Hamsa #4 – Fede è sustanza – racconto di Maria Giovanna Fadiga

Hamsa #4 – Fede è sustanza – racconto di Maria Giovanna Fadiga

“Hamsa” (in ebraico Hamesh, in arabo Hamsa, cinque: le cinque dita della mano). Le storie di Hamsa raccontano di epifanie, di trasformazioni, di metamorfosi. Hamsa ha a che fare con il lavoro delle mani, con le reliquie e con i frammenti. Hamsa racconta di ciò che il tempo consegna, di ciò che non si perde e non si lascia.

rubrica ideata e curata da Silvia Tebaldi


Quando ci coglie l’immobilità, la stasi, quando ci ritroviamo con il dolore, sovente ci soccorrono le frasi: parole udite, versi imparati a scuola, frammenti che affiorano da chissà dove, come da un fondo oscuro. Ci sembra che emergano per caso, ma la parola vera è grazia.
Quando l’afflizione, quando la malattia ci irrigidisce, ci sostiene la grazia delle tinte, delle mani che hanno imparato i gesti. La scrittura, il brusio dei colori. Mosaici di suoni. Segni che sono forme sostanziali.
Attorno a due versi danteschi, attorno a un passo della Commedia – non più una citazione, già una viva presenza – Maria Giovanna Fadiga ha intrecciato un racconto: dentro la conoscenza è un imperduto, ciò che non si lascia e non si perde. E con i nomi antichi dei pigmenti, che riprendono vita, dispiega assieme un ricordo e un presagio, assieme grazia e pienezza di vita.
In ciò consiste, in fondo, ogni metamorfosi.

Silvia Tebaldi


(Dante, Paradiso XXIV, Canto 64)

Quella finestra dell’ingresso era diventata per lei l’unico vero spiraglio.
O cameretta, che già fosti un porto… ma certo, la conosceva da tanto tempo. Mai avrebbe pensato di viverci, tuttavia. Sapeva che sarebbe stata presto come un oblò, attraverso cui la vita scorreva a una velocità diversa – c’era sempre un dentro e un fuori. Non era poi così terribile. “Ci sono malattie peggiori”, le dicevano e si diceva, ma quella era un inganno subdolo, perché la possedeva piano piano, con un dolore sottile e crescente. Ieri era uguale, si diceva: ma se andava un poco più indietro nel tempo, “ieri” era molto peggio di “prima”.

C’erano stati i sogni, all’inizio, che marcavano netto il confine con la realtà.
Sogni in cui correva libera, come i cavalli nei dipinti; presto erano diventati sogni di agguati e fughe, sogni angosciati ma vivi. Adesso erano scomparsi.
“Come va oggi?” le diceva sempre lui, quando rientrava la sera nella sua prigione-involucro. “Bene, bene” rispondeva con foga “sai cosa ho fatto oggi?” e giù un elenco affannato di piccole azioni e di grandi pensieri. E lui sorrideva. Forse, pensava, in fondo non sta così male… Lo spazio orizzontale era diventato per lei un’unità di misura: due camere fino al bagno, tre gradini fino alla sala, un gradino fino alla porta. Lo ripassava mentalmente, prima di uscire, come a esorcizzarlo.

Un giorno si accorse anche dello spazio verticale.
Le pareti di casa erano ampie e luminose. Bastava togliere qualche quadro e si dilatavano sempre di più. Dipingere il mondo e i desideri, perché no? Schizzò sul muro bianco una traccia sottile con la matita, che si riempì in fretta di colori vivaci. Erano due ali bellissime, come quelle dei suoi manoscritti e dipingerle le prendeva tempo, energie e pensieri. Era una nuova febbre alla quale dedicava tutta sé stessa. Mi puoi comprare per favore un tubetto di amaranto? di bronzo? di smeraldo? Certo, te lo porto stasera, sorrideva lui, felice di questa nuova passione che prendeva corpo sotto i suoi occhi. E nomi antichi riprendevano vita: minio, oro, biacca, niello, certi blu profondi come il lapislazzuli illuminavano via via la parete del lungo corridoio. Dipingeva dettagli sempre più raffinati: ali con rotelle e volute dantesche e fiamminghe, piume delicate, con toni pastello come quelle del Beato Angelico o di Giotto.
Tutto il suo tempo era per loro.

Quella mattina, quasi per istinto, appoggiò le spalle al muro, sul suo affresco. Sono con le spalle al muro, pensò, e rise della sua stessa ironia. Sentì qualcosa, un calore improvviso sulla schiena, un confortante peso sulle spalle e aprì la porta di casa. Il mondo era rimasto lì, sempre uguale, da quando lei non lo guardava più… fede è sustanza sentì salire dentro di lei. Fede è sustanza, si ripeté: aveva le ali, adesso. Le sue ali!
Poi guardò in alto. Lo spazio verticale grigio e inquinato diventò una via sicura e luminosa, quasi liquida. Le sue nuove ali si mossero: fede è sustanza di cose sperate e …
consistenza delle non parventi…

Non la videro più. Crederci è tutto.

Maria Giovanna Fadiga

Share this post