E di porpora sarebbe annegato ancora – racconto di Arianna Cislacchi

E di porpora sarebbe annegato ancora – racconto di Arianna Cislacchi

Fu una notte d’autunno a far riverberare il canto delle campane.
Già s’era avvertito un vuoto nell’aria, dai sepolcri di Soncino, un’apertura tra il mondo dei vivi e dei morti: il petto del Tiranno tremò in un sospiro per poi arrestarsi, come un soffio d’inferno, mentre le membra s’erano irrigidite per sempre. Il condottiero che aveva seminato terrore in vita, era spirato, cullato da tiepide correnti. Andarsene con tale privilegio, in silenzio fino all’ultimo battito, in una vita dipinta dalle grida altrui, e il dolore, e le sofferenze inaudite, era difficile da accettare. La terra con lui era stata poco esigente, troppo tollerante, ma meno lo sarebbero state le terre più nere. E là sotto, nel regno penitente martoriato dalle fiamme, un fiume di sangue avrebbe reso giustizia, e di porpora sarebbe annegato ancora, e ancora, e ancora, ripetute volte, Messer Ezzelino, dall’oscura peluria e gli occhi di tenebra. Che prima o poi, tutte le anime devono pagare pegno. Nessuno in battaglia né lungo i villaggi s’era immaginato tale crudeltà, non una bestia, ma una bestia umana, un ibrido d’odio e ferocia inspiegabile, perché certi esseri ci nascono con quel sangue. La rabbia e la vendetta gli scorrono dentro dal primo palpito in ventre. Ma, d’altronde, come ben siamo abituati, il mondo difficilmente era araldo di giustizia e il volgo ancora non sapeva che la semina omicida non s’era conclusa.
Accadde che di notte, mentre si udivano a pianterreno gemiti soffocati, come bocche in fondo al mare, e si godeva della punizione demoniaca, in superficie, sull’orlo di una fredda lapide, dagli organi putrefatti qualcosa si mosse, e quel qualcosa spinse, squarciò, erose ciò che poco ancora era rimasto di pelle e brandelli, e solo le ossa sopravvissero prima di divenir cibaria randagia; così l’evaporazione di quel corpo gremito di morte s’accelerò come un cavallo in corsa ed Ezzelino il Tiranno mutò aspetto e dalla bocca uscì un sospiro come quella sera d’autunno, un sospiro caldo e fatale di chi nasce dal puro zolfo e lì si annida in trepida attesa del sorgere del sole. Nessuno fu testimone di rinascita, soltanto i nomi scolpiti di persone che avevano varcato l’apertura e s’erano chiuse quel buco alle spalle, esistenze affaticate dal duro lavoro di vivere, ombre di altre ombre, e i cipressi piegati al vento lombardo che perseguivano una vita differente e statica, ma non per questo meno importante. Il volto in decomposizione si sciolse, come cavalcato da onde acide, e si videro dita ossute, a guardar meglio più scarne di quelle umane, schegge ricoperte di scaglie dorate e rubino, venir fuori e cercare spazio agguantando un cielo che era ancora troppo distante. Dall’alto discese una pioggia improvvisa, una tempesta sospinta dalle anime defunte, una grazia, una venerazione per ciò che stava emergendo. Ogni cosa si piegava in devozione o schiavitù verso lo spirito che prendeva vita, ma non era Ezzelino quello, i demoni non si sarebbero certo liberati del divertimento laggiù tra i rigetti dello Stige. Era un altro tipo di rinascita, un mandante dell’oscurità intoccabile, qualcosa che si tramandava di voce in voce, di canto in canto e che era incubo di cavalieri e regnanti. Qualcosa che sfiorava le vesti di Dio. Reso il cadavere una poltiglia rossa, la creatura alata produsse un verso affilato nell’aria. Calpestò la pietra e con gl’artigli radicò la sua potenza dinanzi ai morti. Il petto illuminatosi d’arancio scaldò gli organi, sviscerò vertebra dopo vertebra fino alla punta della coda. Il muso, alzato verso le nuvole, schiuse le fauci e respirò per poi gridare ancora una volta. Voleva esser udito, che tutti fossero a conoscenza della sua presenza in terra. Tarantasio, partorito dai ventri più crudeli, stirpe di Draghi Cacciatori, essenza di fame e di morte, con l’anima a far battere più di un cuore, organi vitali che seminavano panico e genocidi dall’atto della creazione. Lui, grande quanto una quercia, dagli occhi d’ambra e possenti, da secoli saziava il mondo d’epidemie, ricercando anno dopo anno un involucro perfetto. Un nocciolo predestinato a danni irreversibili non poteva che nascere da un guscio di tirannia e ardore. Si voltò verso ciò che era rimasto di Ezzelino e con sguardo impassibile ringraziò la sua sete mostruosa.
