Il domani e il mai più – racconto di Filippo Cerri

Il domani e il mai più – racconto di Filippo Cerri

I
Vanno i ragazzi al passo sicuro fuori dalle coltri. Con lo spirito dell’animale che sopravvive a se stesso, essi domandano ragione delle febbri, delle mani tese e vuote, delle ore strane in cui lo sguardo s’appanna e il gorgogliare diventa grido, come i lupi che dentro lo stomaco c’hanno il vuoto e per questo d’inverno si fanno più sicuri e vicini al paese. Loro, i ragazzi, dal paese non se ne andranno mai, se non per riconsegnare l’anima in qualche trincea in qualunquedove si combatta una guerra. E ce ne sono quante se ne vuole. Nessuno ha mai promesso niente, e nessuno risponde al dolore, eppure è il gusto del tradimento che impasta le loro lingue, se lo sentono scorrere nei nervi, come linfa. E desiderano, chiedono ai santi miracoli di fame e di vita, pregano le cose di essere più di quello che sono. E non lo sono mai. Lo sanno che qualcuno li ha fregati, anche solo mettendoli al mondo. Ma Don Lauro su questo alza gli occhi, al mondo stiamo e restiamo, dice, fino a che Lassù vogliono. Questo è.
Elio era uno di loro, primo tra gli ultimi dei ragazzi che infestavano le strade del borgo, a inseguire rote di carretti gettati dalla salita più alta, ad aspettare i capestri di frutta secca e l’ora delle veglie per darsi un brivido, uno spavento che gli raccontasse d’essere ancora vivi. Né alto né forte, dalla terrazza Elio osservava il confine delle Piane di Valtetra: essa s’apriva allo sguardo, colmava la vista l’abbraccio verde che si ribaltava solo all’orizzonte, dando il cambio a un cielo grigio inverno. A un certo punto, la vegetazione s’infoltisce, si eleva e si gonfia, da rada s’inforesta. Nell’ancora timido mese di maggio comparivano i primi fiori scuri, i cui petali pezzati, barbagli polposi come mammelle nere, erano oggetto di desiderio per le ragazze in età da treccia. Trovarli lì dove il groviglio si inspessiva era impresa che faceva battere i petti e dichiarava inequivocabile il valore del sentimento messo così duramente alla prova. Ma più oltre lo sguardo non sfrondava.
Elio allora immaginava, altro non poteva, e vedeva scorrere un rivolo, alla destra d’un dosso, serpando in forma di fulmine, che si ripiegava sparendo alla vista dietro cortecce dritte come pali. Quelle profondità Elio le sentiva dentro, come uno scorrere vago e setoso dell’acqua sui ciottoli, lo zirlo e il chiurlo di becchi ansiosi, timorosi di ogni cosa che non resta immobile. Il timore è lo spirito segreto di ogni natura animale, e il muscolo nervoso il suo strumento: allertato dai sensi fa ciò per cui è comandato, s’immobilizza e aspetta la fine del pericolo che passi. Ed Elio immaginava di spaventare le bestie al passo, e farle volare via con grida d’orco. E arrivare infine là dove riposa la memoria del miracolo, la lotta di San Giorgio, che il drago uccise. La storia del Santo che diede il nome al borgo, era allora per i testimoni del mondo afflitto ora un monito, ora un vanto, ora un terrore sussurrato nelle notti in cui dalle montagne scendono i lupi dallo stomaco ventoso.

