Il figlio del Fosso – racconto di Miriam Palombi

Il figlio del Fosso – racconto di Miriam Palombi

“La terra non dimentica mai ciò che prende.”
Detto contadino (Valle del Regrando)


Nel paese di San Regrando la terra era nera e greve come il lutto. Gli alberi si piegavano, storti e dolenti, come penitenti sotto il peso di colpe mai confessate.
Tra le colline scure, celato agli occhi dei forestieri, scorreva un fosso livido, che nessuno osava oltrepassare.
Lo chiamavano il Fosso Muto perché inghiottiva ogni rumore. Il canto del gallo si spegneva prima di giungere alle sue rive, il guaito dei cani si smorzava nel nulla. Persino il vento sembrava rifiutarsi di sfiorare quelle acque ferme, così immobili e grasse da sembrare un terreno di sepoltura. Là, dove il pantano stagnava, la terra marciva e prendeva il colore della bile e dello sterco.
Il Fosso era lì da sempre, un’ulcera nel ventre del paese. Più antico della Pieve, più vetusto della strada romana che serpeggiava sui fianchi della collina, più remoto delle ossa che dormivano sotto i campi inariditi.
Gli anziani mormoravano a denti stretti, e con la paura del castigo sulla punta della lingua, storie confuse riguardo alla sua origine, un sapere che emergeva piano piano dalle nebbie della diceria: era colpa del pianto di una santa senza sepoltura, o dei nati con il piede caprino, soffocati e gettati tra le canne. O ancora, un giuramento sacrilego stretto nel sangue e nel fango.
La verità si era persa, e i pochi che si erano avventurati fin laggiù per scoprirla non avevano fatto ritorno.
Il Fosso reclamava le sue vittime. Pecore svanite nel nulla, vitelli mai tornati al podere. Sante il porcaro, ubriaco fin dal mattino, era scivolato nelle acque tra il canneto in un giorno di febbraio, senza un guizzo, né un lamento. Solo il gorgo di un ventre sazio. Non era mai riemerso.
Nessuno riaffiorava, nessuno tornava. Era come se la palude li volesse per sé, stretti per sempre nelle torbide profondità a macerare.
Poi, in un maggio freddo e silenzioso, senza rondini in volo e con le spighe ancora esili e tremolanti, il Fosso non prese, ma fece un dono.
Dai giunchi, tra il miasma fetido di linfa stagnante, spuntò un bambino.
Nudo. Alto quanto uno zappone, la pelle chiazzata di un pesce d’acqua dolce, viscido e lucente sotto il pallido sole del mattino. Aveva il ventre gonfio, l’ombelico malformato, e dal fianco sinistro gli spuntava una piccola escrescenza ossea, un abbozzo di zoccolo, ruvido e scuro. Il volto aveva narici a fessura e le orecchie erano minuscole, appuntite e senza lobi. Gli occhi, neri e opachi, sembravano due sassi di fiume levigati. Stava lì, sull’orlo del fango, con le dita affondate nella terra come radici.
Lo trovò Germano, il sacrestano, mentre raccoglieva rami secchi. Lo vide da lontano, confuso nel paesaggio. Avanzò senza fiatare, e il bambino non si mosse.
Germano lo prese, lo avvolse nel suo pastrano e lo portò in paese.
«Non parlava» mormorava, scuotendo la testa e torcendo il berretto tra le mani. «Mi guardava e basta, con due occhi larghi così.» Gli occhi del bambino erano due tombe piene d’acqua.
Lo portarono dalla vecchia Marta, la cieca che parlava con i morti dietro al cimitero, e leggeva i tarocchi sul fondo dei paioli anneriti.
Non volle toccarlo; si limitò a sollevare il volto, annusando l’aria, con voce spezzata da un sussurro roco, sentenziò.
«Le carte lo avevano detto…è figlio del Fosso. Nato da tutto ciò che è stato preso.»
Le credettero senza esitare. In quei luoghi, la verità non si leggeva sui libri, ma aveva l’odore del muschio umido e del sego di ceri spenti.
Gli offrirono una stuoia nel fienile del prete.
Don Celso era uomo stanco, con la fede logora, gli occhi cisposi e il cuore fradicio di Nerello. Forse anche qualche figlio seminato qua e là, sotto il mormorio delle vigne.
Guardò il bambino e lo benedì con dita tremanti.
