La festa degli apolli – racconto di Massimo Salvati

La festa degli apolli – racconto di Massimo Salvati

Vogliamo dire la verità?
Apollo è il dio dell’estetismo.
Quanto al mondo è più inconsistente,
più retorico, più isterico, lo ha eletto suo dio.
Alberto Savinio, Nuova Enciclopedia. 


I signori risalgono in fretta il pendio mentre i ragazzi corrono a riempire le ultime brocche; le ragazze ancora svestite prendono delle ceste di vimini e si dirigono all’estremità del perimetro. Qui ci sono orti pensili per piante mediche: giare contenenti arnica, calendula, borragine. Le ragazze le selezionano con cura; raccolgono gli steli migliori e si dispongono in fila dove il terreno pianeggia, appena prima della salita.
Una folla in processione intona un coro: una sola nota in un crescendo che si espande e risuona per ogni testa dell’enorme biscione. Ognuno ha le braccia cariche di doni: frutta matura e soda, pane appena sfornato, cesti con erbe aromatiche, agnelli macellati. Da un sentiero di ghiaia, mentre la fiumana avanza, il profilo della chiesa emerge sempre più distinto.
Un brusio si diffonde tra i pellegrini, unito a quello delle cicale e del fiume. Un vecchio col cilindro nero lustrato a lutto alza il braccio come segno di attesa. Procede da solo verso il piazzale, davanti allo sguardo curioso delle ragazze, mentre il canto ricomincia.
Da dietro una grande pietra bianca, una rascona a vela azzurra procede in modo rettilineo, leggera e sospesa; raggiunge la riva. Dalla cabina di poppa viene fuori un barcaiolo in camicia bianca. Da sotto la stiva due signori in abiti scuri sollevano una salma; la posizionano su una lettiga d’alluminio e la trasportano fuori dalla barca.
Le ragazze osservano gli uomini salire il declivio; spargono sulla strada le erbe mediche precedendo la bara, dopodiché la seguono inebriate da un forte profumo di lavanda.
Il vecchio sale la scalinata della chiesa e bussa alla porta. Alcune mosche ronzano attorno al cilindro. L’ingresso viene aperto: cinquanta giovani, venticinque ragazze e altrettanti ragazzi, sono schierati su ambedue i lati. Il barcaiolo varca la soglia e saluta con un cenno il vecchio col cilindro.
Il vecchio guida il barcaiolo e i portatori nella parte posteriore della chiesa. I portatori entrano in un salone dal soffitto dipinto di putti e edera intrecciata. Inginocchiandosi, poggiano la bara su dei cavalletti di ferro e scostano via il panno con cura.
Alla vista del corpo dentro la bara, alcuni dei discepoli più anziani faticano a trattenere le lacrime, eccitati dall’odore che si spande nell’aria. Vengono accesi dei grandi ceri rossi e viene oscurato il solaio; la poca luce illumina il volto di un giovane, la barba nero pece, i capelli arruffati, la pelle abbronzata.
Il vecchio col cilindro disegna una croce con le dita. Inizia a parlare: «Noi siamo oggi riuniti qui, miei cari fratelli, per celebrare uno dei più grandi uomini, santi, pii del mondo; l’apostolo della memoria, il santo che è anche il patrono di questa riva: Apollo». E comincia a pregare in ginocchio davanti alla salma. Dopo poco, si alza in piedi e si rivolge ai discepoli. «Ora, vi chiedo di aspettare fuori, così che inizi il processo di riconoscimento».
Davanti alla bara aperta rimangono solo il barcaiolo e il vecchio. «Nessuna vita è sferica, tranne la più ristretta» dice. Le mosche girano ancora attorno al cilindro.
«Confortante. La mia, del resto, lo è sempre stata» risponde l’uomo nella bara.
«Le vite strette sono presto colme, si svelano e hanno termine».
«Le larghe crescono lente, pendono tardi dal ramo». Si affretta a concludere l’uomo nella bara, e continua. «Ce lo ripetevano sempre, vecchio».
«Voi mi conoscete?»
«Vi ho sognato ieri notte. Sapevo che ci saremmo rincontrati. Morendo, sentivo un ronzio; poi il mare in burrasca. Ero tra due abissi: dietro di me la vita; sotto, l’Immortalità. Io al confine». Una pausa. «Tutta la vita solo per ritrovarmi nello stesso punto. Ironico» dice aprendo gli occhi. «Devo rimanere qui?».
«Non posso dirlo ancora». dice il vecchio. «Di che ‘punto’ parlate?».
«Sono in una bara…». Risponde l’uomo.
«Da tanto tempo? Sembrate comunque giovane».
«Non vi pare strano? Non me lo ricordo. A volte passano alcuni minuti, altre mi sembra di essere qui dentro da tutta la vita».
Il vecchio ha un’espressione confusa. «E viaggiate?».
«Dipende da dove viene dirottata la barca. Non la guido io. Penso di poter decidere dove andare ma quella cambia spesso direzione».
«È la folla ad avere questo potere. Vi evocano». Il vecchio col cilindro sorride mostrando denti bianchi e sani.
