Il sopravvissuto – racconto di Alessandro Refrigeri

Il sopravvissuto – racconto di Alessandro Refrigeri

Null’altro rimane. Attorno alla desolazione di quel colossale naufragio, sconfinate e spoglie, si distendono in lontananza le sabbie, piane e solitarie. Il viandante guarda in alto e non vede che il cielo, guarda in terra e non vede che sé, pensa: sono sopravvissuto. Il vento si è placato, il sole non ha alcun tempo, intorno solo rovine mangiate dagli anni.
Porta la mano stanca oltre il lembo della bisaccia e ruba un ultimo sorso dalla fiasca in pelle. Presto sarà anch’essa deserto e per la sete bruceranno entrambi; presto sarà notte.
Il viandante riprende la strada, un sentiero che in terra non sembrava esistere e che solo le stelle in cielo potevano conoscere. Tiene stretto il suo bagaglio alla spalla, un passo dopo l’altro segue il tragitto che ha disegnato sulla carta da viaggio. Sente le gambe e i muscoli e le ossa tutte, che vibrano a ogni passo il riposo mancato, che si sgretolano e forse diventeranno sabbia.
Ma rimane in piedi, il viandante, nonostante gli anni e la devastazione che ha causato, nonostante sia ormai il solo nel deserto. E alla notte il buio non lo accoglie, e al mattino il vento e il sole fanno della sua pelle, corteccia.
Quel peso, cosa porta con sé – conoscenza, risponde.
Il viandante non accetta il caso anche quando a lui dovrebbe l’onore della resa. Ma a ogni trappola sul suo tragitto, lo chiama in causa come responsabile.
Cammina, guarda avanti, non pensa alle rovine che si è lasciato alle spalle. Non sono altro che un ricordo inumano, null’altro che delle forme da vedere in fotografia.
Cammina, verso il mare e ancora oltre, cammina per raggiungere quella che da lontana sembra una supernova, una luce che stilla brillori come coriandoli sulle onde. È la città del mondo nuovo, la casa che il viandante legge sulla carta da viaggio, dove i muscoli possono riposare, le ossa riprendere robustezza. Dove finisce il deserto, c’è la vita.

Le porte della città sono aperte, ci sono altri uomini e donne che trovano conforto, fonti a cui abbeverarsi e fronde sotto cui riparare la pelle dal sole. Il viandante riposa e riprende colore, sente di nuovo il sangue scorrere. E pensa: io sono sopravvissuto. Nella bisaccia ha conservato i ricordi della terra antica, li depositerà come semi nel terreno per far sì che la nuova casa sia un giardino, che possa verdeggiare nel fresco di piante e alberi sempreverdi, che guardi al cielo e non conosca mai il deserto. Posa la bisaccia e osserva la città, le sue strade e le porte, quanta maestria e quanta libertà ergono queste mura e questi palazzi. Scorrono acque libere fino alla piazza e al centro un grande prato su cui crescono rami giovani.
Il viandante dopo giorni lascia andare le palpebre e sogna, di alzarsi nell’aria e coprirsi di foglie e di fiori e di frutti, e di chiamarsi vita, perché in lui ha trionfato sulla morte. E dopo quella notte di riposo ce ne furono altre, e dopo ogni notte un risveglio e prima del risveglio quel sogno di trionfo. Il viandante allora cammina fino al centro della città e chiama a raccolta tutte le altre anime pellegrine che la abitano. Racconta del suo viaggio, racconta il suo sogno. È in piedi, dopo aver oltrepassato il deserto, e che il premio per chi supera in astuzia e tenacia la morte non può che essere la vita. Dolce, giovane, imperitura, come quel prato su cui pesta i piedi. Ricordare, grida a tutti, cucire all’eterno queste gesta. Ogni attimo del sopravvivere, ogni istante, è forgiato nella potenza, e nessuno può capirlo, ma tutti devono saperlo. Che si erga un simbolo, un monumento al suo vagare, che abbia le radici nel potere della terra e la testa immersa nelle galassie altissime. Al suo corpo che ha resistito mentre gli altri cadevano, alla sua carne che è rimasta attaccata alle ossa quando le altre si sfaldavano, a sé stesso, migliore e quindi vivo nel deserto, dove gli altri, tutti gli altri, diventavano rovine confuse tra la sabbia. E ora sopra tutti ha diritto di porre il suo sguardo, perché a lui soltanto le potenze più alte sono benevoli.