Tarantasio cominciò ad avanzare verso la città; rimase in ascolto dell’eco prodotto dalla sua bocca e si cullò d’aver acceso incubi al popolo insonne. Mentre ciondolava la coda, cominciò a rimpicciolirsi, passo dopo passo: sapeva di non poter giungere dal nulla con quel suo aspetto mastodontico e spaventoso, come fecero in passato alcuni suoi antenati bramosi e narcisisti. Lui era diverso, lo aveva sempre saputo. Amava svolgere un lavoro meticoloso, subdolo, celato da maschere ingannevoli poiché conosceva gli esseri umani e non v’era specie più bugiarda. Si sarebbe mescolato facilmente, tra loro. La saggezza e la magia di cui era catalizzatore gli avrebbero donato un aspetto piacevole, attraente. Certo, costretto a mostrare un corpo più minuto, fragile, rispetto alle origini. Ma a dirla tutta, non gli era mai dispiaciuto mutare. Spezzava la consuetudine delle leggende.
Quando varcò la soglia del paese, il sole stava sorgendo. Era uno spettacolo affascinante, cui era poco abituato. In ogni rinascita, si godeva almeno un’alba. Aveva un effetto benefico su di lui. Un appuntamento fisso, con quella stella che bruciava della sua medesima fiamma. Si fermò nelle vicinanze di un mercato già in fermento: uomini e donne sbucati dal nulla come topi, correvano e distribuivano banchi e panche di legno, cibarie, tessuti pregiati, e gioielli, ed ecco in un istante che s’era alzato il profumo di pane lungo le vie. Dei bambini gli sfrecciarono accanto, si scostò appena seguendone il gioco. Percepì una morsa allo stomaco. I lineamenti ormai umani faticavano a distendersi. Aveva l’aspetto di un giovane uomo dai capelli lunghi e scuri, alto, con un fisico asciutto e tornito, d’abbigliamento semplice ma che stuzzicava il pensiero di una vita fatta di agi e comodità. Solo le iridi brillavano di potere, ambrate come pietre preziose che non smettevano mai di perlustrare, scavando dentro ogni passante. Non aveva più di un tramonto per portare a termine il suo compito. Strinse le mani, inspirò a pieni polmoni; poi, accompagnato da una brezza calda e invisibile, cominciò.
Soncino venne avvolta da un calore torrido e inusuale, non quel tepore settembrino cui gli abitanti erano avvezzi. Il torrido divenne torrenziale, e le strade furono cosparse di nubi giallognole, come clima di deserto, un fiume intangibile di microbi che marciavano indisturbati nei bronchi per poi raggiungere i polmoni più minuti e grossi, e lì riposarvisi, in un sonno eterno. Le persone disperate altro non facevano che domandare al Signore cosa mai avessero fatto di male, forse non avevano pregato abbastanza, forse non erano buoni a vivere. Urlavano, scivolando a terra, trascinandosi per le mura, tirando le porte dietro sé, chiusi in casa o adagiati al sole dei davanzali. S’erano fatti sacrificio e piangevano all’ombra di una morte prematura. I bambini, a sacchi, svanivano come chicchi d’uva, ingoiati per magia da Tarantasio che si muoveva con astuzia, e pareva sempre agli occhi del mondo una figura angelica giunta in salvezza; ma la creatura di salvezza non possedeva nulla, non era santo né demone, bensì prodotto immaginario e collettivo, uno dei tanti incubi che prendeva vita e si alimentava del terrore altrui. Nessuna lacrima o gemito era abbastanza straziante alle sue orecchie, procedeva sterminando e divorando in assoluto silenzio, con una solennità da far invidia ai seguaci dei cieli.