II
Cabala fu sorpreso dal risveglio, riconsiderò in pochi attimi gli spazi intorno, la poca terra smossa a fare da letto, una coperta arroncinata e grezza, la nicchia scavata nella roccia in cui s’era rintanato per quella notte infame. Aveva respirato nel sonno aria fredda, e quel gelo gli si era incagliato nelle ossa. Veniva dal caldo, e seppure inseguito mai era stato preso. Aveva trovato Le Piane di Valtetra, apparse per caso dopo giorni di guadi e bestemmie, e aveva salito quei monti minimi, sperando di trovarci pace e solitudine. E così era stato. Solo qualche pastore, nessuna guardia, nessun nemico.
Strizzò gli occhi per vedere meglio tra le ombre la miseria di cui era signore e padrone, uniformata dallo scuro. Solo l’accetta micidiale, rubata agli uomini del carbone, riposava appoggiata alla parete, tratteneva i barlumi del giorno nuovo, i quali scivolavano sulla lama bagnandola all’occhio. Si scrollò di dosso la notte gettandosi in faccia dell’acqua ghiacciata, raccolta in una conca del terreno; con le mani a coppa vi immerse quella che un tempo era stata una faccia e ora era una piaga immobile: la pelle sorpresa dal gelo ritrovò la sensibilità e gli occhi si schiusero alla mattina che brillava, nonostante le nuvole che in lontananza s’addensavano, rotolando nel cielo come peli di cane.
Scese il monte a passo svelto, non conoscendo altro passo che quello della fretta. Nella piana intravide fuochi lontani, stoppie bruciate, piccoli falò d’erba e rami che rinnovavano l’aria di un odore diverso. Cabala accarezzò la barba corvina che qualche pelo bianco sfumava, poi strinse l’accetta che teneva al fianco con dita ridotte all’osso. Osservò cauto il sole mentre cominciava a splendere. Il bandito cercò di dire qualcosa, ma come accadeva ai tempi in cui portava le greggi, rinunciò quasi subito capendo che non c’era nessuno a tendere l’orecchio, se non bestie e piante, che nessuno avrebbe potuto capire più, che si rischiava uno sforzo inutile.
Fu in quel momento che dal fondo della piana apparve una rupicapra bianca. Anche a distanza le si poteva scorgere il nero vacuo e lattiginoso degli occhi, lo sguardo ebete e innocente. Sembrava una creatura figlia d’una mescolanza casuale di altre bestie meno speciali. Dell’agnello aveva il pelo candido e la conseguente predisposizione al martirio (folle andarsene in giro così candidi in un mondo pieno d’occhi rapaci) della capra il muso lungo, lo slancio di gambe nervose e il belato secco, della lepre la fuga improvvisa, del demonio due piccole cornette nere, che spiccavano come alberi gemelli in una radura innevata.
Fuggita da chissà quali cataclismi, così come Cabala arrivava alle Piane seguendo un suo speciale magnetismo, da pochi giorni ma abbastanza per divenire preda ambita. Cabala intonò un’ottava, si scoprì allegro: qualcosa in quella prima mattina di un anno casuale, in quell’incontro fortuito, in quell’aria imbalsamata, gli sembrò preannunciare la pienezza dello stomaco, la felicità dei sazi, un’anticipazione di paradiso. Si lanciò verso la piana, corse all’inseguimento della preda, ne immaginò il gusto e l’arrosto, si affannò e sorrise gonfiando la lingua dietro il palcoscenico dei denti guasti.

