Hamsa #2 – Il mio corpo di cenere – racconto di Martina Maccianti
Redazione2025-04-07T07:58:45+02:00“Hamsa” (in ebraico Hamesh, in arabo Hamsa, cinque: le cinque dita della mano). Le storie di Hamsa raccontano di epifanie, di trasformazioni, di metamorfosi. Hamsa ha a che fare con il lavoro delle mani, con le reliquie e con i frammenti. Hamsa racconta di ciò che il tempo consegna, di ciò che non si perde e non si lascia.
rubrica ideata e curata da Silvia Tebaldi
Ma cos’è portare con noi la metamorfosi – che si tratti di un libro o di un ricordo, donna che diventa alloro o rondine, nastro che si trasforma in un’anguilla, divenir-vespa dell’orchidea e divenir-orchidea della vespa, – cos’è portarci appresso l’imperduto, storie di guarigione, un talismano.
E come nella preghiera di Artaud, dove c’è un tu e c’è un noi ma non si sa chi sono, portare in noi un gesto impersonale, come un intransitivo nel molteplice, le perle che furono i suoi occhi, infinità di modificazioni. E non per arredare con il pensiero, ammobiliare un salotto intellettuale, un tinello elegiaco, i vani scala del risentimento, ma invece per pulirci dal pensiero. Perché quel divenire ci accompagni, nelle strade in salita e nell’ovunque, nelle cucine dei giorni in comune.
Che tra il lutto e cantare non c’è contrasto, che lotta e cura e poesia sono contigue, noi lo sappiamo fin dalla preistoria. Questo sapere sepolto sotto cumuli, sotto ammassi di detriti e negazioni, occorre disseppellirlo ora e sempre, restituirlo a pratiche e voci. Con Il mio corpo di cenere, Martina Maccianti ci ricorda la convergenza di fuoco e cenere, le plurali rinascite, il lavoro della cura e della voce: ci consegna, quindi, una storia di guarigione.
Silvia Tebaldi
Sono nata due volte.
La prima, affondando radici nelle profondità di una terra che sussurrava segreti senza nome. Lì il sole, guardiano scrupoloso, scivolava ogni giorno tra le fronde, e la sua luce danzava. Il vento, come un incantesimo, accarezzava il mio corpo, che ancora non sapeva di essere.
Ogni tratto della mia carne, ogni fibra delle mie vene, si alimentava di pioggia, silenzi, tempeste e quiete. Custodivo una consapevolezza che solo il silenzio sa sussurrare. I pomeriggi d’estate mi baciavano con un calore che mi penetrava fino alle ossa, e la notte mi avvolgeva come una coperta di ombre.
Fu senza annunci o premonizioni che un giorno la terra iniziò a tremare e il cielo divenne rosso.
Non fu una fiamma improvvisa, ma piuttosto un sussurro, come un segreto che si annunciava con il respiro di un drago dormiente. Quella notte non era più solo buio, ma una ferita che squarciava il mondo. Un cielo lacerato, che sanguinava mentre il fumo sollevava polvere e fantasmi. Quel fuoco furioso si dimenava, come un demone in cerca di una preda da consumare, divorando la mia carne. Le radici stridevano nel profondo della terra, come se il mondo stesse gridando in agonia. La mia pelle si sfaldava, le fibre cedevano sotto la morsa di quell’inferno.
Quando le fiamme calarono restò soltanto un odore acre, grigio a pervadere ogni zolla di terra. Non più un riflesso, una carezza ma soltanto una distesa bruna di niente. Eppure, in mezzo alla distruzione, una parte di me era rimasta. Annerita, inerme, ma ancora viva.
E fu allora che lei mi trovò.
Ricordo con lucida memoria le sue mani. Appartenevano a chi non ha paura di guardare nel cuore della distruzione e riconoscersi. Mani che toccavano sorgenti di un altro mondo, che sapevano come raccogliere ciò che era perduto, far rinascere. Quelle mani, fin troppo ruvide e bruciate per appartenere a questo spazio, mi sollevarono dall’abisso. Il suo tocco non era solo gesto, ma un atto di risurrezione. La sua presa su di me era come un incantesimo. Per un attimo, in quel luogo, fu come se il mondo tutto si fosse fermato.
Non c’era fretta in lei, come se il tempo stesso fosse più lento quando toccava le cose che appartenevano alla morte.
Ogni movimento era un richiamo, un esorcismo, un passo attraverso quelle fiamme che avrebbero distrutto ogni cosa. Così, da sapiente artigiana, mi ricostruiva lentamente, con una venerazione quasi ossessiva.
Quel giorno nacqui per la seconda volta.
L’istante in cui le sue dita si poggiarono su di me, il suono che scaturì non fu solo una nota, ma un grido. Un grido che non apparteneva a questa vita. Non c’era armonia, non c’era bellezza, solo il dolore di un corpo che non sapeva se stava rinascendo o solo ricordando ciò che era stato.
Non smetteva di scavare, di intagliare, di cercare l’anima che mi abita. Ogni suo tocco era una promessa, un sigillo. Non ero solo materia scolpita. Ero il suo specchio, un ponte tra il dolore e l’invisibile, un mezzo per parlare al vuoto, per ricucire frammenti persi.
Quell’ossessione oltre la morte sembrava non trovare pace. Giorno dopo giorno. Notte dopo notte. In una danza sospesa tra qui e altrove.
Iniziai a incrinarmi, tra le fibre, un giorno di primavera di molte vite dopo. Non in modo brusco, lentamente, come pelle che cede al passare degli anni. Ma il mio corpo di cenere non conosceva paura. La carne si era già arresa al suo destino: da tempo la mia esistenza non era più semplice essere.
Sono nata due volte.
La prima, affondando radici nelle profondità di una terra che sussurrava segreti senza nome. La seconda, rinascendo in un corpo di cenere, sangue e memoria, capace di non morire mai davvero. Un corpo capace di custodire ogni frammento, granello e labile suono. Perché il passato, come il dolore, non è mai silenzioso. Nulla di ciò che è stato si perde davvero. Nulla muore. E nulla mai tace.
Martina Maccianti