Il tempo era sull’orlo dello scadere, le ore passarono veloci. Se ne accorse quando i raggi della sua stella preferita scivolarono dietro un manto d’alberi, colorando di rosso i tetti delle case, scaldando sempre meno la paglia e la pelle. Un sipario dorato sfumava nelle note più blu che solo una notte ricca di stelle poteva donare. Tarantasio rimase a lungo lì, immobile, a godersi l’arrivo del tramonto, ma non troppo a lungo perché aveva ancora una dimora da sistemare. Aveva sempre sognato di assistere a un tramonto completo, ma non gli era possibile. Allo scoccare della sera, Tarantasio veniva rispedito nelle terre profonde e lì restava in attesa di una nuova rinascita. Tornò ai suoi doveri e raggiunse l’ultima casa lombarda. Non si premurò di bussare, solo uno schioccar di dita, ed ecco che la porta si spalancò. Tuttavia, quando si insinuò nell’oscurità dell’ingresso, s’accorse che qualcosa non tornava; c’era uno strano odore, un’essenza rarefatta, e non causata dai suoi poteri. Avvertì lungo la spina dorsale un peso, come avesse il corpo costretto da imponenti catene. Si guardò attorno, ma tolte le persone che abitavano la stanza, non vide nessun altro. Sollevò le dita e sfiorò l’aria, e questa spostò a sua volta minuscoli granelli, dai colori rossastri. Fece un passo, e quegli esseri umani cominciarono a mormorare parole incomprensibili, masticate, scuotevano le mani verso di lui, pregandolo di andarsene, di mettersi in salvo. In salvo? Lui? Da cosa doveva mai mettersi in salvo? Lui, stava seminando morte e distruzione. Non poteva nascondersi al riparo da se stesso. Era destino segnato quello, inciso nell’antico. Ma cosa potevano saperne quegli inetti, privi di fratellanza e amore. Amore. Quella parola scosse le sue membra, e nell’istante in cui la pronunciò in testa, vide una donna avvicinarsi a una culla di legno. Era completamente ammantata di nero; si chinò e scorse appena le labbra rosee. Sorrise, prima di ceder un bacio sulla fronte a una creaturina minuscola avvolta da un panno. Tarantasio si avvicinò, ma l’urlo inumano del neonato lo piantò dov’era. Che grido era mai quello? Così potente, acuto, spaventoso. Non sembrava appartenere ai suoni cui era abituato udire. I bambini se li mangiava prima ancora che questi potessero aprir bocca; prima ancora che potessero realizzare. In vero, provava compassione per loro. Tutti i cuccioli delle specie esistenti, mostruosi o meno, rappresentavano l’inizio, la fatica di venire al mondo, lo sforzo di accedere al senso della vita. Provava rispetto per loro. Per tale ragione, li addormentava con un soffio e soltanto dopo, li divorava. Era clemente, non come i suoi avi. Forse, non così crudele come s’era sempre immaginato. Ma ecco che quella figura stava rovinando la perfezione del suo dipinto. Gli adulti ormai al culmine delle energie si accasciarono a terra, ricoperti di macchie e febbre. I loro corpi sfibravano esausti, tremando ai suoi piedi. Tarantasio si mosse con rabbia, cercando di ignorare il lamento che si affievolì poco dopo in una pozza di sangue.
“Chi sei tu? Cosa hai fatto a quel bambino”.
La donna apparve da sotto il cappuccio, con un viso disteso ed eterno, di bellezza incastonata ma non priva di imperfezioni, e due occhi di pece che scrutavano senza perdono. Accarezzò l’infante, poi osservò la stanza e la gente che moriva in silenziose atrocità.
“Non sei stanco di questa vita, Tarantasio?”
Il drago indietreggiò. Avvertiva una pulsazione a livello dell’osso sacro, la coda premeva rabbiosa pronta ad uscire. Sentiva i vestiti stretti, il petto gonfiarsi. Non era ancora tempo di trasformarsi.
“Sta facendo buio, Tarantasio. La tua missione non è ancora finita”.
“Chi sei, e come fai a sapere chi sono? Da dove provieni?”
La signora tardò qualche istante, poi sospirando, regalò un sorriso docile come quello che aveva mostrato alla creaturina prima di disintegrarla.
“Sono una vecchia amica. Molto più di una conoscenza. In vero, io e te camminiamo da secoli, uno accanto all’altro. Solo che adesso, vedi, credo che questo sia abbastanza anche per uno come te. Sei diverso, dagli altri. Lo so bene, lo so come lo concepisci tu”.
La mano di lei si allungò, indicando dentro e fuori casa, irrigidendo i lineamenti.
“In fondo, ti incuriosiscono questi umani, vero? Il loro vivere che credi privo di sensazioni, il loro tradimento, il mancato amore, le loro gioie e i loro dolori. E poi tutte queste albe e tramonti che attendi intrepido e desideri assorbire in te, come il ricordo più caldo delle tue fiamme. Non vorresti anche solo per poco, sentirti così, come loro, Tarantasio? Non vorresti inspirare pochi attimi di vero battito umano?”
La creatura chiuse gli occhi. Avvertì un tremore dentro e la coda impaziente scaturì dietro seguita dalle vertebre che, spezzando la pelle, si mostrarono come uno scheletro puro e incontaminato; avvertì la mascella sgretolarsi, mentre una più grossa spingeva per riemergere. Gli occhi ambrati brillavano sulla donna.