III
Lo studio sistematico delle varietà di specie che popolano le Piane di Valtetra che Don Alfio condusse a suo tempo, ovvero quando le ginocchia non si erano ancora consumate per il troppo genuflettersi a un Cristo di legno muto e severo, evidenziò come molte di esse si siano adattate a un ambiente che sembra aver concentrato tutti i propri sforzi nel rendersi inospitale.
«Il male vive nel cuore dell’uomo come la bestia nella natura, è invisibile agli occhi» sentenziò Don Alfio una volta durante un’omelia detta a mezzo fiato, rivolto a una chiesa desertificata da una chiamata che anticipava di poco quella del Signore. Senza tristezze, rubava dalla memoria scene risalenti a un tempo in cui la guerra non s’era abbattuta, la fame e la fine parevano solo parole buone per gli altri, non per il borgo e il suo gregge d’anime. Poi gettava uno sguardo a San Giorgio, notava imbarazzato l’estasi di chi infligge il colpo mortale nel collo della bestia brandendo la spada. Alle spalle, nel dipinto, l’eremo del Santo che divenne la tomba del drago, ormai una maceria riconsegnata ai rovi.
Quell’antica dracomachia era una storia che raccontava sempre meno, sempre malvolentieri: rinfocolava troppo gli animi dei ragazzi.
I figli del paese cercavano Don Alfio; interrotto nelle sue fatiche manoscritte, rispondeva a mezze parole quando gli si chiedeva dove fosse l’eremo di preciso, come raggiungerlo. «Vedete bene, oltre la foresta non c’è niente» sconsigliava, ma era un magro avvertimento per i figli della guerra, loro che postumi erano per diritto di nascita. Abituati a osservare i confini che chiudono i cieli del borgo, gli scuoranti avvertimenti dei vecchi e del prete si sfibrano nella stessa inconsistenza della loro voce sfiatata. Le loro dita artritiche sembrano progettate appositamente per vietare le spinte, per indicare laddove è vietato andare. L’oltre, ovvero la foresta, il confine delle case, la terra dei briganti e del sabba era un mondo d’incanto. A negarglielo era poi una voce, quella dei vecchi, che nessuno ascoltava più, buona ormai solo per redarguire e ammonire. E pregare, che è come dire arrendersi. E l’oltre era sempre là. Sperso per quell’orizzonte stinto, fagocitato dalla macchia. I ragazzi lo osservano ogni giorno. Uno di loro, in una notte uguale a tutte e unica, prima o poi sarebbe arrivato fino alle porte del borgo e avrebbe continuato il passo.

Fu Elio, figlio del macellaio. Portò con sé il coltello del padre. Diede appuntamento ai due cugini Biagio e Cesco e insieme sgusciarono nel silenzio delle case murate vive, superarono gli orti addormentati, appiattiti tra le ombre. L’alba li sorprese quando ormai il borgo si stagliava lontano, quando il fuoco, nello stomaco di cento camini, apparve solo un filo di fumo distante che dalle cappe si involava sfatto.

IV
Concentrando tutto il proprio peso sulle ginocchia flesse, Cabala si nascose tra le frasche del bosco. Di fronte a lui, la rupicapra se ne stava a collo basso, ruminando qualche umida radice trovata fortunosamente, in uno spazio non coperto dagli alberi e colpito a perpendicolo da una lama di sole. Cabala non conosceva quella sensazione che pervade gli uomini quando sono interessati da quell’incanto particolare dei sensi e visse il suo improvviso ribollire come una vergogna mai provata. La bellezza gli invase gli occhi ma non s’impastò con la lingua, non riuscì a tradursi un pensiero utile. Un pulviscolo acceso dai timidi raggi di sole vorticò attorno all’animale. Cabala si meravigliò dei secondi di attesa prima di lanciarsi sulla preda, momenti mal spesi e non per pianificare meglio l’agguato e le strategie necessarie, ma per godere della luce che, in quella precisa parte di mondo, si irradiava sul manto pallido della bestia ignara e pacifica, riflettendo lo splendore. L’uomo rese il suo respiro più flebile per celare meglio la sua presenza, arrivò a pensare, cullato dal basso continuo del suo cuore, che in un momento del genere avrebbe potuto anche sparire, dissolversi come la nebbia quando il sole fa l’ombra corta.

V
Si diceva che il colpo fatale di San Giorgio al drago fu dato nell’incavo tra spalla e collo e che la bestia morente avesse emesso un urlo così forte da far abbandonare agli animali delle Piane le loro tane come fuggendo da un disastro.
Erano vecchie storie del genere che i ragazzi si raccontavano per rendere la marcia meno dura. Solo questo sapevano dire del mondo, ciò che avevano sentito dai pulpiti, quello che avevano capito dai vecchi, e come anche loro, ormai, vivevano nel ricordo delle cose perdute, che però la loro pelle aveva toccato, i ragazzi ripensavano a meraviglie che l’occhio non aveva incontrato mai. Passando per il bosco, colpivano con dei bastoni i tronchi degli alberi, e a ogni colpo sordo di rimando emettevano un grido che faceva fuggire gli uccelli dai rami, che rinfocolava di un coraggio inesauribile i loro cuori, che rendeva meno spaventoso il loro pellegrinaggio all’eremo. Ognuno dentro di sé si pensava come un eroe, si credevano tutti San Giorgio, e nell’entusiasmo della fuga dal paese immaginavano di uccidere draghi e guadagnarsi il Paradiso. Il borgo ora, se mai c’era stato, era nella loro mente una cosa inutile e perduta, come un giocattolo d’infanzia.

