È appena oltre l’orizzonte – racconto di Sarah Manciocchi Robak

È appena oltre l’orizzonte – racconto di Sarah Manciocchi Robak

È appena oltre l’orizzonte, da sempre. Ciò a cui ambiamo, la terra promessa, la nostra.
Questo ci dice Mosè da immemore tempo: che là troveremo la pace, sì, là, appena oltre. Ancora un giorno, sì, ancora, ancora un anno. Persino da questo nulla riusciamo a crederci, se a vicenda ce lo ripetiamo spesso: tutto sta solo andando a posto. E anche noi, nel tutto: anche noi stiamo andando a posto; anche noi lo stiamo trovando, il nostro.

Per trentanove anni – assistendo allo svolgersi dei fili genealogici, generando figli – abbiamo camminato sognando il dopo, vagheggiandolo, tessendone il racconto: ci sarà una terra che sarà nostra, una terra di pace e piacere. E poi in coro: sì, teniamo duro; sì, ancora un giorno, ancora un anno. Sì: stiamo arrivando.

Mosè dice che in chi viene lungamente cullato dal nulla tutt’attorno (violenza e solitudine – dice – anche se siamo insieme) germoglia un’anomala capacità di senso. Da qualche tempo, la notte, lo sentiamo alzarsi e allontanarsi dalle tende: cammina nel buio, scompare oltre le dune. La mattina, poco prima dell’alba, alcuni dicono di averlo visto tornare di soppiatto muovendosi rigido col passo svelto, lo sguardo fisso.

Fiduciosi, coi corpi bardati, verso la terra promessa avanziamo. Là, figlio mio – dicono i padri – troveremo una pace che nemmeno immagini. Là – chiedono i figli – dove pianteremo le tende? E i padri rispondono allargando le braccia, trattenendo a stento per la gioia le risate, poi formano con le mani un tetto, dicendo: no, niente più tende, là avremo delle case; delle case vere, finalmente. Eppure, là – dicono di aver sentito Mosè farfugliare fra sé, un giorno, a capo della carovana umana – là sarà un paese di pace spaesante, nessuna tregua nella tregua a cui non si è mai stati avvezzi, nessun respiro per polmoni atrofizzati come i nostri.

Non si parla mai del prima, di norma, solo del dopo: ogni giorno, senza posa, dell’orizzonte verso cui stiamo marciando ritessiamo il senso. Da qualche tempo però Mosè sembra essersi disinteressato: si è fatto taciturno. Si è fatto schivo. E se torniamo a domandargli, sperando in un conforto, lui si limita a tenerci addosso a lungo gli occhi foschi; poi volta il capo, torna a trascinarsi.

Per trentanove anni, protetti dalla promessa di una terra nostra, del dopo benedetto, abbiamo camminato sospinti dal racconto: sì, teniamo duro ancora un anno, ancora, sì, ancora un passo. Ma ora capita sempre più spesso che qualcuno, sfiancato dalla calura del mezzogiorno, chieda al suo compagno di viaggio, al più prossimo: siamo sicuri che la direzione sia quella giusta? E se ci fossimo sbagliati? E se il vecchio si fosse perso? E se da tempo, ormai, vagassimo in cerchio?

Di frequente, contagiati dal dubbio, alcuni iniziano a dar adito all’ipotesi dello sbaglio: la terra promessa forse non esiste – dicono – la terra promessa potrebbe essere altrove, in un’altra direzione. No – replicano altri, animati dalla fede – no, impossibile: è appena oltre l’orizzonte, da sempre. Ci si deve credere. L’imperativo resta uguale: avanzare. Avanzare.

Mosè ora la sera non si corica nemmeno: passa le notti lontano. All’alba, con lo sguardo allucinato, al sorgere del sole lui insorge nel discorso e rivolto altrove ci dice di roveti ardenti, roveti parlanti, ierofanie ferventi, significati altri. Non risponde più alle nostre domande, non pare nemmeno sentirci. I suoi discorsi sono diventati soliloqui, inni lirici. A volte, col capo scoperto sotto al sole rovente, lo sentiamo invocare l’oro e l’azzurro, il fuoco, l’argento: chiede di essere reso come loro. Chiede un riscatto.

Sempre più spesso si sentono i figli lamentarsi come mai prima avevano fatto, piangere per il caldo e per la sete, per i piedi doloranti. I padri li consolano poco convinti. Dicono: tieni duro, figlio mio, là troveremo una pace che nemmeno riesci a immaginare, adesso. Ma ripetono sempre le stesse frasi, non li guardano in volto.

Per trentanove anni abbiamo camminato sognando il dopo, vagheggiandolo, tessendone il racconto. Ora, digiuni di parole, prostrati dall’arsura arranchiamo a stento. Alcuni dicono di aver sentito Mosè parlare al sole cocente. Dicono che – scottato in viso e ovunque – affermasse di sapere che cosa c’è davvero oltre il deserto. Dicono che, debolmente, con le braccia rivolte al cielo farfugliasse: violenza e solitudine, anche se siamo insieme, anche se è finita, ormai, la persecuzione.

Sarah Manciocchi Robak

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