“Io… Io voglio solo portare a termine il mio compito”.
Ma mentre lo mormorava, avvertiva un senso di angoscia negli organi vitali, e desiderava che la mutazione rallentasse e non scoppiasse nell’immediato. C’era qualcosa che mancava, gli mancava. Qualcosa che non era andato come le altre volte e che adesso fioriva come un’opportunità. Ripensò all’infante nella culla.
“Lo porterai, Tarantasio. Sono qui, mio compagno, per offrirti uno scambio. Pochi minuti prima che tramonti il sole, ad assaporare una vita diversa che hai sempre ammirato da lontano e a cui non potrai mai adempiere. In cambio…”
Tarantasio strinse i pugni, mentre gli artigli scavavano oltre il palmo, allungandosi ferocemente.
“In cambio, voglio essere io a mietere l’ultima vittima. D’altronde, questo compito mi spetta di diritto. Per una volta, voglio che tu mi ceda il passo, e ti faccia da parte”.
Il drago che non poteva più fermare la trasformazione cominciò ad agitare il corpo grosso e massiccio, e mentre mutava scuoteva il capo, carico di orgoglio. Ma non appena lo sguardo si posò alla finestra e intravide i raggi luminosi, capì che nulla avrebbe sostituito quell’occasione. E desiderava, come tutti gli umani in terra, poter vedere un tramonto.
“E sia”.
Nell’istante in cui pronunciò quelle parole, la Morte lo avvolse nel suo mantello; in pochi attimi, il corpo di Tarantasio ritornò come prima, d’uomo giovane e forte, e la peluria e gli odori che si portava appresso non più di zolfo e calura, ma di muschio, vaniglia, grezzi e profondi. Fece due respiri e si toccò il petto. Avvertiva un cuore battere, un solo cuore, e nessuna pulsazione, nessuna coda o vertebra, alcun artiglio a ferire l’aria, una mascella perfetta, dei denti che desideravano mangiare qualcosa e bere, bere acqua.
“Fa presto, hai pochi minuti”.
Tarantasio non se lo fece ripetere, si scostò dalla donna e aprì la porta di casa. Guardò fuori e finalmente, la stella più vicina salutava la sua presenza, l’attendeva come il più importante dei re, amante irraggiungibile. Cadde con le ginocchia a terra mentre alzava le braccia verso un tramonto ormai preminente. Intorno, il silenzio aveva sepolto lamenti e agonia, v’erano cumuli di sabbia e cenere, il vento lombardo ripuliva ogni cosa, soffiando sulle strade di Soncino mentre il cielo notturno dava spettacolo abbracciando ogni cosa come una fredda coperta. Le ombre svanirono, dando posto alle stelle, e le costellazioni, e una luna che timida si ergeva all’orizzonte scambiandosi col sole che crollava devastato dalle visioni crudeli.
“Meraviglioso”.
Il corpo di Tarantasio si colorò di rosso e viola, di indaco e bluastro, accoglieva avidamente quel tramonto che aveva sempre sognato e non credeva ne avrebbe visti di più belli. Ma mentre stava là, dimenticando il mondo attorno, il mondo non s’era scordato di lui né della sua tirannia. E così, mentre le lacrime, novità assoluta in vero, scivolavano sulla pelle scottata, percepiva addosso un dolore intenso che si ramificava in ogni dove, distruggendo pezzo per pezzo le sue ossa, i muscoli, e gli organi a uno a uno, polverizzati, cosparsi di microbi a lui sconosciuti poiché l’artefice del male non poteva conoscere davvero i suoi parassiti. A meno che questi non invadessero il creatore. Mentre Tarantasio cercava di trasformarsi inutilmente e il sole era ormai scomparso, avvertì una presenza alle spalle. La donna, inginocchiata accanto a lui, gli accarezzò i capelli, scuotendo il capo.
“Ti auguro il migliore dei sonni, amico mio. Al resto ci penso io, d’ora in poi. Riposa in pace”.
La creatura fissava il vuoto, immobilizzata dall’epidemia, e solo per un istante riuscì a scorgere la Morte in viso; essa gli donò un bacio sulla fronte, prima di allontanarsi. Tarantasio rimase solo col suo dolore, un dolore che stava abbandonando il corpo con una dolcezza che forse nemmeno meritava. Lo desiderava davvero, quel tramonto. Respirò un’ultima volta, prima di abbandonarsi allo sguardo delle stelle.

Arianna Cislacchi

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