VI
Le albe della Piana, per i pochi che sopravvivono alle febbri notturne, hanno tutto il sapore di promesse mantenute. I tramonti, dal canto loro, sono preannunciazioni celesti di attese infinite, poiché la notte è una scommessa in cui ci si gioca tutto. Tra le mura del borgo che gli appariva al sommo della gobba della macchia come una pustola informe e calda, Cabala immaginava le vite dei normali. Gli pareva di ricordare un tempo in cui la voce del padre sapeva rassicurarlo sul domani, garantirgli la speranza contro ogni probabilità o sventura. Ma cosa c’è di meno affidabile di un ricordo, soprattutto quando niente di quello che si ha intorno sembra più averci a che fare? Cabala premette con le nocche sbiancate una radice appena strappata contro il palmo dell’altra mano, spremendo un succo violaceo, denso e nauseabondo. La grossa lingua palpitò appena avvertì l’amaro della poltiglia. Rinvigorito dalla radice, il brigante scacciò l’immagine, ancora impressa negli occhi tristi, della rupicapra che lo avvista e fugge. Cabala aveva però deciso di seguirla nel folto della foresta, si diceva che quella sera stessa nei fuochi contadini avrebbe gettato le sue polpe dedicandosi l’olocausto della sua carne pallida, fosse stata l’ultima cosa da fare in questo giorno dedicato al massacro.

VII
La via del Santo doveva essere una strada di privazioni e così Elio sembrava non patire sforzi o fame, faceva ora sfoggio di due o tre colpi ben studiati, colpendo l’aria con precisione e godeva della rinuncia. Anche Cesco rise vedendo l’amico e si scalmanò roteando un bastone a mo’ di spada, andando a passo sicuro sul tappeto di foglie del sottobosco, come va alla guerra chi non l’ha mai fatta, scansando i rami che si allungavano sul viso, smossi da Biagio che precedeva entrambi.
I pastori dicono di aver visto un disertore sulle montagne, disse Cesco.
Che ci venga di fronte, disse Elio mostrando il coltello.
Elio voleva un drago da sfidare e qualcosa del genere, i ragazzi, l’avrebbero presto incontrato. I serpenti della piana sono infatti soliti dormire sotto l’intreccio delle radici delle grandi marruche di Valtetra. Secondo Don Alfio, ma è pensiero comune, andare a snidarli a colpi di bastone è forse una fatale ingenuità. Cesco non aveva riportato ancora il braccio armato a una posizione di quiete quando si accorse di un soffio appena percettibile, come lo sfuriare di un gatto molto piccolo. La fine del giorno celava in parte il corpo dell’animale, confuso tra le ombre. Questo scattò in avanti come esercitasse un mestiere abusato, mostrò le fauci aperte e si tuffò al morso. Cesco non poté fare niente perché il mondo prese a scivolargli via dagli occhi, mentre anche gli altri due, che pure tutto vedevano, niente riuscirono a fare.

