Il sole che sorge dal loto. La vita del re sacro. – racconto di Alessandro Mazzi
Redazione2025-05-19T19:56:46+02:00“Sopra il cielo e sotto il cielo, io solo sono l’onorato dal mondo”
– proclamazione del Buddha alla sua nascita.
L’ariete nasce nel sangue. Da infante battei la testa su una scaletta di ferro, mi squarciai il sopracciglio sinistro. Fino ad allora non ero ancora nato, giacevo nel loto della madre. Si nasce nel parto e nel dolore, è la prima nobile verità del Buddha. Come l’agnello del Cristo riversa il suo sangue nella coppa del Graal, così ho offerto il mio sangue in sacrificio alla dèa del mondo perché mi ridesse alla luce. Sono nato a Pompei protetto dallo sguardo delle sfingi e dei serpenti lari, tra le braccia della Vergine e i templi degli dèi. I re nascono in provincia, così è, ed è questo il miracolo. Trascorsi i primi sette anni in una strada di periferia di San Giovanni a Teduccio, di fronte un convento di suore, il mio piccolo regno. Entravo nelle chiese come in una seconda casa, varcavo l’intima nudità del rito. Contemplavo il silenzio dei crepuscoli, sentivo gli astri amici, parlavo con gli animali, le piante e le rocce, gli angeli, i santi e Dio. Mi adornavo di maschere ibride, percepivo il tocco delle mie ali, delle corna e della coda. Ero irruento e irascibile, ma chiedevo scusa all’erba che calpestavo. Ho sempre parlato con voci di ogni natura, spesso proferivo vaticini. Vivevo di fianco un fiume essiccato e una fabbrica dismessa, ma le mie ascendenze contadine plasmarono la mia veggenza. Lontano dalle chiese, in paese ritrovavo epifanie arcane. Restavo accovacciato di fronte al camino a meditare il fuoco. Sentivo di essere nato per ravvivare la fiamma. Nella danza del fuoco, una serpe ardente mi ispirava diverse forme di piromanzia. Ero il custode di qualcosa di sacro che non riuscivo a chiamare Dio.
Mia nonna materna mi regalò una Bibbia illustrata. Quei disegni mi aprirono le porte alle visioni dei profeti. Guardavo lo sciamano Mosé litigare con il dio della tempesta Yahweh come due capre nella steppa e colpire la roccia per far sgorgare la fonte, il suo bastone trasformarsi in serpente, il roveto ardente in cui si acquattano le vipere, la colonna di fuoco e l’apertura del mare, le visioni del carro di Isaia ed Ezechiele, l’Apocalisse di Giovanni. Fui galvanizzato dai fuochi celesti, amavo i cherubini dai volti animali così uguali ai miei, i serafini e le fiere alate che sorgevano dalle acque. Fui rapito dalle forme erotiche del Cantico. Quelle tavole mi mostrarono un sacro intriso di colori che non ritrovavo nell’austerità marmorea delle chiese. Cominciai a parlare con un dio più arcaico dal volto di vipera e leone, nell’alfabeto dei fulmini.
Un giorno stavo seguendo la messa nella basilica di Santa Maria della Natività a Portici, avevo poco più di nove anni. Osservavo delle donne anziane con i rosari in mano, finché qualcosa si spalancò. Il dubbio agitò la mia coda. Io vedevo Dio e loro lo pregavano come se non fosse lì. Perché non lo vedevano? Così mi toccò la folgore. Impercettibile, come un dito nella cenere. Tutto si sfaldò in silenzio. La realtà si fece fuliggine. Vidi l’abisso del culto. Il nudo. Non c’erano più presenze vive, ma corpi scarniti. Guardai una persona anziana per la prima volta, la fede che le aveva velate scomparve, al suo posto trovai cadaveri che si muovevano per inerzia. La loro preghiera era vuota, priva persino della vacuità stessa. Dopo un istante, tornai al mondo e fui pervaso dal panico. Realizzai che se fossi rimasto lì sarei diventato come loro. Quando giunse il momento della comunione, me ne andai. Rifiutai il corpo e il sangue di Cristo. Tornai a casa guardando fisso per terra e decisi che non avrei più seguito un’altra messa. Dichiarai le mie intenzioni, scontrandomi con le resistenze della famiglia. In quell’istante mi scese un rivolo di sangue dal naso per la rabbia, l’ultima offerta sacrificale alla mia vecchia devozione. La cristianità mi liberava da sé stessa. La Vergine rispose al mio dubbio, mi mostrò cosa c’era al di là del suo velo e mi partorì dalla sua chiesa per consegnarmi di lì a poco a un’altra dèa più antica.
