Il cavaliere Jànos e l’uccello di fuoco – racconto di Paolo di Tarzo

Il cavaliere Jànos e l’uccello di fuoco – racconto di Paolo di Tarzo

Breve notizia sul testo
di Geronimo Bosco

Il seguente brano è una traduzione dalla trascrizione inglese apparsa in un volume ungherese di etno-atropologia dedicato al folklore vogulo (Collezione folkloristica vogula – Vogul népkoltesi gyujtemény, vol II; 1891).

La detta trascrizione ha per oggetto una fiaba raccolta mediante intervista etnografica in un piccolo centro abitato della grande pianura ungherese dal curatore del volume (B. Munkácsi) ed è stata apposta in nota dallo stesso come curiosa variante della fiaba vogula ‘ Il cavaliere e il falco di luce’. Secondo l’autore del volume, tale fiaba costituirebbe l’anello di congiunzione tra la remota nebulosa dello sciamanesimo uralo-altaico e quel gruppo fiabistico slavo avente come cardine la figura mitologica dell’ uccello di fuoco (passando per la quale il grande archetipo simbolico della fenice ha finito per rifiorire, instancabile, tanto nella figura del Simurgh sufico-persiano quanto, alle soglie del novecento, nella prima grande opera stravinskiana). Il nucleo narrativo di questa fiaba, lo schema essenziale del suo intreccio, gli attanti principali della storia sono stati rinvenuti indipendentemente in altre fiabe da diversi studiosi di folklore tra le vallate settentrionali degli Urali e la sponda sinistra del fiume Ob’, nella Russia caucasica e infine tra la Danimarca e la Svezia (ma qui con significative variazioni – soprattutto per quanto riguarda le varianti baltiche, appesantite da un’elefantiasi quasi-romanzesca dell’intreccio).

Come osserva il Munkácsi la versione magiara, forse a causa della sua estrema povertà (se confrontata al sistema delle sue varianti allogene, rispetto alle quali questa versione costituisce appena qualcosa più di un mero prodromo), rappresenta un’ anomalia oltremodo affascinante. Non si tratta di una fiaba mutila, assicura Munkácsi: è proprio così che veniva raccontata a suo tempo nei villaggi contadini facenti capo al circondario di Békés.

Il minimale procedere per scene lievemente incongrue (quasi fossero la concrezione di due o più redazioni diverse), in parte sovrapposte nei contenuti (con mirabile effetto di cubismo narrativo ante-litteram, in un intreccio di piani spazio-temporali che non è sempre possibile sciogliere in maniera univoca) e il suo brusco sfociare sul nulla, allo stesso modo di un ponte interrotto (crediamo di poter paragonare, senza commettere abusi, il luogo a cui approda la storia ad una specie di nulla) – tutte queste sue caratteristiche la rendono, all’orecchio moderno, stranamente affine ad una possibilità compositivo-musicale del racconto che solo la contemporaneità ha pienamente abilitato all’uso artistico-poietico: l’assoluta ed eterna apertura garantita dalla non risoluzione deliberata di una frase, detta per questo a tema sospeso (possibilità forse anticipata nel tardo rinascimento dal celeberrimo quanto forse in fondo frainteso non-finito michelangiolesco – e nella stessa definizione di non-finito si manifesta infatti a nostro avviso l’equivoco).

Concludo notificando che tale versione, oltre a quanto già detto, ha il pregio supplementare di apparire in un passaggio dello splendido ‘ La malattia mortale’ di S. Kierkegaard (PARTE PRIMA, C, B. α), citata essenzialmente ma inconfondibilmente nella sua intrinseca e necessaria incompletezza-apertura e nella concatenazione evenemenziale di: 1) elusività dell’inseguito – 2) inseguimento asintotico – 3) allontanamento improvviso dell’inseguito – 4) perdizione notturna (tale catena essendo esclusiva del corpo centrale della nostra variante magiara!).