Così gli uomini e le donne camminano svelti intorno alla piazza, portano la pietra con cui costruire e gli strumenti con cui lavorare, mentre il viandante indica e osserva.
Sopra le nuvole, dall’alto di una miseria superiore.
Il monumento cresce fino al cielo, ha grandi gambe in pietra forti abbastanza per superare le dune, e la schiena dritta per non farsi piegare dal vento; e in viso, la fronte sollevata, le labbra salde e gli occhi del condottiero, che solo una mano di divina arte avrebbe potuto renderli tanto veri.

La coscienza, la colpa – non di superbia, ma di memoria. Nell’ultima sera di costruzione, il viandante si addormenta all’ombra del monumento, cullato dal vento. E il suo volto che è quello della statua, dall’alto lo guarda e come lontano guarda tutti i potenti che sono caduti e tutti i viandanti che si sono rialzati, e con voce antica dice: io sono ognuno di voi, che tanto soffre e sempre sopravvive, che di ogni caduta ricorda il dolore e il modo per rialzarsi, ora guardatemi e disperate. E nell’ultimo sogno, il viandante vide sé stesso sopra un giovane ramo, in equilibrio per non cadere, aggrappato a foglie e fiori con le unghie, fino a farli sanguinare, fino a strapparli. Sopravvivere, l’unico modo, il più grande inganno. E morire davvero, una buona volta, è la speranza. Per svelare un giorno su tutti che l’errore è sempre stato un caso e una consuetudine, e l’errore è destino e grandezza. E la voce che è in ogni viandante, io e te che siamo tutti, come nel deserto ergono un monumento a sé con scritto: questo è il mio regno, disperate.
Al mattino il viandante osserva soddisfatto alla statua come se lì ci fosse lui e con quella stessa espressione cesellata negli occhi sarebbe rimasto oltre ogni epoca. Alzò il braccio e fece arrivare gli scalpelli, e ogni sogno e ogni peccato trasportò in parole alla base della statua. Per l’eternità.
La coscienza, la colpa – non c’è alcun dio a punire i peccati. Solo la memoria. E così, come natura vuole, il cielo si alza sopra la città, le scintille si sollevano dalle onde e illuminano le nuvole, e la cruna della clessidra del tempo si allarga, per un istante e per sempre, come per sempre sarà stato. Il vento, la sabbia, scendono dalla clessidra come un velo su ogni cosa, il vento, la sabbia, e gli occhi chiusi per proteggersi dal cielo, il buio, i passi, gli uomini e le donne che corrono via, il viandante in ginocchio, il vento, la sabbia, piegano le sue ossa e gli strappano la pelle. Coriandoli, nell’aere e sopra le onde, che brillano in circolo come una supernova. E poi la sabbia scende fino all’ultimo granello e il tempo passa come passa la tempesta. Silenzio, il cielo in alto, le dune intorno che proiettano curve di una terra dell’antichità. Il viandante è in ginocchio, respira, scivola via dalla polvere e si solleva sulla schiena. Schiude le palpebre. Il deserto. Non ci sono piante, né alberi sempreverdi, le strade e le porte e le mura dei palazzi, deserto, dove scorrevano acque libere e si sdraiava il prato dai rami giovani. Nei suoi occhi solo due enormi gambe di marmo senza tronco, ruderi nella sabbia, e un volto infranto, dalla fronte corrosa e il labbro spezzato, in un sogghigno di fredda autorità, tramandato da uno scultore che ben conosceva le passioni che rivelava, stampate senza vita sulla pietra. E sul piedistallo queste parole appaiono.
Ozymandias è il mio nome, re dei re: mirate le mie opere, o potenti e disperate!
Null’altro resta al declino. Si distendono solo lontane sabbie piane e solitarie. Il vento si è placato, il sole non ha alcun tempo, intorno solo rovine mangiate dagli anni.
Sono sopravvissuto. E il viandante riprese la via.

Alessandro Refrigeri

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