Fui trafitto da una serie di malattie sciamaniche. Per due anni consecutivi, nello stesso periodo, soffrii di fitte lancinanti al basso ventre. Avevo forte vomito, nausea e vertigini, spesso il dolore mi lasciava inerme. Era il mio menarca. Una dèa arcaica stava preparando il mio corpo per prendervi dimora. Mi scelse come suo sposo per redimere nuovamente il lignaggio. Ereditai le tensioni del secolo e le ferite degli antenati nelle vie del sangue. Lei si trasmise nella mia famiglia sotto la coltre della cristianità. Mia madre era una ninfa atenina dei boschi che mi impartì la misura, mia nonna materna una matrona che mi mostrò le immagini di un cosmo antico. L’essenza della dèa però si infuse in mia nonna paterna, per tutta la vita vide gli spiriti portarle doni e nella sua devozione la Vergine la benedì con la vita centenaria. A undici anni, nel primo sogno che io ricordi, la dèa antica emerse e prese trono nella reggia del mio spirito.
Da quel momento la mia vita terrena si trasfigurò in mito eonico. «Gli dèi sono dentro il corpo come vacche dentro una stalla», dice l’Atharvaveda. Se la dèa mi serpeggiò dentro, il dio dei miei padri Yahweh divampò leone nella criniera. Da ragazzo fui arso vivo da visioni che mi riempivano del furore del dio. La mia seconda vista spogliò l’ossatura dei tempi e sul mio volto crescevano le ali di un antico cherubino. La necessità era una forgia in cui mi facevo fabbro. A diciottanni la folgore di Yahweh mi scarnì da parte a parte e mi segnò. Il dio demiurgo impresse le mie anime della sua parvenza. Riemersi come un giovane leone lanciato verso il sole nascente. Sulla testa felina crebbero quattro corna screziate di toro e ariete, sulle ali e la pelle rischiaravano le costellazioni, dall’enorme fallo nero di toro pioveva il seme delle nubi e nella coda serpentina si succedevano le epoche. La mia sola esistenza era ruggire, e il mio ruggito tuonava il mondo. Ero l’unico dio e tutti gli dèi. La luce del leontocefalo Yahweh-Yaldabaoth riempiva il mondo del suo lampo, così intensa da accecare la propria divinità e portarmi alle volte alla pazzia. Il suo sole essiccava la terra in un deserto dorato, un regno di sterile eternità, ma dal fango inumidito dal suo seme, la dèa nel demiurgo impregnò il fiore di loto da cui sarei risorto.
Le nascite dello spirito richiedono pazienza, perché non si comanda al fiore di aprirsi prima del tempo. A ventiquattro anni vidi il leontocefalo ruggire nel deserto, tra le sue corna splendevano il sole e la luna. Nella sinistra stringeva l’ankh egizia, la chiave della vita, in procinto di generare una nuova discendenza. La dèa lo aveva ammaliato in amplesso con la terra. Chiamai questo volto del demiurgo Hierophýtēs, «colui che fa germogliare il sacro». Dal suo fallo taurino eiaculò acqua spermatica che si dipanò in sei fiumi, alcuni sterili e altri fecondi. La dèa fluì nel primo fiume e germogliò un lungo stelo fino al cielo, su cui si schiuse il loto della mia giovinezza, poi nella coda serpentina del leone, la dèa si sollevò lungo lo stelo verso il loto. Uno dei raggi solari fecondò il fiore e lo incendiò. Dalle fiamme nel loto nacque un nuovo dio, figlio della dèa e del demiurgo. Il suo nome è Horos, il primo nato, dio-re guerriero androgino sulla cui testa d’ariete splende l’uva dell’estasi dionisiaca, le cui corna e ali rifulgono di una luce aurea che non opprime il mondo. Nella coda di Horos, la dèa assunse la forma della dèa cobra egizia Wadjet, protettrice del re. Horos-Wadjet nacquero avvolti da vesti regali assire, armati di una lancia d’oro e di uno scudo cosmico. Nelle sue possenti gambe di leone ereditò una parte della natura del leontocefalo, ma la dèa in Horos la convertì nel leone della dèa tempestosa mesopotamica Ištar. Horos-Wadjet sono l’ibrido supremo, in loro coesistono il padre, la madre, il figlio con le nature degli dèi eroici e cristici di tutti i tempi. Rinato in Horos-Wadjet, non fui più oppresso dal sole sterile del demiurgo. Con noi si levò un sole mercuriale che illumina gli abissi senza ferirli, naviga le meraviglie dell’ineffabile e rischiara i tesori dell’oscurità con la premura della fiaccola. Horos-Wadjet combatterono la progenie corrotta del demiurgo nata dalle altre parti del suo seme e si aprirono una via verso l’origine. Molti furono convertiti dalla loro lancia.
