Grano – racconto di Gerardo Novi
Redazione2025-11-10T23:52:42+01:00per Daphne G.
Per qualche motivo che all’inizio non capivo, i tuoi genitori mi presero in simpatia. Dopo qualche giorno che mi ero trasferito nella casetta gialla ereditata da uno zio, mentre ero ancora impegnato a svuotare le valigie, tua madre venne a portarmi pomodori freschi del loro orto in un cesto di vimini.
M’invitò a casa loro, lontana solo pochi metri, per un caffè. Disse che erano curiosi di sentire “storie dalla città”.
Io in realtà non avevo molto da raccontare. La città, il mondo, le persone in generale, mi avevano piuttosto seccato. Abbastanza da decidermi, all’inizio di quell’estate, ad allontanarmi per un po’. Il silenzio della campagna era un sollievo dopo tutta quella vita di rumore. Avevo staccato il telefono e non avevo detto a nessuno dov’ero. Per la prima volta in vita mia ero libero.
E forse tua madre notò questa cosa, preoccupandosi come se facessi già parte della famiglia. Mentre posavo i pomodori in cucina e l’accompagnavo alla porta, lei rinnovò il suo invito per un caffè e poi, con uno sguardo attento, mi pizzicò dal nulla sulla guancia con fare affettuoso e si congedò. Dalla finestra la guardai allontanarsi sulla strada polverosa sentendo già una stima profonda per lei.
Il giorno seguente, subito dopo pranzo, ero già nel vostro salotto. Tua madre, mentre versava il caffè fumante, mi riempiva di domande e tuo padre, seduto nella sua grossa poltrona a lato della finestra che affacciava sull’orto sul retro, ascoltava.
Presi l’abitudine di andarci quasi tutti i giorni. Il loro accogliermi a braccia aperte, il parlare con loro, mi accorgevo che mi faceva stare bene.
Poi un giorno tua madre, impegnata a pulire i piatti nel lavandino con una spugna, si girò a guardarmi mentre io e tuo padre fumavamo, io una sigaretta e lui il suo sigaro, e mangiavamo dell’uva. Capii che voleva dirmi qualcosa d’importante. Guardò tuo padre con uno sguardo intenso da farmi paura e lui intuì al volo, annuì e mi mise una mano sulla spalla.
«Ti vogliamo far vedere una cosa».
Uscimmo sul retro. L’aria era fresca e la luce rimbalzava sulla rugiada che si era posata grazie alla pioggia della notte precedente. Camminammo senza fretta per venire a trovarti. Sentivo la presenza di spiritelli benevoli intorno a noi.
Vedendoti in quella foto consumata dal tempo ebbi un sussulto. Un mistero dentro di me ti riconosceva come familiare, conoscevo già quei tuoi capelli lunghi e biondi come il grano, il tuo vestito lungo nel quale correvi verso una figura sulla destra dell’immagine che non si vedeva, nella tua mano un mazzetto di denti di leone che probabilmente avevi raccolto tu stesso, tutte queste cose appartenevano già al mio spirito.
«Nostro figlio, Cesare», disse tuo padre.
Guardai la foto e rimasi zitto. Ogni parola era superflua.
La luce del sole, le mani nervose di tua madre che teneva sul petto, lo sguardo di tuo padre, tutto questo parlava.
Rimanemmo lì per una decina di minuti, poi, con naturalezza, tornammo in casa. Io e tuo padre ci sedemmo di nuovo a tavola e tua madre tornò a pulire i piatti nel lavandino. Poteva sembrare che non fosse successo nulla.
Tuo padre, solito sempre a lasciar parlare la moglie, prese parola e mi raccontò di te, di com’eri un bravo bambino, di come ti piacesse giocare nel fiume poco lontano da qui, arrampicarti sugli alberi del giardino e urlare che non saresti mai sceso, di quando ti mettevi i tuoi vestiti lunghi che svolazzavano mentre correvi e ballavi per il giardino con gli altri bambini e seguivi soprattutto i ragazzini di cui t’innamoravi con cui andavi a nasconderti per mangiare fichi. Era bellissimo, credimi, mi ripeteva tuo padre con la sincerità che solo un padre affettuoso può darti, saranno già quasi dieci anni, raccontava.
Il fiume poi ti chiamò a te, come fa con tutte le cose belle.
Stavi facendo i soliti giochi con gli amici, nuotavi, ridevi, vi sfidavate.
E il tempo, dal nulla, cambia.
Il vento si alza.
E tu, Cesare, dopo aver nuotato già per tutto il giorno, ti accorgi di non avere più le forze per combattere la corrente del fiume. Gli amici ti tengono per le braccia, cercano di tirarti su ma neanche loro c’hanno le forze, sono gracilini, allora due rimangono a tenerti lì fermo, la corrente continua a salire, mentre altri due del gruppo vengono in bicicletta a chiamare tuo padre.
Racconta lui: «Appena me lo vengono a dire, figurati, io inizio a correre come un matto, come non ho mai corso in vita mia, inciampo, mi faccio male ma non m’importa, arrivo fino al fiume ma lì trovo i due bambini per terra che piangono. Ero arrivato troppo tardi».
Dice questo abbassando la testa. Vorrei mettere la mano sulla sua spalla ma non lo faccio.
Poi sussurra: «La corrente s’era portato via il nostro piccolo. E lì io sono morto, e pure mia moglie».
Tua madre, intenta a sistemare sul tavolo della cucina una cassa di melanzane, appoggiò le mani sul tavolo e fece un respiro profondo per trattenere i singhiozzi in gola.
Una squadra di dieci persone poi perlustrò il corso del fiume per chilometri non appena rasserenò. Portarono avanti le ricerche per più di una settimana ma non riuscirono nemmeno a trovare un tuo piede o un braccio. Si arresero. Non i tuoi genitori, loro continuarono a cercarti tutti i giorni per quasi un anno, finché il signore Iddio stesso, manifestandosi nella luce sui campi e nel vento, sembrava dirgli che non c’era nulla da fare. Dovevano solamente accettare che gli era stato portato via il loro bene più prezioso. Non sono più andati al fiume dopo aver preso quella decisone.
Ed eccoci ai giorni nostri, che trascorrono lenti, alla croce di legno messa lì in tuo ricordo, al loro celebrarti in modo semplice per cercare di dirti, ovunque tu fossi, che non ti avevano dimenticato e mai l’avrebbero fatto.
Tuo padre, finito di parlare, si alzò con un sorriso e andò a sedersi nella sua poltrona a guardare fuori la finestra mentre tua madre metteva le melanzane in una pentola sopra il fuoco. A breve avrebbe iniziato a preparare la cena e, sentii intuitivamente, io ero invitato.
Dopo un po’ mi feci coraggio e chiesi: «Perché mi avete raccontato tutto questo?».
Tua madre e tuo padre si guardarono e si scambiarono tra di loro un sorriso complice ma anche leggermente imbarazzato.
Poi tua madre disse: «Un po’ gli assomigli. È stata la prima cosa che ci siamo detti appena ti abbiamo visto».
Accennai un sorriso. Non riuscivo a capire dove i loro occhi vedessero una somiglianza ma sapevo che era un’investitura importante.
I loro volti mi parvero sollevati, come se si fossero tolti un gran peso.
Tornando a casa dopo la cena, girai la testa verso est nel cielo notturno senza stelle per vedere se si scorgeva il fiume ma non lo intravidi.
Forse il tuo spiritello vagava ancora da quelle parti, sulla riva.
Gerardo Novi