«Ma io ero vissuto volentieri e volentieri ero morto. Posso avere il diritto di non annunciarmi? Fidatevi che anche se volessi andare nel mondo, e ci andrei a mani vuote, non saprei che fare dopo». La voce dell’uomo si smorza in gola.
Il vecchio sembra riflettere; il suo sguardo è mutato. «Il viaggio deve avervi provato molto. Meglio distendere i sensi». Afferra due calici di vino da un vassoio d’argento.
L’uomo nella bara si sporge. Prende il calice e lo osserva. «Quanta eleganza…» manda giù un sorso. «I miei devoti mi trattano bene» dice sorridendo.
«Allora brindiamo ai devoti» suggerisce il vecchio, che intanto toglie il cilindro, ne estrae un involucro di carta e lo apre, offrendo all’uomo delle carne cruda, turgida e succosa. «Crudités di neonato» sorride, «i santi ne vanno ghiotti, è il miglior modo per riconoscerne uno». L’uomo si alza e afferra di scatto la carne, la porta alla bocca, comincia prima a succhiarla spingendo con i polpastrelli, poi la addenta, mastica con voracità mentre i succhi colano sulle mani. Il movimento delle dita ricorda al vecchio lo strisciare dei vermi.
«Sai, tutti pensano che ci importi dei devoti. Ma come potrebbe? Sono molti e così tanti quelli inutili. Li riconosco perché sono proprio come me: vanesi, fatui, insignificanti. E basta guardarsi intorno: tutti uomini belli con grandi spalle, con occhi come finestre a specchio che non vedono né dentro né fuori. Spesso capita che uno di loro aggredisca una mia devota per strada, a volte pure la uccide – les jeux sont faits –; o quanti si pavoneggiano come se fossero l’Apollo del Belvedere, mentre le mogli preparano la cena, i figli siedono al tavolo, i piedi sulla sedia, lo sguardo di vergogna e neanche una parola; chiedono alla moglie perché ha messo il pecorino che a lui non piace, siedono e dispensano, siedono e governano, siedono et imperano. Nessuno vede nulla. Uomini e donne, invece di tenere i piedi sul selciato si muovono come volando – bon voyage – e quando il vento cala si fermano e scambiano qualche parola – noblesse oblige –, ma quando la bonaccia riprende, i loro piedi si alzano e gli occhi hanno un’espressione divertita, euforica e ignava – ça va sans dire – ma io ho soltanto paura. Non avete idea di cosa sono le mie giornate».
L’uomo si ferma come a riflettere, aggrotta la fronte, beve un lungo sorso. «Sai che mi avete ispirato una canzone? La canto spesso durante i miei viaggi: “Produci e consuma fino al calar del giorno, la folle danza senza ritorno. Nasci, cresci poi sparisci ma nel mezzo non esisti!».
Il vecchio ha appena poggiato le labbra sul calice, ma subito lo posa a terra. «Avete detto di conoscermi…».
«Ti ho riconosciuto subito» lo interrompe l’uomo.
«Ma chi siete voi?» chiede il vecchio esitando.
«Stavi all’entrata, disposto tra gli studenti. Mi guardavi con i tuoi occhi neri, insolitamente seri. Sai, anch’io sono arrivato in questa scuola da giovane. Si parlava di un arrivo che avrebbe debellato il caos. Ci sarebbe stato un solo ordine puro. Ma alla fine sono diventato questo, mentre ero come te, anzi, mentre ero al tuo posto: qualcosa senza vocazione, senza amore, senza casa se non ospite di devoti non voluti, in una bara non mia, in una barca non mia, in una chiesa non mia, di una religione non mia, che costeggio mari e fiumi dell’oblio mentre l’aria che soffia sa di morte e fuoco. Ma dai, beviamoci su».
«Non invitarmi adesso, sono irrequieto». Il vecchio, in piedi appoggiato a una colonna, guarda dalla finestra e sfrega lentamente le mani. «Non penso tu possa fermarti da noi. La scuola è rinomata, abbiamo molti giovani da educare. Stavamo aspettando Apollo».
Detto questo, schiocca le dita e da alcune porte laterali in legno scuro entrano quattro uomini vestiti con lunghe stoffe cangianti, trafilate in oro. Avanzano con in mano dei doni, oli pregiati dell’est.
Il vecchio col cilindro riprende. «Comunque non ci pensare, è successo tanto tempo fa». L’uomo si adagia come improvvisamente stanco nella bara, comodo nel suo arazzo morbido e setoso. Osserva il suo tempio dall’interno, meditando, e sorride. «Immaginavo. Ditemi, come andrò via?».
«Siamo all’opera per organizzare la partenza». Il vecchio intanto fa segno al barcaiolo perché sbarri la porta.
«Ah, magnifico! Vorrei brindare ma ho finito il vino. Quando si parla così tanto si perde il conto del tempo e dei bicchieri».
«Prendete il mio. E non ci pensate più». Il vecchio gli porge il bicchiere.
L’olio è stato versato nelle fiaccole disposte in semicerchio attorno alla bara.
