Estrema misericordia – racconto di Silvia Roncucci
Redazione2025-10-27T09:32:36+01:00I randagi si stanno avvicinando al carro su cui si trova, quando gli torna in mente la profezia.
Rivede il cumulo di pelle e ossa vestiti di stracci che aveva osato presentarsi alla sua dimora. Riconosce il braccio del sacerdote che si solleva verso di lui, il dito puntato contro il suo volto, mentre una visione oscura gli occhi del religioso e dalla bocca gli esce una voce sovrumana. Descrive con esattezza ciò che sta accadendo in questo momento.
Si volta verso la ruota spezzata e i cani che gli si fanno sempre più addosso, allunga i piedi scalciando, grida di andare via, la voce rotta dal panico, il sudore che cola sui tagli delle labbra impregnandole di sale. Elia aveva previsto tutto: neanche una virgola dei suoi discorsi si è rivelata sbagliata, finora. Solo un istinto di sopravvivenza naturale quanto insensato spinge l’uomo a sperare che Jahvè voglia cambiare un destino già scritto.
I cavalli sentono la stretta delle briglie indebolirsi, strattonano il cocchio incalzati dai randagi rimasti a digiuno chissà da quanto e arrivati sul campo di battaglia per avventarsi sui corpi morti e moribondi, dissetarsi del sangue delle loro ferite. Il cocchiere trattiene il respiro, per un pelo non cade a terra. Il suo sguardo appannato dal terrore quasi non vede la lotta che infuria attorno, né sente le ultime parole di supplica dei soldati che hanno giurato di proteggere fino allo stremo delle forze quella terra e che ora ci sputerebbero sopra per un istante di vita in più. La mente dell’uomo in punto di morte riceve il dono opposto a quello del profeta: rivivere il passato con maggiore chiarezza di quando gli eventi sono accaduti.
Ecco che sente le labbra di Gezabele posarsi sulle sue e osserva il sorriso sfacciato della donna brillare, mentre lo ringrazia di aver ascoltato il suo consiglio e gli promette una ricompensa, quella notte stessa, tra lenzuola profumate. Il dio osannato da Elia, avevano detto quelle labbra, non contava nulla: è a Baal che si dovevano votare. Bisognava dare un calcio al miserabile sacerdote, così da non avere più intorno la sua faccia rinsecchita, quella fronte increspata, la lingua sempre pronta a giudicare. Non pensava, lui, sciocco re preda dei sensi più abietti, che Gezabele discendeva da Eva e che da lei sarebbe nata tutta la stirpe di femmine maliarde e fallaci che hanno riempito la terra di Giacobbe.
Sulla cima del monte Carmelo riconosce gli altari innalzati alle due divinità, segno della sfida per scoprire quale fosse la più potente. L’odore del fumo gli invade le narici, le immagini delle vacche di Elia che ardono sotto i colpi delle fiamme inviate dal suo dio sono nitide. Quando i fuochi avevano compiuto il proprio dovere, le nuvole nere sopra l’ara del profeta si erano ritirate, lasciando spazio a un sole rotondo. Per quanto lui e Gezabele avessero aguzzato l’udito e scrutato ogni centimetro di blu sulle loro teste, non c’erano stati né fuoco, né fulmini, né segni di altro genere, sull’altare eretto per Baal. Le bestie erano ancora intatte. Come il cielo sopra di esse. Il dio che avevano scelto di venerare non si era fatto vedere e questo significava solo una cosa.
Sfrega il palmo sulla fronte sporca di polvere. La stessa che aveva sparso sui capelli per mostrare il suo pentimento, lo stesso terreno dove si era inginocchiato davanti a Elia quando non c’erano più dubbi che il vecchio avesse ragione. Che la siccità e la carestia e tutte le altre sciagure cadute sul regno erano state un avvertimento per la scelleratezza di un re – lui, Acab lo stolto, Acab il lussurioso – che aveva scelto di stare dalla parte sbagliata.
Forse il destino di un uomo cambia se è l’uomo a cambiare per primo. Può darsi che Jahvè tenga conto del suo ravvedimento. Delle ginocchia sforzate a piegarsi di fronte a un semplice sacerdote, delle lacrime che gli correvano lungo il viso mentre scongiurava Elia di perdonarlo. Di quelle che lo bagnano in questo momento.
Pensa a questo, Acab, poco prima che il cocchio dia un ultimo scossone e si infranga contro una roccia. I cavalli si staccano, fuggono tra il polverone, è inutile che gli occhi dell’uomo cerchino di seguirne la corsa. Quel che resta del carro è abbandonato a terra. Sulla fronte di Acab si è aperto uno squarcio, il corpo pulsa di dolore. Lo schianto ha fatto tornare la lucidità al re rimasto senza trono, né regno, né decoro. Solo con la piccola speranza di godere dell’estrema misericordia divina. Si accoccola contro la pietra, non c’è spazio, non c’è tempo per scappare. Mentre mormora una preghiera, l’ultima cosa che Acab vede sono gli occhi dei cani selvatici. Ardono, fissi su di lui.
Silvia Roncucci