Gli diedero da mangiare, ma il piccolo non toccava cibo. Ogni volta che gli porgevano il pane, si ritraeva in un sussulto viscerale di disgusto, metteva la lingua nella terra umida e si saziava così. Non distoglieva mai lo sguardo dall’acqua: nel mastello del pozzo, nella tinozza, nei secchi di rame. Scrutava la superficie increspata come se vi scorgesse il riverbero di qualcosa di familiare.
Don Celso gli cantava gli inni della sera, e il bambino si tappava le orecchie con il fango fresco. Lo prendeva da terra, lo impastava come creta, e rideva. Un gorgoglio profondo, che non gli usciva dalla gola, ma pareva risalire da un crepaccio sotto terra.
Poi, in paese, cominciarono a svanire le voci.
Prima smisero di cantare i galli all’alba. Venivano trovati nei cortili, rovesciati sul dorso, con il becco spalancato in un urlo muto. Poi tacquero i neonati, il vagito strozzato nel sonno. Le madri si svegliavano con il latte guasto nelle mammelle, divenuto amaro e putrido, e piangevano in silenzio, le mani strette al ventre vuoto. I cani, impazziti, scavavano vicino ai pozzi, riportando alla luce tane vuote e ossa sminuzzate. Si azzuffavano tra loro, digrignando le fauci piene di fango, senza abbaiare.
Il vecchio campanaro, che da anni giurava di sentire il Fosso respirare nelle notti di bruma, fu trovato al mattino riverso sui gradini del campanile, con la lingua gonfia da rospo, e gli occhi vitrei colmi d’acqua.
Don Celso, tremante, tentò di battezzare il bambino.
Si mise i paramenti buoni. Agitò tre volte il turibolo, riempiendo l’aria di fumo acre, e recitò la formula sacra. Al momento di immergere le dita nella conca, l’acqua santa cominciò a ribollire, schiumò e si coagulò come sanguinaccio. La croce di legno, poggiata sulla fronte del bimbo, all’improvviso si fece nera di fuliggine.
Fu così che il prete di San Regrando perse la voce, risucchiata via, costretta in un groviglio invisibile fermo in gola.
«È nato come gli altri non sono morti. È carne fatta di mancanze. È il riassunto di ciò che non abbiamo pianto» disse Marta, seduta nel buio con le mani immerse nella cenere. Le palle azzurrine e smorte che aveva al posto degli occhi roteavano nelle orbite. «In certi luoghi, la terra partorisce i pianti non detti. I dolori rimasti indietro.»
Quella notte, la terra tremò sotto le case. I morti, nei cimiteri, si rigirarono nei sepolcri, e bussarono ai coperchi delle bare, tentando di parlare ancora una volta. Le immagini dei santi, nelle cappelle, lacrimarono una poltiglia nera che tingeva come pece e bruciava le dita.
I paesani cominciarono a parlare sottovoce. Si misero a inchiodare porte, benedirono le fonti con l’aceto, e lasciarono mollica di pane secco sugli usci, come si fa con gli spiriti affamati. Alcuni proposero di bruciare il bambino.
Ma al mattino dopo, il fienile era vuoto.
Dove prima dormiva il Figlio del Fosso, restava solo un mucchio di fango nero, stillante e molle di putrefazione. Al centro giacevano la spina dorsale di un agnello, perfettamente pulita, un teschio lustro senza mandibola e lo zoccolo intatto di un vitello. Tutti avvolti, stretti, da un unico filo di radice polposa.
Da allora, ogni estate senza rondini, il Fosso si gonfia e le greggi evitano quel tratto di terra. La nebbia che si solleva dal letto del pantano ha il tanfo di latte cagliato e di carne guasta. E si dice che il bambino torni, ogni volta un po’ più grande.
Chi giura di averlo visto racconta di una figura smunta, i piedi scalzi e il volto pallido prosciugato dal sangue. Si aggira nelle albe senza canto, tra gli orti inariditi. Cammina per i cortili, lasciando orme palmate sotto le finestre. Chi lo guarda troppo a lungo perde la voce.
Non basta certo questo per morire, ma da quel giorno il nuovo parroco di San Regrando suona le campane, celebra messe e funerali anche quando non muore nessuno. Chiede a Dio di perdonare i peccati di chi non fa più ritorno.
Bestie o uomini, non fa differenza.
Tutti sono tornati alla terra.

Miriam Palombi

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