VIII
Che visione! pensò Cabala. La bestia inconsapevole e pallida masticava in quell’aria bruciata, sembrava come avvolgersi in quel candore, i piccoli scatti nervosi delle orecchie, i fremiti del manto, i denti che sbattevano tra di loro erano piccole sommosse avvertite solo dall’uomo, in quello spazio dimenticato, in quel momento del tempo che Cabala aveva riacciuffato. Notava tutto, vedeva alla perfezione quella splendida macchina naturale in tutta la sua inconsapevolezza. L’uomo riuscì a godere abbastanza della visione, fino a che l’animale gli rivolse lo sguardo. Cabala trattenne il fiato. Chiese al Cielo che la rupicapra non fuggisse via di nuovo, non era pronto a vedersela scappare ancora, ma non per le ragioni del mattino, che erano quelle del cacciatore. Pur esiliato e maledetto, pur condannato e senza scrupolo, nel baratro di quel pomeriggio, Cabala era stato visto. Era stato visto mentre guardava l’incoscienza, la purezza e la pace. Era stato visto vederla. Per la prima volta sentì il peso della solitudine, ripensò al suo antro tra le montagne, alle sue povere cose sparse per terra, la visione che la mattina gli aveva così crudelmente offerto e sentì aprire porte alla pietà per se stesso e alla meraviglia per il Creato. Non poteva più fare finta di niente. Cabala avvertì un principio di lacrime, come una fame che non era di cibo, mentre il fondo più fondo degli occhi dell’animale lo scrutavano da una distanza che pareva infinita, in quell’ora e in quel tempo che pareva dissigillato per sempre.

IX
C’era da fare la cosa giusta: tornare al borgo a passo spedito, riportare Cesco e sperare che Don Alfio e il dottore potessero ancora salvarlo, ognuno con il mestiere suo. Vai tu, disse Elio al cugino. Biagio non volle troppo discutere, anche perché in cuor suo, ma non lo avrebbe ammesso mai, la possibilità di tornarsene alla sicurezza delle mura, ora che il giorno andava a finire, gli scioglieva dentro come un balsamo di tranquillità.
Due ore di cammino separarono i cugini. Elio andò verso le profondità del bosco, Biagio, con in spalla Cesco, tornò sui passi. Infine cominciò a notare i rami farsi meno intricati e gli alberi concedere sempre più spazio a quelli vicini. Il bosco allargava le maglie della sua rete. Trascinando l’amico in spalla, il ragazzo affrettò il passo sforzandosi tanto quanto le sue energie di giovane glielo permisero. Tra poco avrebbe visto i fumi del borgo, si preparò a sentire i furori della madre, capiva che ci sarebbero state delle conseguenze e non gli importò. Ci sarebbe stato Don Alfio pronto a offrire una predica, il suo volto severo che sapeva però perdonare, riconsiderò le fredde mura di pietra della casa alla luce di una felicità a cui non aveva mai creduto fino ad ora. Ma la mente non doveva andarsene troppo in giro in territori che non la riguardavano ancora, specialmente in quelli instabili dei godimenti futuri. Perché le evenienze del mondo sono mutevoli, così come gli smottamenti della Piana di Valtetra, e può capitare al piede troppo sicuro di posarsi dove un disordine di foglie nasconde una voragine. Biagio non comprese bene quali forze lo attrassero verso l’abisso, né conosceva il significato di parole ambigue che glielo avrebbero spiegato. Conobbe però la schiettezza dell’impatto, il dilagare del sangue interno, il corpo dell’amico caduto a piombo e un concerto d’ossa rotte. E di sicuro adesso, mentre il respiro si faceva affannoso e i pensieri gli si fecero un velo di fango, per la prima volta il ragazzo intuì cosa fosse il Sonno di cui i vecchi parlano quando si fa più vicina la fine delle loro veglie, e sperimentò quello strano torpore che lo precede.

X
La rupicapra bianca si era involata nel folto. Dei rumori improvvisi, come di qualcosa che sbatte sugli alberi ripetutamente, l’avevano intimorita e convinta alla fuga. Cabala rimase a fissare il vuoto lasciato dall’animale. Come si sopravvive alla bellezza quando essa ci fugge via? Cabala non sapeva a quale istinto cedere. Tornava ai vecchi propositi. Avrebbe voluto bruciare il mondo, vederlo crepare sotto i suoi occhi. Eppure avrebbe voluto anche riposare al caldo di un fuoco condiviso, farsi accettare dal borgo, spremere i giorni che gli avanzavano a raccontare al mondo della purezza che aveva appena intravisto, farsi testimone e apostolo di un miracolo inatteso. Nell’indecisione, in quel futuro sospeso, calde lacrime gli segnarono il volto sporco.