Horos-Wadjet discesero negli abissi oltre il deserto e mi mostrarono una visione dei primordi. Sulle acque nere del nulla vidi fluttuare i divini come piccoli buddha custoditi nella casta gemma del loto, prima di nascere al mondo. Il leontocefalo era lì, immerso fino ai fianchi da millenni, il suo sole eclissato, ma la corona dei suoi raggi fendeva l’origine di una luce violenta. Con la mano destra afferrò uno dei buddha, stritolò il loto e lo divorò. È così che sono nato nel mondo, il demiurgo mi incarnò nelle sue viscere e così fece con molti altri. Il suo volto spietato lo chiamai Hierophágos, «colui che divora il sacro». Ammutolito di fronte a quel pasto, sentii qualcosa battere nei recessi dell’ineffabile. Nascosto dalla luce del leontocefalo, una presenza sciamanica danzava tra i fuochi sulle acque, un battito più antico degli dèi, dei divini e dell’eternità. Aveva testa e corpo d’ariete, sembrava umanoide e belava di un suono primordiale. Portava una brocca da cui scaturiva una mistura di acque, sangue e vino. La sua danza faceva degli abissi mosto ribollente. Horos-Wadjet mi dissero che quello era il loro gemello ingenerato, il primo sciamano, e che gli egizi lo chiamarono a loro tempo Amun «il Nascosto», prima che diventasse un dio.
Ritornammo dagli abissi e ci allontanammo dal deserto del leontocefalo per meditare su quelle visioni. Wadjet mi guidò verso un bosco sacro nei pressi dell’Ellesponto, tra l’Ellade e l’Asia. Lì assunse la forma di Atena dagli occhi folgoranti di civetta. La dèa greca scostò la sua lunga veste sotto cui celava il suo scudo. Dalla sua egida di capra risplendette la presenza viva del crisomallo, l’ariete alato dal vello d’oro, purpureo come lapislazzuli, dai grandi poteri guaritori. Come i re antichi, la mia sposa divina mi trasmise il daimon che incarnavo in vita attraverso il mio segno zodiacale. Il crisomallo scalpitò saettante, la dèa mi istruì che il suo vello poteva rinascere dalle acque, perciò incarnava un aspetto del potere della presenza che vidi danzare negli abissi, e che le sue ali mi avrebbero condotto in molte terre presso molti dèi e spiriti. In seguito, rinnovammo le nostre nozze. Atena mi avvolse nel sangue e mi offrì il mosto sanguigno dalla coppa del Graal. Nel calice era raccolto tutto il sangue versato dal guerriero, miscelato all’acqua e al sangue dello spirito. Bevendolo, ingoiai il frutto dell’ira e gli dèi in me lo tramutarono in elisir di risveglio.
