La buca – racconto di Pietropaolo Morrone

La buca – racconto di Pietropaolo Morrone

Mu si era acchiocciolato nella buca, il fischiare del vento si fondeva agli ululati delle fiere mentre lui si stringeva nella pelle di renna fino quasi a scomparire. Guardava la notte attraverso un mucchio di sterpaglie, si leccava il sangue, pensava al ragazzo morto. Le ombre formavano un manto che si serrava sulla carne, sugli occhi, quasi nuove palpebre.
Lo avevano cacciato via dal villaggio per le sue colpe, e sarebbe rimasto da solo a vagare in un mondo sconosciuto, pieno di pericoli. Avrebbe saputo trovare un posto sicuro? Sarebbe stato in grado di mescolare frasche e fango per fabbricarsi un riparo? Era difficile trovare un’altra posizione come quella, tra le rocce e il fiume, al sicuro dai predatori.
In realtà, aveva il destino già segnato fin dalla nascita. La gobba sarebbe bastata a condannarlo a morte quando era piccolo se non fosse stato per la forza di Loc, suo padre, che era tra quelli che contavano nella tribù. Ma Loc ormai era morto, così come la madre Milla. La colpa più grande di Mu dipendeva da ciò che aveva fatto del corpo della donna. Ricordava quando era piccolo e lei lo portava con sé a raccogliere semi o bacche. Milla scavava una piccola buca per accomodare il bambino, tenerlo fresco e al sicuro. L’odore della terra, mucido ma sicuro come la placenta, era ormai fissato nelle narici di Mu e quando la madre lo riprendeva in braccio, assicurandoselo al corpo con calde pelli di animali, gli rimaneva addosso a lungo. Per questo Mu non poteva permettere che il corpo della madre fosse trattato come tutti gli altri.
La vita era dura e i morti sapevano essere più utili dei vivi nella caccia per la sopravvivenza. Lì al villaggio li usavano per attirare gli animali feroci, per poi circondarli e predarli. Mu voleva solo mettere al sicuro sua madre, scavare una buca come faceva lei, un po’ più profonda, per poi ricoprirla dolcemente di terra. Milla non avrebbe avuto più bisogno di uscirne, avrebbe potuto godere di quel profumo e di quel calore per sempre. E così aveva trascinato il corpo ancora caldo della madre, di notte per non svegliare gli altri, fuori dal villaggio, e lo aveva seppellito prendendosi tutto il tempo. Qualche giorno dopo, tuttavia, qualcuno scoprì quel bozzolo che sporgeva dal suolo come qualcosa di innaturale, di malato. Non gli perdonarono il gesto, quello spreco — che senso aveva interrare un morto? —, lo picchiarono a sangue, gli fecero sputare tre denti e lo cacciarono via. Non gli concessero più di un piccolo otre pieno d’acqua per permettergli di morire lontano a sufficienza.
Mu vagava da ore, il Sole cominciava a declinare, c’era da trovare al più presto un rifugio per la notte. Faceva ancora molto caldo ma piovigginava, l’odore di terra bagnata gli dava coraggio e la forza di risalire su per la collina. Aveva la gola secca, l’otre era quasi vuoto. Fu in quel momento che sentì quel verso lamentoso. Doveva venire da lì vicino. All’inizio pensava che fosse un animale morente, sarebbe potuto diventare la sua cena, avrebbe dovuto solo preparare il fuoco. Ma non era così. Dall’altra parte di un folto groviglio di vegetazione, sul ciglio di un crepaccio, un giovane uomo giaceva al suolo in posizione prona. Doveva essersi trascinato fino a lì, c’erano delle tracce, probabilmente lo aveva fatto per nascondersi. Il respiro affannoso scandiva il tempo, le labbra si muovevano lentamente come se stesse assaporando qualcosa.
Mu avanzava con circospezione. La testa grossa, gli occhi chiari, spalancati, la peluria sottile sul viso, le narici ostruite da sangue raggrumato, il ragazzo sconosciuto guardava Mu senza paura, ma anche senza energia. La terra intorno a lui si faceva più scura, zuppa del suo sangue. L’odore era forte, copriva il profumo di suolo umido. Presto avrebbe attirato gli animali.