«Alla fine, la verità è che non c’è mai una fine. Ci prepariamo sempre per un’altra soglia. Ma a creare il prossimo inferno ci penserete voi» dice buttando giù il bicchiere. «Ai miei tempi arrivò una Patrona. E non era certo una cosa accettabile. Non avremmo potuto neppure organizzare la festa; così la portai in un fienile, di notte. Le recitavo versi mentre piangeva, mentre chiedeva cose incomprensibili e io non parlavo la lingua delle sue parti. Lei lottava, e anch’io lottavo per lei, per vincerla a terra. Poi silenzio, non parlava più. Dovevo andarmene, volevo sparire. Desideravo l’oblio e poi mi hanno scoperto…»
«Scusate un secondo» lo interrompe il vecchio.
Nella scuola inizia a montare un’agitazione crescente. Gli studenti sono stanchi di aspettare; vogliono adorare il dio Apollo. Cominciano a battere sulle pareti, tirano testate alle porte, sui giunti delle mura, inesausti. Non si ascoltano più lamenti, ma grida «Vogliamo vedere il dio!». A furia di colpi, nella porta è stata aperta una fessura piuttosto ampia, qualcuno vi fa passare la punta di una pala. Il barcaiolo prova a respingere l’assalto, blocca il varco con una tavola di legno.
«Tra poco entreranno» dice il vecchio. «Abbiamo finito il tempo, e non siete di certo voi colui che stavamo aspettando».
«Ieri notte, mi dicevi esattamente questo. Ma forse non era un sogno o ero solo io, al tuo posto. Perché succede sempre così?».
Le torce vengono esposte sopra la bara. Il vecchio estrae dalla tasca un fiammifero che muove verso l’alto, in maniera lenta sacralizza il momento. Con un guizzo del polso ruota il fiammifero; accende la prima torcia a destra, poi la seconda, così la terza e la quarta. Calano tutte assieme: lentamente il corpo si squama per una nuova pelle bianco rosea. Il vecchio fissa l’espressione beata dell’uomo nel mentre del suo lento essiccamento. Non tremano le mura, né l’edificio, né il fiume si rivolta, né una inondazione colpisce la casa. Si sentono solo le urla dei giovani.
«La prossima volta lo faranno anche loro. Verrà un giorno…» dice con voce sommessa, guardando l’involucro di carne che brucia con circospezione, come se gli richiamasse alla mente un ricordo, «e da lì tutto avrà inizio». Intanto, il barcaiolo non sembra sentire i colpi della pala sulla schiena, regge la porta poggiando le gambe forti a terra.
Il vecchio col cilindro guarda dalla finestra: l’agitazione ha contagiato i contadini e la festa è degenerata in saccheggio. Vede le ragazze svestite prese e trascinate lontano, le giare del giardino deturpate, il cibo buttato a terra, i vetri rotti delle damigiane, i corpi che si uniscono sui tavoli in più gruppi.
Il tempo di un’ultima preghiera prima che la porta ceda e la violenza esploda: il barcaiolo cade a terra, viene trafitto al petto con un’asta appuntita e poi un altro foro nel basso ventre, mentre altri ragazzi lo massacrano di calci e pugni con una furia animale. Il corpo tumefatto è una pozzanghera d’ossa e sangue.
Nell’aria c’è odore di incenso e lavanda, la santità evaporata è inalata dai ragazzi che si gettano in branco sul vecchio, lo spingono a terra, i fosfeni in testa: subito parte un calcio, poi un altro sul suo corpo che non striscia, non scappa, non si alza: rimane lì, schiacciato dalla loro furia.
Con gli occhi segue qualcosa che evapora al buio. Del sangue caldo cola dalla bocca. Un ultimo calcio allo stomaco e solo le urla dei ragazzi riecheggiano dal prato.
Quando la nebbia che li avvolge si dirada, quel primo orrore, lo smembramento, diventa orrore umano, diretto e non mediato. Uno studente si avvicina alla salma vuota: un cumulo di cenere e ossa è tutto ciò che rimane della venuta che gli era stata promessa.
Il vecchio, senza più il cilindro, si risveglia su una grande piroga nel letto di un fiume. Intorno, solo il rumore dell’acqua e delle cicale. Nota una cosa all’interno, nel legno è stata incisa una corona d’alloro. Guardando fisso avanti a sé, svetta un campanile sopra una foresta fitta. È affascinato dai suoni che riesce a percepire. Con la propria voce sente richiami, confessioni, preghiere; suoni morbidi e bassi che si riversano in eterno. Li coglie tutti insieme e in modo distinto. Veloci come lo scorrere del tempo.
Lentamente la barca si adagia a riva. Un signore in abiti eleganti avanza verso di lui e solleva la cassa in cui è steso. Da lontano, sul pendio a lato di una chiesa in mattoni, distingue una figura curva. Riconosce subito il cilindro lustrato a lutto. Dietro di lui, una folla pellegrina leva una nota in crescendo e sventola insegne porpora con i simboli dell’alloro. L’inferno ha qualcosa di circolare.

Massimo Salvati

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