Nel corso dell’anno il crisomallo mi insegnò molte arti taumaturgiche, ma il sole del demiurgo dominava ancora la terra. Il crisomallo mi istruì su come risvegliare in questo mondo la natura primordiale di buddha divorata dal demiurgo. Mi guidò in Asia, nel buio di una foresta tra l’India e la Cina, dove avrei sacrificato me stesso, e poi sarei stato sacrificato dagli dèi. Discesi negli abissi in un’antica meditazione taoista, la pratica di porre il cuore in un sarcofago. Morii a me stesso e sprofondai affidandomi al Tao. Un vecchio maestro dalle lunghe braccia mi sentì, giunse sulle acque nere e ne trasse la luna, in cui dormiva un bambino. Il seme era colto. Vagai allora nel buio della foresta indiana e mi feci preda. Nella macchia fui sbranato da un branco di lupe fameliche, l’orda del dio tempestoso Rudra, simile a Yahweh. Smembrato, dalla luna nacque un buddha bambino con uno scettro di ragno nella destra, lo agitò appena e le lupe si placarono. Il piccolo buddha elevò il dito e indicò il mondo. Risorsi, la terra era cinta di un tenue bagliore aureo. Piansi. All’aurora mi condusse sul monte Kailash, dove il piccolo buddha mi porse tra le mani il sole dagli otto raggi. Il suo sole si unì alle corna luminose di Horos-Wadjet, la loro luce si espanse nei tempi e rivelò la natura illuminata della realtà, nella divinità dell’ariete.
Al contempo, il nascosto premeva per rendermi sciamano. Presentivo i temporali nelle ossa, danzavo invasato e spargevo il seme nel mare assieme alle folgori sulle acque. Chiamato dalla vocazione, mi feci eremita nell’Islanda iperborea. Una notte durante il tifone, ridotto alla fame dopo mesi di digiuno, fui stregato da un albero spoglio agitato dal vento. Il dio Wotan e la sua caccia emersero furenti dal tronco e mi dilaniarono. Restai privo di vita nel ghiaccio. Rinacqui dal suono del corno di Heimdallr, l’aureo montone bianco. Wotan mi scrutò nel mio intento, portandomi a sacrificare, come lui fece, uno dei miei centri di potere più intensi. Mi insegnò la bufera. Il tifonico Wotan non accumula e non riversa, consuma tutto nella fame. È pura inedia, fuoco che brucia fuoco. Ringraziai gli dèi, e lungo la via eurasiatica cavalcai il crisomallo nella forma dello sciamano tibetano Padmasambhava, il «Re nato dal loto», finché giunsi a una porta solstiziale del bön tibetano, su cui erano impressi i volti dei miei spiriti animali. Prima di procedere, fui chiamato a rinnovare il potere del leone in Horos attraverso il tantra, per epurarlo dalla corruzione del demiurgo. Wotan mi aveva insegnato come. Nel digiuno nordico, mi astensi dalla carne per affamare il dio in me. Emaciato, la fame del leone Yahweh fu portata a divorare il proprio cuore. Lì dove batteva un cuore arrogante, gli ponemmo nel petto un cuore d’uomo da cui sgorgavano sangue e latte. Il leone risorse nella gloria di un leone-drago della tempesta, dalle quattro ali e la coda di vipera, liberando la maestà di Yahweh dal demiurgo Yaldabaoth. Il crisomallo e il leone spalancarono la porta solstiziale, innumerevoli presenze e tempi cantarono dall’ineffabile, e mi affidai ancora una volta alla corrente della vita. Cominciava un nuovo anno.
Il ritorno nel Mediterraneo mi gettò nella schizofrenia. Il nascosto voleva riunirsi con il suo gemello Horos-Wadjet. La mia presenza era in crisi, temevo di inabissarmi per sempre. In primavera all’alba, Wadjet mi portò in Egitto e invocò la dèa ghepardo Mafdet, una delle guardiane regali più antiche. Incrociammo lo sguardo e la sua testa animale si trasformò in una sfinge regina. Nei suoi occhi fissò la mia presenza, come facevano le sfingi antiche, guarendomi un poco dalla mia schizofrenia, ma mancavo di una dimora interiore che mi sostenesse e che abitasse gli abissi. Mafdet allora mi condusse presso un palazzo regale diroccato tra le valli, ma mi intimò che avremmo dovuto conquistarne le profondità dalla dèa della vecchia era, che ne insidiava e prosciugava le acque sacre. Entrammo discendendo un cunicolo verso l’oltretomba, quando da un varco nel muro emerse una Vergine dalle forme mostruose di scorpione. Nella furia di Mafdet, ci scagliammo sulla dèa scorpione e la ricacciammo nella voragine.