Mu si avvicinò al giovane, lo girò su un lato e sollevò la pelle di renna che lo copriva. Una brutta ferita spiccava su un fianco. Mu non si era mai trovato in una situazione simile, però sentiva di avere bisogno di lui, pensava che insieme avrebbero potuto sopravvivere e anche magari divertirsi, giocare, e poi col tempo creare un’altra comunità, gli sarebbe stato grato e quello non lo avrebbe guardato storto per la gobba. Svuotò l’otre nella bocca del disgraziato. Erano pochi sorsi, il poveretto beveva con gli occhi chiusi, allungava la lingua per non perdere neanche le ultime gocce, una lingua secca e ruvida come una pietra. L’acqua si tingeva di rosso cadendo sulle sue labbra. Poi il silenzio. Mu gli asciugava la bocca con le dita. Qualche istante dopo, l’ansimare affannoso riprendeva a dare il tempo. Mu sciolse con le dita i grumi di sangue che occludevano il naso, ma le cose non miglioravano. La fatica per gonfiare i polmoni cresceva, si stava svuotando come l’otre. A quel punto, Mu estrasse un pezzo d’osso appuntito — Loc gli aveva insegnato come fare ad appuntire le ossa —. Sapeva che gli sarebbe servito prima o poi. Si incise il palmo della mano quel tanto che bastava per far sgorgare il sangue. Non era doloroso, si sorprese per questo. Continuò a tagliuzzare con quella punta grezza, sembrava volesse aggiungere qualcosa ai solchi naturali della mano. Ma il sangue già copriva tutto e niente si poteva distinguere.
Mu avvicinò la mano alla bocca del disgraziato, le labbra del giovane accarezzavano il palmo arrossato, succhiava quel fluido vivo. Mu muoveva con abilità il polso in modo da non far cadere neanche una goccia a terra. Il sangue stillava con continuità in un filo sottile, disegnava forme oscure sulla lingua del giovane. Strabuzzava gli occhi, i denti grondavano come se avesse appena morso una bestia sul collo. Mu gli posò il dorso dell’altra mano sulla guancia. Il respiro si faceva più regolare ma l’intensità si riduceva. Poi il ragazzo chiuse gli occhi come per addormentarsi. Mu lo scosse, prima dolcemente poi con violenza, ora era lui che ansimava sballottandolo, ma niente più turbava quel sonno profondo e sereno. Forse il sangue non era stato sufficiente, pensava Mu. Iniziò a singhiozzare, stille di lacrime scendevano giù per il viso, salandogli le labbra e mischiandosi al sudore e al sangue sulla bocca del morto. Mu non riusciva a controllare le contrazioni. Come dominato da una forza oscura, cominciò a scavare freneticamente con le mani nude. Rivoltava quella terra intrisa di sangue nero senza requie, scagliandola lontano, a intervalli gli saltavano le unghie, una alla volta, ma non aveva tempo di sentire dolore. Il Sole era sempre più basso, le sue mani erano diventate come pezzi di legno. Alla fine, col cuore che pompava come un tamburo, sollevò il corpo, lo adagiò nella buca, lo acchiocciolò e lo ricoprì con tutte le zolle che aveva smosso. Fece una buca anche per sé, lì accanto, un po’ meno profonda, ci avrebbe passato la notte. Con le poche forze che gli restavano, circondò le buche di sterpi, in modo che lui e il suo amico non avrebbero attirato l’attenzione delle fiere. Imitava la voce della madre, quei dolci suoni che la donna emetteva quando lo sistemava, bambino, in una buca fresca. Il crepaccio, dall’altro lato, avrebbe fornito una protezione naturale. Finalmente si poteva accucciare, stretto nella pelle di renna fino quasi a scomparire, e attraverso le sterpaglie poteva guardare la notte.

Pietropaolo Morrone

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