La semplice ragione ci suggerisce di escludere per estrema improbabilità la congettura della pura coincidenza, perciò ammettiamo affascinati (pur riconoscendo irrealizzabile la loro verificabilità) possibili influenze e trasmissioni non-locali, ovvero tradizioni a-causali. Ignoriamo, e non sappiamo nemmeno immaginare, quali circostanze possano aver sospinto questa anomala versione ungherese di una fiaba originariamente siberiana fin sulle grigie coste Selandesi, bussando per giunta proprio alla porta del filosofo di Copenhaghen (e solamente alla sua – ad oggi infatti non vi sono altre testimonianze, se non appunto questa pagina kierkegaardiana, del suo passaggio in terra danese).

Concludiamo perciò senza risolvere, caricandoci sulle spalle la crux desperationis che ci spetta – perché, talvolta, anche ritirarsi è coraggio: e di quale caso si tratti per noi in quest’occasione, facendo di necessità virtù, cogliamo l’occasione presente per ricordare a noi stessi che tra cielo e terra ci saranno sempre più cose di quante mai riusciranno ad immaginare le nostre povere (e tuttavia preziose) filosofie.

1.
János cavaliere stava andando a caccia
insieme ai fratelli, di buon mattino.
Ciascuno sui propri cavalli, al trotto,
se ne andava per via, nell’ampio cammino
tra l’aria celeste e la luce gentile,
quando un momento, fu caso o destino,
l’ occhio del cavaliere, scorrendo distratto
tra i fili dell’erba, le margherite, le viole,
incontra nella polvere una piuma diversa:
una piuma di fuoco che splende più del sole!
Fermato il cavallo e sceso da sella,
stupefatto si china e raccoglie la piuma:
le dita gli tremano su quel fragile corpo
e gli occhi si perdono nella luce più viva.
Ecco, da quel giorno il nostro cavaliere
se è fuori a cavallo o sta nel castello,
di notte o di giorno, faccia nuvolo o bello
dalle nostre finestre guarda fisso nel cielo.
Non risponde più se qualcuno lo chiama,
ignora i doveri della sua condizione,
rifugge i tornei, la caccia, i compagni.
I fratelli hanno già mandato a chiamare
i medici migliori alla corte reale
i quali, tra pagine di libri polverosi
pensando e ripensando, e discutendo tra loro,
preparano al malato le più strane pozioni –
ma di tutte le strade da questi tentate
non una raggiunge la destinazione:
il cavaliere continua a guardare lontano.

Un giorno qualunque, in silenzio, János,
sellato di nascosto il proprio cavallo,
si lascia per sempre alle spalle il castello.

2.
Nel momento sospeso nel quale la notte
ancora mantiene nell’ombra le strade
e la promessa del giorno già illumina il cielo
nel sonno tranquillo di János cavaliere
lo raggiunse l’enigma d’una cieca visione:
cavalcava da sempre, non sapendo per dove
procedendo a fatica nel fitto di un bosco
a tal punto smarrito da esser senza più nome
quando, errando, vide una luce
che ferma bucava l’ombra più buia
– tra il fitto dei rami un piccolo sole –
e seguita a fatica la sua indicazione
ecco rivelarsi una bella radura.
Ma la luce che accendeva la radura come un faro
non era unicamente quella del giorno:
al suo centro infatti divampava un incendio
e da fuoco avvolta, seduta al suo interno
ma senza nel corpo alcun danno patire,
vi stava seduta tranquilla una fanciulla
così bella, così bella da non poterlo ridire.
Essa lo guardava, e lo sguardo tra le fiamme
come d’onice di pietra rifulgente scintillava.
E parlandogli essa diceva: Jánoska!
ti aspetto da sempre, ti aspetto da prima
che iniziasse il fatale tuo viaggio d’oblio;
ora che l’ orecchio finalmente mi sente
ritrovando quello che mai hai smarrito
revocando l’impossibile, raggiungendo il mio corpo
dai compimento all’indugio infinito!
Le strane parole come fosse nel vuoto
nel vuoto si perdevano senza risposta.
Il cavaliere voleva, ma non poteva parlare,
e alle membra pesanti alcun movimento
era rimasto, come a statua di gesso.