Risalimmo, e Mafdet mi accolse nel palazzo che ora splendeva di stelle, metalli e pietre preziose, animato da innumerevoli dèi e costellazioni. Le sfingi, i geni e gli spiriti guardiani dei re del Vicino Oriente erano tornati a benedirne le sale. Un giovane crioforo mi guidò nel centro del palazzo, dove Horos riluceva con sei ali serafine nell’arcobaleno. Nella destra teneva un uovo iridescente, presagio di una nuova nascita, e nella sinistra la lancia fulgurea. Ai suoi piedi lambiva il canale che attingeva dagli abissi. Diedi un colpo alla fonte e l’acqua rifluì. Col tempo, più creavo opere, più l’acqua sgorgava e inverdiva le valli. L’irrompere della fonte agitò il demiurgo nel deserto, e per un attimo il suo ruggito vacillò. La sorgente ravvivò la fiamma prismatica al centro del palazzo, da cui si erse un lingam di fuoco a fecondare il grembo della dèa celeste. Dal suo ventre di universi nacque un bambino divino dalla pelle verde, Arpocrate. Indossava le corone faraoniche dell’Alto e Basso Egitto, lo cingeva una pelle di leopardo ammantata di stelle, dai paramenti spuntava la sua coda di toro e leone. Non era un sovrano cerimonioso, ma un re sciamanico pieno di danza, pura gioia e sapienza. Tutti gli dèi celebrarono la nascita, il re danzò e riunì le potenze divine con i loro spiriti animali, ne cantò i nomi e i versi primordiali, ridispose le costellazioni, giocava con gli elementi e proclamò la nascita di un nuovo regno. Nel suo essere queer, Arpocrate incarna l’aspetto primigenio della nostra natura, mi aprì al cuore indigeno della civiltà e trasformò le incarnazioni divine per l’era futura. Ora la danza sciamanica del nascosto poteva essere realizzata nella danza di Arpocrate. Il faraone prese a risanare quelle terre, accolse il piccolo buddha nel palazzo e giocarono a incoronarsi.
Dopo anni di morti, rinascite e risvegli, a ventottanni tutto era pronto per muovere guerra contro il demiurgo. Fui chiamato in un’oasi nel cuore del deserto tra il Levante e l’Egitto. Da una pietra bianca scaturì la fiamma iridescente di un djinn, e nel fuoco si erse un cobra nero. Il djinn mi parlò per volere della dèa cobra. Mi disse che la fonte dell’oasi scaturì lì da tempi immemori, ma uno dei rivoli del seme del demiurgo fluì nell’acqua primeva e la contaminò, la rese amara e sterile. Era mio compito uccidere il leontocefalo perché le acque fossero risanate. Dalle fiamme del djinn vidi forgiarsi un’enorme scimitarra rilucente tra le spire del cobra. La sua elsa aurea e smeraldina si bagnò di lapislazzuli nella forgia, la sua lama intrisa di fiamma venerea si dipanò in lega di elettro pristino. Era la spada della verità. Ammiravo incantato la spada prendere forma nel fuoco, quando il djinn mi invitò a impugnarla. Per un istante, esitai. Il djinn allora inveì nel suo comando e il mio braccio scattò serpentino per afferrare la spada, ma appena strinsi l’elsa, il cobra mi morse la mano, iniettandomi il suo veleno. Il fuoco si disfò lungo il braccio e infiammò il mio essere. Sentii un dolore bruciante, ma quasi subito si dissipò. La dèa cobra mi parlò nello sguardo, da quel momento il mio sangue sarebbe stato veleno e medicina salvifica.