XI
Elio passò attraverso una vegetazione senza nome, carezzando le piante che lo sfioravano. Lasciò che le dita applicassero una forza impercettibile, fino a recidere le punte dei fiori che passavano in mezzo. Poi riaprì la mano e i fiori che non cadevano a terra se li portava al naso e tirava un enorme sospiro. Com’era bella la vita dei sensi. Si occupò talmente tanto in quel sentiero di profumi e di luci, che solo dopo qualche minuto si accorse che il suono lontano di qualcosa che scorre si faceva sempre meno distante. Cercò di capire meglio guardando verso il basso, cercando di non farsi distrarre dal mosaico di liane, cespuglietti e tronchi che aveva davanti, si concentrò, lasciando che l’udito si acuisse. Gli occhi, da fessura quale erano diventati nell’atto di concentrarsi, si spalancarono, a est c’era un fiume. Camminò perché San Giorgio avrebbe fatto così, perché così fanno gli uomini, col respiro tranquillo del signore a passeggio che niente teme. Ma una parte, nascosta tra i ricordi dei giochi d’infanzia ancora attaccata addosso, avrebbe avuto voglia di trotterellare per il sentiero e fischiare canzoni che ricordava a malapena.

XII
Cabala aveva imparato a pregare Dio. E lo fece con la voce del penitente. Oggi è un giorno santo, oggi tutto partecipa a rallegrare il disastro del mondo. Ancora un altro sguardo, Dio, ancora uno. Poi scostò con la mano ossuta le piante che aveva di fronte. Lo sorprese la visione di un rudere, forse una vecchia chiesa, abbattuta dal vento e dai secoli.

XIII
Elio corse sostenendo un ritmo vigoroso, le gambe ignorarono le piccole spine contro cui impattavano aggrappandosi alla viva pelle, perché la meta era vicina. La pietra posseduta ormai dalla foresta malcelava il romitorio di San Giorgio. Elio stentava a credere che il fondo di tutte quelle storie, che animavano le notti degli inverni terribili, fosse proprio davanti ai suoi occhi sbalorditi, che dove poggiava i piedi la bestia infame aveva esalato l’ultimo respiro. Elio appoggiò il palmo della mano su un muro crollato, l’umidità del macigno gli scaricò addosso un’intensa sensazione di piacere. Poi si dedicò a osservare tutti i dettagli che riuscì a cogliere, respirò a fondo nel silenzio sacro, fino a che un rumore lo mise in allarme. Era la rupicapra bianca che lo fissava con l’occhio acquoso della creatura innocente, apparsa senza avvisi. Elio non colse la totalità dell’animale ma vide le corna e cedette al primo impulso, qualcosa guidò la sua mano, una reazione improvvisa che sgorgò come un canto, una forza fantasma che portò la lama del padre alla gola dell’animale. Essa si aprì in due lembi, la carne si spalancò come un occhio risvegliato. Una pozza di sangue nero si radunò ai suoi piedi, il ragazzo rimase a osservare quel lento dilagare scuro; il cuore, per lo spavento impazzito, si calmò lentamente. Ma un nuovo rumore lo rianimò. Con le spalle al sole, emerse da un bagliore una figura che pareva non vedere il ragazzo, ma solo l’agonia della bestia. Le labbra dell’uomo apparso tremarono, le dita sul manico dell’accetta si serrarono attorno al manico, dietro la fronte corrugata si condensò un pensiero terribile. Poi ci fu un urlo e il ragazzo si tirò su in piedi e strinse a sua volta l’arma difendendosi come per un automatismo. Le due armi si scontrarono l’una contro l’altra, una andò a fondo e l’altra mancò, e nella confusione dello stesso attimo in cui acciaio e carne si incontrarono, il sangue che cadde a terra rivelò a entrambi di chi sarebbe stata la vita futura e di chi l’oblio.

Filippo Cerri

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