto. Il pavimento era gelido oltre ogni misura, e non so se rabbrividii per colpa del freddo che mi trasmise il contatto, o se per l’effetto di una paura improvvisa.
Quando mi fui calmato, avanzai verso la porta della stanza immersa nelle tenebre più fitte, e da lì gettai una rapida occhiata al corridoio. Mi accorsi, con grande soddisfazione, che nessuno passava per quella parte della villa. Potrà sembrare una questione di fortuna, ma io dormivo isolato sia dai nonni che dalla servitù, e quasi sempre in quell’ala della villa regnava la quiete.
Presi dunque a camminare tastoni, un passo dopo l’altro, protendendo le mani in avanti, con le dita pronte a cogliere qualunque ostacolo. Un’angoscia serpentina strisciava dal fondo del mio smarrimento, ma riuscii a reprimerla per tutto il tempo necessario a raggiungere l’uscio del salone.
Il varco allora mi parve smisurato come una voragine: vi si udiva un battere frenetico e martellante. Evidentemente quella sera una delle serve aveva mal chiuso una finestra, dopo aver fatto rinfrescare l’ambiente; ed io ero attratto dal rumore che ora ne proveniva. Avvertivo il cuore venir mosso da una forza ipnotica e seduttrice a cui non potevo oppormi, e provavo anche un tremore profondo… finché, non senza una certa amarezza, rammentai chi fosse il vero mostro lì dentro. Ne conclusi che non avevo alcun diritto di assaporare una simile angoscia, essendo io stesso, semmai, a doverla incutere.
Nel frattempo il martellio della finestra incriminata risuonava sempre più secco e assordante, tanto da farmi stupire di essere ancora solo. Intuivo che però qualcuno sarebbe giunto da un momento all’altro, ed esitai nell’indecisione: non volevo mi sorprendessero intento a vagare, durante la notte, non più padrone del mio corpo e dei miei pensieri. L’episodio avrebbe scontentato gli abitanti della casa, e i nonni ne avrebbero approfittato per escogitare una nuova punizione contro di me.
Ma a causa di uno scherzo del fato – o forse oggi potremmo considerarlo un atto della provvidenza – non appena convenni che era meglio far ritorno nella mia camera, la finestra si spalancò del tutto, rigurgitando una matassa scalciante di tenebre, insieme a una raffica gelida che piombò all’interno della sala con una tale furia da trascinare numerose gocce di pioggia. Avrei desiderato fuggire via e ripararmi dietro un mobile, sotto un tavolo, addirittura in uno sgabuzzino; eppure qualsiasi pulsazione della forza che poco fa avevo avvertito nel cuore, di quell’energia misteriosa che mi aveva sorretto e guidato, adesso pareva non esistere più: si era prosciugata.
La raffica intanto scuoteva i tendaggi confusi con le ombre, e a un certo punto, vinta ogni loro resistenza, riuscì a strapparli e a sollevarli uno dopo l’altro. Subito fu come trovarmi a bordo di un veliero perduto tra le burrasche in alto mare, le cui vele colossali, non ammainate in tempo dalla ciurma, ora venivano squarciate, ora volavano via. Intorno a me nacque un unico fremito, un sollevarsi di tende, un incresparsi di lenzuoli e tovaglie.
E fu in quel momento che vidi!
Da uno dei tanti teli emerse la mia figura. Era bianca e tetra, simile a un cadavere vomitato dalla tomba. Nemmeno io so dire con quale nuovo impeto d’animo riuscii ad andarle incontro. Mi sentivo accecato da una curiosità sovrumana, e sotto il suo influsso attraversai il salone, diretto verso il terribile riflesso. Lo specchio si ingigantiva man mano che mi avvicinavo… e quale sgomento mi travolse appena lo ebbi raggiunto! Vidi i capelli, lunghi e corvini, incorniciare una fronte ampia, vestita di una pelle morbida, dove le due sopracciglia si arcuavano lisce e non troppo folte; vidi i miei stessi occhi verdi rilucere nell’oscurità, poco distanti dalle labbra quanto mai rosee e carnose; e vidi, con incerto stupore, la tinta purpurea delle guance rotonde, che si estendeva anche al resto del corpo, a sua volta proporzionato e armonioso in ogni dettaglio, dai morbidi fianchi alla carne dei muscoli.
Di colpo compresi la ripugnanza da cui era invaso il mio essere.
Un mostro! Un mostro!
L’orrore appariva tanto devastante quanto innegabile.
Stordito, dopo aver ondeggiato su me stesso, non percepii più le gambe sorreggermi, e caddi bocconi davanti allo specchio – quello specchio maledetto dentro il quale, troppo a lungo, era rimasta imprigionata la verità.
Fu come se il mondo intero avesse preso a strillarmi addosso.
Nella disperazione, annaspai verso le cucine e lì cercai un coltello; lo trovai; mi colpii al volto.
Quando infine qualcuno arrivò, boccheggiavo nel sangue senza proferire suono. Si pensò che fossi prossimo alla morte. Accorsero i medici. Adesso però, al posto del consueto sbigottimento, nessuno di loro reprimeva uno strano e macabro entusiasmo, e tutti facevano a gara per accarezzarmi con le mani unticce, congratulandosi per la vicina guarigione in un tripudio di applausi e di risa.
«Miraculum! Il paziente sta meglio.»
«Guardatelo, signori, è perfetto!»
«Un capolavoro. Avevo dunque ragione!»
Di lì a poco anche le sagome dei nonni fecero capolino sul tavolo dove i soccorritori mi avevano adagiato. I loro lineamenti apparivano rasserenati, e udii distintamente un sussurro benevolo di mia nonna: «Tranquillo. Ci siamo passati tutti.»
Quelle parole mi trasmisero nuova energia.
Mezzo stralunato, non riuscii a reprimere un sorriso di vittoria.
E per la prima volta mi sentii parte della famiglia.

Emanuele Arciprete

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