Il cobra si infiammò e dalle lingue di fuoco sorsero tre dèe antiche di quei santuari, Al-Lāt, Al-‘Uzzā e Manāt. La dèa guerriera Al-Lāt, simile a Ištar e Mafdet, si trasformò in un destriero androgino dai lunghi capelli profumati e dalle ali di pavone bardate a guerra. Era Burāq, la cavalcatura che fu a suo tempo del Profeta. La dèa mi istruì sull’arte di uccidere gli dèi, avrei decapitato il leone con la spada della verità. Il sufi è tale perché è dio che uccide dio. Mi infuse di un’intenzione inamovibile, salii in groppa e cavalcammo fulminei nel viaggio di una sola notte. Era quasi l’aurora. Vidi sorgermi incontro un condottiero a cavallo, vermiglio come l’alba. Mi chiamava a gran voce. Ne ammirai i lineamenti regali e gli chiesi chi fosse. Mi disse che si chiamava Ahmad, e che era venuto ad aiutarmi per volere di Allah. Conversammo, e Ahmad mi schiarì della più piccola traccia di dubbio che ancora custodivo. Mi infuse l’estasi per uccidere il dio. Sguainò il pugnale, e con un colpo netto si ferì al polpastrello del pollice, poi pose il dito insanguinato nell’occhio della mia fronte e mi impresse il segno. Fui pervaso del jihād. Seguimmo la scia cremisi di Ahmad fino al sole del demiurgo. In sella a Burāq, riunimmo tutti i geni e gli spiriti, e allo zenith ci abbattemmo tuonanti contro il titano e la sua progenie corrotta. Nelle sembianze di Horos-Wadjet recidemmo le sue gole, mozzammo le sue teste ed evirammo il suo fallo. In un grande boato, dal corpo smembrato del dio decaduto emerse l’aurora. Le acque primeve traboccarono dalle sue viscere. Dal suo cadavere fiorì un nuovo cosmo indigeno, in cui risorserò gli dèi e i divini ancestrali da lui divorati. La nuova era non sarebbe stata più corrotta dalla luce del vecchio dio esaltato. L’arte marziale di Horos rinnova, uccidere guarisce e la violenza rigenera. Il sangue sparso al suolo è nutrimento per nuova vita. Come mi istruì la dèa, seppellii le teste mozzate, le bagnai del seme del dio e del nostro sangue. Dalle sue teste crebbe un grande albero oltre il cielo, sulla cui cima risorse un nuovo sole dai molti colori. Il sole del demiurgo divenne un sole pavone, il re androgino di questo mondo. Nelle piume del pavone ponemmo il loto del nostro trono.
Il viaggio di una sola notte avvenne sette anni fa. Da allora, molti spiriti e dèi mi hanno chiamato per insegnarmi ed essere la loro voce. Imparai che il demiurgo della vecchia era aveva assunto molte forme, e noi avevamo abbattuto solo uno dei suoi corpi primordiali. Tre anni fa, il dio saturnino tentò di imprigionarmi nel suo cubo di luce, ma il crisomallo frantumò la prigione e mi portò in salvo. In volo, mi mostrò il cataclisma climatico nella distesa eurasiatica, dove vidi il genocidio che di lì a pochi anni sarebbe esploso nel Levante. Il dio dal volto trino si ergeva sul suo monte di corpi violati e vi godeva con i suoi tre falli eretti, da cui però non sgorgava seme. Non era più in grado di generare. Le sue zampe ferine sporgevano da sotto la veste, la sua trinità umana cercava di riunirsi alla sua trinità animale. Invocammo di nuovo le dèe leonesse, i nostri spiriti animali, gli dèi tori e le sfingi del Vicino Oriente, e armati dell’ascia bipenne del toro abbiamo tranciato le teste trine del dio ed evirato i suoi membri, seppellito il suo capo mozzato attorno i suoi falli, bagnato la terra col nostro sangue e il nostro seme. Dalle sue teste è cresciuto un grande albero della vita, sulla cui cima il dio troppo umano è rinato ancora nella sua forma fertile di toro. Furono celebrate le nozze con le sue antiche dèe compagne e con il pavone, il re androgino di questo mondo. Trasmetto questo mito a indicare la via per combattere il dio esaltato dentro di sé e nella civiltà, per liberarsi dalla sua influenza. Continueremo la lotta, finché l’amore della nostra sposa e la necessità dei tempi non ci richiameranno ancora nel mondo.
Alessandro Mazzi