3.
Ormai imminente lo splendore meridiano
János cavaliere, a caccia coi fratelli,
desidera impegnarsi in un’ ultima battuta:
incalzano allora i segugi ormai stanchi,
rientrano i cavalli nel fitto del bosco,
ciascuno in ascolto avanzando assorto.
Ma János, stavolta, non porta lo sguardo
sulla terra alle tracce della preda supposta
ma tiene la fronte in alto rivolta
senza lui stesso saperne il perché,
senza nemmeno sapere a che cosa –
forse alle fronde degli alberi antichi,
forse sul cielo che fra esse si annuncia.
Quand’ecco, ad un tratto, il bosco muggisce,
si alzano onde nel mare lontano:
l’uccello di fuoco è sceso nel mondo
sfigurandone il volto col suo volo sovrano.
János confuso, stretto alle briglie,
tra gli alberi piegati come fossero steli,
tra venti annodati come lunghi capelli,
con gli occhi sgranati ha un sussulto nel cuore
quando dal fondo del violento ciclone
tra le polveri i rami le foglie una luce
precede il motivo di tanto stupore:
l’enorme corpo di piume lucenti,
le ali che volando sprigionano faville!

Non appena esaurito il grande stupore
che l’aveva fermato nella sua posizione,
passato da poco l’uccello di fuoco
János spronando di forza il destriero
inizia la caccia senz’altra esitazione:
penetra a forza nel cuore del bosco
spezzandone i rami, ignorando il percorso,
sbaragliando gli ostacoli con cieca ossessione
– mai staccandogli gli occhi di dosso.
Corrono i due a rotta di collo
nel tempo sospeso, non sapendo da quando,
né quanto: mai tramontato, il giorno
gli pareva infinito e al contempo contratto.
Ecco, il falco ora vola più basso
– la luce lo acceca, lo brucia il calore,
e tanto è vicino che János lo sfiora
in piedi alla sella, tendendo la mano,
perdute le armi chissà quando e dove
– ma proprio un nulla mancava a toccarlo
che un soffio di vento glielo porta lontano.
Desolato János rallenta la corsa
e guarda l’uccello sparire nel cielo:
oramai distante, la luce che un tempo
scopriva ogni dove senza eccezione
ora eguagliava appena una stella:
nel cielo serale un minuto tremore.
Il destriero rallenta, si ferma, sfiancato.
Quanto ho già cavalcato? si chiede.
Nuovamente libero di vagare sulle cose
lo sguardo del cavaliere esplora il circostante:
il bosco è sparito, perduto alle spalle:
lo circonda una vasta pianura ondulata,
ignota, spazzata da venti contrari,
dalla quale ogni traccia di vita è sradicata.
L’orizzonte da dove è venuto è chiaro
ancora, e nel posto in cui lui si trova
la volta del cielo sta virando al viola.
Davanti, lontano, dove il falco è sparito
sta salendo il duro mantello della notte,
più nero del buco che ogni stella inghiotte.
Il falco è fuggito, e io dove sono,
dove ho lasciato i cari compagni?
János domandava, quando di colpo
sentì nel crepitìo delle fiamme avvolta
una voce dolce chiamare il suo nome,
e vide due occhi risoluti fissarlo
– vividi e forti come fossero presenti –
rifulgenti nella rossa luce d’un incendio.
La preda se n’è andata in quella direzione,
si disse János – e decise il destino:
lì andrò anch’io, fosse morte o vita,
continuerò ad avanzare nella terra ignota
scommettendo tutto sulla mia incerta fatica,
e a costo di perdermi in un mondo estraneo
farò di quel falco la mia unica guida.

4.
Durò tanto, alla fine, il viaggio, o poco,
chi mai può dirlo? Io so soltanto
che il nostro cavaliere, avendo raggiunto
inseguendo quel falco il confine del mondo
decise senza punto esitare di varcarlo.
E riuscì a raggiungere l’agognato oggetto
di tanta dedizione? Io so soltanto
che ancora adesso, mentre vi parlo,
da qualche parte al di là della terra
tra le voci confliggenti di venti furiosi
János sta seguendo il suo fulgido falco,
quella luce che della scintilla è sorella,
János sta seguendo la fanciulla di fuoco,
quella voce tremante e sempre più bella –
ancora vivo, ancora vivo.

Paolo di Tarzo

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